Gli ultimi momenti di san
Francesco
Volgeva
ormai al termine la giornata del 3 ottobre del 1226 quando il diacono Francesco,
profondamente indebolito nel corpo lacerato dalla malattia che vulnerò la sua vista,
segnato indelebilmente con le Stigmate della Passione del Cristo alla cui
sequela si era adoperato, rendeva la sua anima – temprata dall’austerità di vita, forgiata dalla carità
e alimentata dalla lode incessante - al
Signore.
Ma
come si susseguirono quei momenti supremi nei quali il Serafico Padre si
appressava ad andare incontro a “sora nostra morte corporale” che si susseguivano alla Porziuncola? È infatti
proprio alla Porziuncola che Francesco, percependo con nitore l’abbreviarsi del
suo cammino terreno, il luogo che egli scelse di farsi portare dai suoi frati,
quel piccolo e semplice sacro luogo da
lui stesso riparato e restaurato affidatogli dai benedettini ove – tra le altre cose - fondò, affidandola alla protezione della Madre di Dio, la
famiglia dei Minori.
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Giotto: Il Transito di san Francesco |
San
Bonaventura da Bagnoregio – il “doctor seraphicus” amico dell’Aquinate - nella sua Legenda
Major ci restituisce un ampio e dettagliato resoconto
che qui ritengo di fare cosa utile nel riportarlo.
«Finalmente,
avvicinandosi il momento del suo transito, fece chiamare attorno sè tutti i frati del luogo e, consolandoli
della sua morte con espressioni carezzevoli, li esortò con profondo affetto
all’amore di Dio.
Si
diffuse a parlare sulla necessità di conservare la pazienza, la povertà, la
fedeltà alla santa Chiesa romana, ma ponendo sopra tutte le altre norme il
santo Vangelo.
Mentre
tutti i frati stavano intorno a lui, stese sopra di loro le mani, intrecciando
le braccia in forma di croce (giacché aveva sempre amato questo segno) e
benedisse tutti i frati, presenti ed assenti, nella potenza e nel nome del
Crocifisso.
Inoltre
aggiunse ancora: “State saldi, o figli tutti, nel timore del Signore e
perseverate sempre in esso! E, poiché sta per venire la tentazione e la
tribolazione, beati coloro che persevereranno nel cammino iniziato! Quanto a
me, mi affretto verso Dio e vi affido tutti alla Sua grazia!”
Terminata
questa dolce ammonizione, l’uomo a Dio carissimo, comandò che gli portassero il
libro dei Vangeli e chiese che gli leggessero il passo di Giovanni, che
incomincia: “Prima della festa di Pasqua... (Gv. 13, 1)”.
Egli,
poi, come poté, proruppe nell’esclamazione del salmo: “Con la mia voce al
Signore io grido; con la mia voce il Signore io supplico” e lo recitò fin al
versetto finale: “Mi attendono i giusti, per il momento in cui mi darai la
ricompensa”.
Quando,
infine, si furono compiuti in lui tutti i misteri, quell’anima santissima,
sciolta dal corpo, fu sommersa nell’abisso della chiarità divina e l’uomo beato
s’addormentò nel Signore.
Uno
dei frati e discepoli vide quell’anima beata, in forma di stella fulgentissima,
sollevarsi su una candida nuvoletta al di sopra di molte acque e penetrare
diritta in cielo: nitidissima, per il candore della santità eccelsa e ricolma
di celeste sapienza e di grazia, per le quali il Santo meritò di entrare nel
luogo della luce e della pace, dove con Cristo riposa senza fine. »
Il
resoconto di Tommaso da Celano in Vita
Secunda ci riporta altri dettagli, ragione per la quale ritengo opportuno
riportarlo :
«
Alla morte dell’uomo - dice il saggio - sono svelate tutte le sue opere. È
appunto ciò che vediamo gloriosamente compiuto nel Santo. Percorrendo con animo
pronto la via dei comandamenti di Dio, giunse attraverso i gradi di tutte le
virtù alla più alta vetta, e rifinito a regola d’arte, come un oggetto in
metallo duttile, sotto il martello di molteplici tribolazioni, raggiunse il
limite ultimo di ogni perfezione. Fu allora soprattutto che brillarono
maggiormente le sue mirabili azioni, e rifulse chiaramente alla luce della verità
che tutta la sua vita era stata divina, quando, dopo aver calpestato le
attrattive di questa vita mortale, se ne volò libero al cielo. Infatti,
dimostrò di stimare una infamia vivere, secondo il mondo, amò i suoi sino alla
fine, accolse la morte cantando. Quando sentì vicini gli ultimi giorni, nei
quali alla luce effimera sarebbe succeduta la luce eterna, mostrò con l’esempio
delle sue virtù che non aveva niente in comune con il mondo. Sfinito da quella
malattia così grave, che mise termine ad ogni sua sofferenza, si fece deporre
nudo sulla terra nuda, per essere preparato in quell’ora estrema, in cui il
nemico avrebbe potuto ancora sfogare la sua ira, a lottare nudo con un
avversario nudo. In realtà aspettava intrepido il trionfo e con le mani unite
stringeva la corona di giustizia. Posto così in terra, e spogliato della veste
di sacco, alzò, come sempre il volto al cielo e, tutto fisso con lo sguardo a
quella gloria, coprì con la mano sinistra la ferita del lato destro, perché non
si vedesse. Poi disse ai frati: “Io ho fatto il mio dovere; quanto spetta a
voi, ve lo insegni Cristo!”.
A
tale vista, i figli proruppero in pianto dirotto e, traendo dal cuore profondi
sospiri, quasi vennero meno sopraffatti dalla commozione. Intanto, calmati in
qualche modo i singhiozzi, il suo guardiano, che aveva compreso per divina
ispirazione il desiderio del Santo, si alzò in fretta, prese una tonaca, i
calzoni ed il berretto di sacco: “Sappi - disse al Padre - che questa tonaca, i
calzoni ed il berretto, io te li do in prestito, per santa obbedienza! E perché
ti sia chiaro che non puoi vantare su di essi nessun diritto, ti tolgo ogni
potere di cederli ad altri”. Il Santo sentì il cuore traboccare di gioia,
perché capì di aver tenuto fede sino alla fine a madonna Povertà. Aveva infatti
agito in questo modo per amore della povertà, così da non avere in punto di
morte neppure l’abito proprio, ma uno ricevuto in prestito da altri. Aveva poi
l’abitudine di portare in testa un berretto di sacco per coprire le cicatrici
riportate nella cura degli occhi, mentre gli sarebbe stato necessario un
copricapo di lana qualsiasi, purché fine e morbidissima.
Poi
il Santo alzò le mani al cielo, glorificando il suo Cristo, perché poteva
andare libero a lui senza impaccio di sorta. Ma per dimostrare che in tutto era
perfetto imitatore di Cristo suo Dio, amò sino alla fine i suoi frati e figli,
che aveva amato fin da principio. Fece chiamare tutti i frati presenti nella
casa, e cercando di lenire il dolore che dimostravano per la sua morte, li esortò
con affetto paterno all’amore di Dio. Si intrattenne a lungo sulla virtù della
pazienza e sull’obbligo di osservare la povertà, raccomandando più di ogni
altra norma il santo Vangelo. Poi, mentre tutti i frati gli erano attorno,
stese la sua destra su di essi e la pose sul capo di ciascuno cominciando dal
suo vicario: “Addio - disse - voi tutti figli miei, vivete nel timore del
Signore e conservatevi in esso sempre! E poiché si avvicina l’ora della prova e
della tribolazione, beati quelli che persevereranno in ciò che hanno
intrapreso! Io infatti mi affretto verso Dio e vi affido tutti alla sua
grazia”. E benedisse nei presenti anche tutti i frati, ovunque si trovassero
nel mondo, e quanti sarebbero venuti dopo di loro sino alla fine dei secoli.
Nessuno
si usurpi questa benedizione, che impartì ai presenti per gli assenti. Come è
stata riportata altrove, ha chiaramente qualche riferimento personale, ma ciò
va piuttosto riferito all’ufficio.
Mentre
i frati versavano amarissime lacrime e si lamentavano desolati, si fece portare
del pane, lo benedisse, lo spezzò e ne diede da mangiare un pezzetto a
ciascuno. Volle anche il libro dei Vangeli e chiese che gli leggessero il
Vangelo secondo Giovanni, dal brano che inizia: Prima della festa di Pasqua
ecc. Si ricordava in quel momento della santissima cena, che il Signore aveva
celebrato con i suoi discepoli per l’ultima volta, e fece tutto questo appunto
a veneranda memoria di quella cena e per mostrare quanta tenerezza di amore
portasse ai frati.
Trascorse
i pochi giorni che gli rimasero in un inno di lode, invitando i suoi compagni
dilettissimi a lodare con lui Cristo. Egli poi, come gli fu possibile, proruppe
in questo salmo: Con la mia voce ho gridato al Signore, con la mia voce ho
chiesto soccorso al Signore. Invitava pure tutte le creature alla lode di Dio,
e con certi versi, che aveva composto un tempo, le esortava all’amore divino.
Perfino la morte, a tutti terribile e odiosa, esortava alla lode, e andandole
incontro lieto, la invitava ad essere suo ospite: “Ben venga, mia sorella
morte!”.
Si
rivolse poi al medico: “Coraggio, frate medico, dimmi pure che la morte è
imminente: per me sarà la porta della vita!”. E ai frati: “Quando mi vedrete
ridotto all’estremo, deponetemi nudo sulla terra come mi avete visto ieri
l’altro, e dopo che sarò morto, lasciatemi giacere così per il tempo necessario
a percorrere comodamente un miglio”. Giunse infine la sua ora, ed essendosi
compiuti in lui tutti i misteri di Cristo, se ne volò felicemente a Dio.
Un
frate suo discepolo, assai rinomato, vide l’anima del padre santissimo salire
direttamente al cielo. Era come una stella, ma con la grandezza della luna e lo
splendore del sole, e sorvolava la distesa delle acque trasportata in alto da
una nuvoletta candida.
Si
radunò allora una grande quantità di gente, che lodava e glorificava il nome
del Signore. Accorse in massa tutta la città di Assisi e si affrettarono pure
dalla zona adiacente per vedere le meraviglie, che il Signore aveva manifestato
nel suo servo. I figli intanto effondevano in lacrime e sospiri il pio affetto
del cuore, addolorati per essere rimasti orfani di tanto padre. Ma la
singolarità del miracolo mutò il pianto in giubilo e il lutto in esplosione di
gioia. Vedevano distintamente il corpo del beato padre ornato delle stimmate di
Cristo e precisamente nel centro delle mani e dei piedi, non i fori dei chiodi,
ma i chiodi stessi formati dalla sua carne, anzi cresciuti con la carne
medesima, che mantenevano il colore oscuro proprio del ferro, e il costato
destro arrossato di sangue. La sua carne, prima oscura di natura, risplendendo
di un intenso candore, preannunziava il premio della beata risurrezione.
Infine, le sue membra divennero flessibili e molli, non rigide come avviene nei
morti, ma rese simili a quelle di un fanciullo.
Era
in quel tempo ministro dei frati della Terra di Lavoro frate Agostino. Da tempo
aveva perduto l’uso della parola, ma, quando giunse all’ora della morte, gridò
tutto ad un tratto: “Aspettami, Padre, aspetta! Ecco, ora vengo con te”. Tutti
i presenti l’udirono e si chiedevano sorpresi a chi parlasse a questo modo.
“Non vedete - rispose con sicurezza - il nostro padre Francesco, che va in
cielo?”. E subito la sua anima santa, libera dalla carne, seguì il padre
santissimo» .
Svolgimento della funzione.
All’altare
del Serafico Padre è esposta la reliquia, ad esso si recano i frati portando in
mano un cero acceso la vigilia della festa di san Francesco circa all’ora della
sua morte o dopo il vespero, oppure il giorno stesso. Il celebrante indossa il
piviale e, fatta la debita reverenza, impone l’incenso e lo benedice. Turifica
la reliquia stando in piedi con due tratti doppi premettendo inchino profondo.
I cantori principiano l’antifona O
sanctissima anima ed intonano il
Salmo 141 (Voce mea ad Dominum clamavi). Dopo il Gloria
Patri e la ripetizione dell’Antifona, tutti – una volta spente le candele –
si inginocchiano e recitano cinque Pater, Ave e Gloria. Si alzano
nuovamente e cantano l’antifona Salve
Sancte Pater. Si inginocchiano nuovamente e due cantori cantano il versetto
Franciscus pauper et humilis caelum dives
ingreditur cui si risponde Hymnis
caelestibus honoratur. Il solo celebrante si alza e canta l’Orazione, una
volta conclusa con l’Amen, canta il Dominus vobiscum e i cantori eseguono il Benedicamus Domino. Il
celebrante rinnova l’imposizione dell’incenso e, premesso un inchino profondo,
incensa nuovamente la reliquia con la quale poi benedice gli astanti. Al
termine la reliquia viene offerta alla venerazione mediante il bacio ai
religiosi e ai fedeli.
Tale
breve e semplice funzione è descritta
così dalle rubriche del Rituale dei minori nelle edizioni in mio possesso e che ho consultato ossia
quella del 1931, edita essendo ministro generale P. Bonaventura Marrani ,
e quella del 1955, licenziata alle stampe durante il mandato di P. Agostino
Sépinski .
Le
rubriche sono estremante doviziose ed esaustive, proprio per questo motivo,
probabilmente, non si trovano riferimenti nel cerimoniale dell’Ordine ,
anzi, la mancanza in esso di qualsiasi cenno alla cerimonia del Transito mi fa ritenere che talvolta essa venisse piegata o per lo
meno influenzata dagli usi locali. Un volume di sacre cerimonie edito negli
anni Quaranta del secolo scorso in seno alla Provincia Veneta dei Minori
(ricordo che storicamente sul territorio esistevano due provincie: una
“riformata” e l’altra “osservante”), si limita a fornire qualche indicazione
brevissima nella parte dedicata alla benedizione con le reliquie .
Qualche variante rituale e
origini.
Proprio
nell’ambito degli usi locali correlati alla celebrazione del Transito di san Francesco, voglio
ricordare il costume di aggiungere in alcuni conventi dei minori della
Provincia veneta di Sant’Antonio (“osservanti”), e in special modo nei
noviziati, il canto della Exortatio
di san Francesco.
Il
testo dell’Exortatio – breve ma denso
ed incentrato sui capisaldi del messaggio francescano e all’ideale di penitenza
e letizia - è sempre stato tenuto in somma considerazione nell’ambito dei francescani,
tanto da comparire altresì nel corpo della Regola,
dalla quale qui trascrivo la traduzione:
«Dilettissimi
fratelli e figli in eterno benedetti, ascoltatemi, ascoltate la voce del vostro
padre: Grandi cose abbiamo promesso, maggiori sono state promesse a noi.
Osserviamo quelle, aspiriamo a queste. Breve è il piacere, eterna la pena.
Piccolo il patire, infinita la gloria. Molti i chiamati, pochi gli eletti;
tutti avranno la loro retribuzione. Amen. »
La
composizione della melodia è del frate nativo di Motta di Livenza (Tv) p.
Leonardo Maria Bello appartenente a quella Provincia, egli – appassionato
cultore di canto gregoriano – divenne Ministro Generale dei Minori e morì, in
concetto di santità, nel 1944. Padre Leonardo musicò le parole del Serafico con
una semplice e fluente melodia del V° modo gregoriano .
Quanto
all’origine pare che il rito del Transito
sia piuttosto recente. P. Eliseus Bruning – che negli anni della restitutio ad codicum fidei del canto
gregoriano si occupò del repertorio dei Minori – opina che essa non sia da
collocarsi che nel XVIII° secolo o al più tardi XVII°, a tale datazione muove
considerando la presenza nei codici dell’Antifona O sanctissima anima (VI° modo) rinvenuta in testimoni di area
francese e nelle Fiandre
. Lo stesso religioso e musicologo presenta un’altra versione di questa
antifona, questa volta del II° modo, che è un adattamento dell’ Antifona O beatum virum della festa di san
Martino (11 novembre) .
La stessa Antifona ho avuto modo di ritrovarla nel supplemento di canto ad uso
dei Cappuccini – edito essendo ministro generale P. Giuseppe Antonio da
Persiceto – e collocata proprio nell’ambito della celebrazione del Transito .
La
funzione del Transito ebbe origine e
crebbe nell’ambito delle devozioni dei religiosi francescani, e pur essendo –
con ogni probabilità – in origine un mero esercizio di pietà, a decorrere dal
XVIII° secolo inizia a comparire con sistematicità in appendice ai Breviari .
Relativamente
all’uso di celebrare la funzione la sera del 3 ottobre o quella del 4 si
trovano varie opzioni. Da Tenderini e Zordan apprendiamo che nei conventi di
quella Provincia si celebrava la sera del 4 ottobre ,
alla Porziuncola si celebrava indifferentemente
il 3 (dopo i primi Vesperi) o il 4 (dopo i secondi Vesperi) e ciò veniva
stabilito sia dal costume dell’Ordine che dalla volontà del Cardinale Legato. Nella
Patriarcale Basilica di Santa Maria degli Angeli, celebrati i Vesperi e tenuto il sermone ci si recava al
sacello del Transito in processione recando i ceri e la croce astile. Per il
resto ci si regolava secondo il Rituale
dell’Ordine . Il Rituale tace dell’uso dei candelieri e
della croce astile, e postula la presenza del solo celebrante parato con il
piviale bianco , viene
da chiedersi – celebrandosi la funzione del Transito
senza soluzione di continuità con i Vesperi di come ci si regolasse circa la
presenza dei pivialisti, ma di questo, al momento, non ho avuto modo di trovare
cenno, testimonianza o menzione. La risposta che mi sembra più verosimile ed
attendibile è che ci fosse un’ampia varietà locale: proprio la recenziorità di
tale funzione liturgica potrebbe aver contribuito e determinato la permanenza
di costumi locali essendo mancato un tempo sufficientemente lungo, tale da
consentire un processo di unificazione, cristallizzazione ed uniformizzazione.
All’insegna
di questa varietà voglio segnalare l’uso dei Recolletti appreso da un Rituale ottocentesco stampato ad Utrecht
per i frati dell’ “Almae Provinciae Germaniae Inferioris” .
Qui la funzione si compie con l’assistenza del diacono e del suddiacono parati
(che ovviamente non ministrano ai Vesperi), la reliquia è portata dal
celebrante all’altare di san Francesco o a quello della Vergine, la “Regina
Ordinis Minorum” (probabilmente in assenza di un altare dedicato al Serafico
Padre) e collocata in loco eminentiori
dal diacono.
Alla
ripetizione dell’Antifona O sanctissima
anima (della quale ho avuto modo di rinvenire una versione melodica diversa
sviluppata nel V° modo gregoriano, indicato anche come XIII° “antiquitus” in
una pressoché coeva edizione di canto fermo di area vicina) i più giovani tra i
fratelli laici raccolgono le candele che sono state spente ed i Pater, Ave e Gloria sono
recitati “brachiis extensis” .
Dopo il Benedicamus si suonano
l’organo e le campane quasi a salutare l’anima di san Francesco che entra nella
gloria del Paradiso.
Qualche
breve parola circa i testi che compongono il Transito. Dell’Antifona O
sanctissima anima che apre la funzione e precede e segue il salmo 141 ho
già avuto modo di dire qualcosa. Il salmo 141 fu quello che accompagnò gli
ultimi momenti terreni di san Francesco, nell’Ufficio esso è il quinto salmo
del Vespero della Feria sexta .
Il
ricorso all’utilizzo di questo salmo, assieme ad altri particolari, quali ad
esempio le candele, il suono delle campane, per certi versi mi fanno ritenere
che il Transito sia una sorta di
“riproposizione drammatica”, dettata ed ispirata dalla devozione dei
francescani, del supremo momento del Serafico Padre. Mi rafforza in questa
convinzione una rubrica del già citato supplemento di canto dei Cappuccini e
del loro Cerimoniale laddove si pone
un’enfasi particolare alle parole “Educ de custodia” cantando le quali san
Francesco spirò. Qui la rubrica recita: “magna devotione et gravitate cani oportet”
.
Quanto alle candele spesso gli artisti che raffigurarono il Transito di san Francesco – ad esempio
il sommo Giotto – non mancarono di rappresentare dei frati presso il capezzale
del Serafico recanti dei ceri accesi. Il riferimento che ho fatto alle campane
è estremamente ovvio giacché ab immemorabili
sono state usate per annunciare sia la nascita che la morte dei fedeli
cristiani.
Come
detto seguono i Pater, Ave e Gloria e quindi si canta l’Antifona del II° modo Salve Sancte Pater. Tale Antifona si
rinviene in codici del XIV° secolo ed è attribuita al cardinale Tommaso da
Capua .
Essa è l’Antifona al Magnificat nei
giorni dell’Ottava di san Francesco secondo l’Ufficio dei Minori .
All’Antifona segue il versetto, eseguito dai cantori, Franciscus pauper et humilis modulato con la melodia solenne che
anche l’Antiphonale Romanum riserva –
per il versetto dopo l’Inno - in diverse feste. L’Orazione che segue è la Colletta
di san Francesco del 4 ottobre ;
la parentesi che circonda le parole hodierna
die, è un’aggiunta apportata evidentemente per sottolineare la collocazione
temporale della funzione e sta ad indicare il fatto che tali parole sono
cantate se la funzione è celebrata la sera della vigilia; esse non hanno
riscontro col testo del Messale.
La
melodia del Benedicamus proposta è
quella delle Lodi nelle Feste di rito doppio presente nell’ Antiphonale Romanum .
L’Officium ac Missa de Festo S.P.N.
Francisci curato da p. Eliseo Bruning – e già citato - propone un tono in
più a scelta per il Benedicamus
desunto da codici francescani di area italica del XIV° e XV° secolo
che risulta identico a quello del Supplementum
di canto gregoriano del’Ordine dei Cappuccini parimenti citato .
Un
breve cenno circa la funzione del Transito
presso i Conventuali così come si trova descritta nel loro Rituale .
Presso tale famiglia francescana la funzione risente di uno sviluppo più ampio
che mi fa propendere per l’idea che essa sia più tarda di quella dei Minori. Anche
presso di loro la celebrazione può avvenire la sera del 3 o del 4 ottobre,
inizia con una processione che muove dall’altare maggiore a quello di san
Francesco al canto dell’Inno Jam noctis
umbra obduxerat che è l’inno riservato nel loro ufficio ai secondi Vesperi
della festa del Serafico Padre .
Giunti all’altare di san Francesco tutti si pongono in ginocchio mentre si
canta l’Antifona O Patriarcha pauperum
Franciscem tuis precibus auge (sconosciuta nel repertorio dei Minori) cui
segue un versetto ed un’Orazione piuttosto lunga. A questo punto si canta –
come presso i Minori – l’Antifona O
sanctissima anima con il salmo 141, cui segue un altro versetto e un’altra
Orazione. A questo punto si intona
l’antifona Salve sancte Pater con il
versetto Franciscus pauper et humilis (come i minori), il celebrante canta
l’Orazione. Segue il Benedicamus Domino,
quindi un cantore canta Jube domne
benedicere ed il celebrante impartisce la benedizione con la reliquia.
Relativamente
a questo uso dei Conventuali, così come della celebrazione di altri Transiti in ambito francescano più
tardivi (es. santa Chiara e sant’Antonio) mi ripropongo di effettuare in futuro
degli approfondimenti.
Seraphice
Pater Francisce, ora pro nobis!
Francesco
G. Tolloi
francesco.tolloi@gmail.com
S. BONAVENTURA DA
BAGNOREGIO, Leggenda maggiore, in Fonti Francescane (a cura di E. Caroli), Padova, Messaggero, 1985 4,
pp. 954 e ss..
Cfr. Rituale Romano – Seraphicum Ordinis Fratrum
Minorum, Editio Altera, Parisiis – Tornaci – Romae, Desclée et Socii, 1931,
pp. 213 e ss..
Cfr. Cantuale Romano - Seraphicum, Editio
Tertia, Parisiis – Tornaci – Romae, Desclée et Socii, 1951, p. 176 ed Epilogus Criticus, p. 389. Per
l’Antifona di san Martino ( trattasi dell’Antifona al Magnificat dei primi vesperi) cfr: Antiphonale Sacrosanctae Romanae Ecclesiae pro Diurnis Horis,
Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1912, p. 764.
Cfr. Proprium Missae ac
Horarum Officii Diurnarum cum cantu ad usum ff. Mm. Capuccinorum, Parisiis – Tornaci – Romae, Desclée et Socii,
1925, p. 288.
Cfr. G. CAMBELL, Liturgia di S. Francesco d’Assisi,
Santuario della Verna, edizioni “La Verna”, 1963, p. 152.
Cfr. Caeremoniale FF. Minorum Recollectorum Almae
Provinciae Germaniae Inferioris, Trajecti ad Rhenum, Van de Weijer, 1884,
pp. 390 e ss..
Cfr. Rituale Romano - Seraphicum Ordinis Fratrum
Minorum Conventualium, Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1942, pp. 81 e
ss. (Il Volume non reca notazione musicale).