Un’osservazione
attenta, precisa e circostanziata delle “pianete plicate” e dello “stolone”,
del loro uso (in particolare nella forma che qui chiamerò “classica” del rito
romano [1]),
della loro genesi e formazione impone come necessaria la premessa che non
stiamo ragionando di paramenti diversi dalla “pianeta” [2]
ma di un diverso modo di indossare lo stesso sacro indumento.
Facendo
una brevissima ma chiarificatrice digressione indico l’analogia con il
caso della stola nella fattispecie nel suo modo di essere indossata sul camice:
il vescovo la porta diritta con le estremità che pendono parallele dalle
spalle; il sacerdote la porta incrociata innanzi al petto; il diacono la
accomoda sulla spalla sinistra per poi farle percorrere in diagonale il busto e
la schiena e unire le sue estremità al fianco destro; sicuramente però non vi è
chi dubiti si tratti di nulla altro se non lo stesso paramento indossato in
guisa differente [3].
È
così per la casula: che essa sia portata distesa, “plicata”, o - come è meglio
dire in lingua italiana - "piegata" nella sua parte anteriore, arrotolata al fine
di accorciarla sul davanti e finanche mozzata in questa parte e usata dai
ministri sacri resta lo stesso paramento. Proprio in tal senso il Merato, nel commentare
l’opera del Gavanto, ammonisce affinchè le pianete - dopo le messe solenni in
cui i sacri ministri indossano le indossano piegate - vadano sciolte dai legacci
o liberate degli aghi che assicurano al petto la loro parte anteriore in modo
che i sacerdoti possano comodamente servirsene per la celebrazione della messa [4]; analogo opinare si ritrova nell’opera del benedettino Michel Baluldry [5];
o ancora da parte del Piscara Castaldo il quale altresì rammenta che le
pianete in uso da parte dei ministri non devono differire per forma e
benedizione da quelle “sacerdotali”[6].
Pianeta piegata (Basilica di S. Maria degli Angeli, Roma) e stolone. |
Quale
corollario di questa, a a mio vedere necessaria, premessa ritengo si possa affermare
che la pianeta diventò “indumento esteriore” di solo ed esclusivo appannaggio
sacerdotale solo nel 1960, durante l’epoca del sommo pontificato del beato
Giovanni XXIII quando – portando alle conseguenze premesse mosse, come poi
vedremo, alcuni anni prima – con il nuovo codice delle rubriche si giunge
ad affermare che “planetae plicatae et stola latior amplius non adhibentur” [7].
La
casula – ma analoga considerazione può essere estesa agli altri paramenti – non
trae origine nell’ambito nel quale l’utilizzo si è definito e cristallizzato ed
oggi conosciamo come esclusivo ossia quello liturgico ma ha principio nel
vestiario civile romano. Più precisamente il paramento che oggi conosciamo
nulla è se non l’evoluzione e stilizzazione dell’antica poenula romana e questo - facendo poggiare la nostra affermazione
sulle parole e l’opinare argomentato del Callewaert - è un dato indubitabile [8].
La poenula era un vestimento di forma
rotonda dotato di un’apertura funzionale a far passare il capo e quindi far
ricadere la stoffa sulle spalle, l’ampiezza della fattura dell’abito faceva sì
che esso ricoprisse l’intera persona. Essa era inizialmente in uso, in special
modo, presso i ceti più umili salvo poi divenire un capo di abbigliamento di
uso più comune anche da parte delle autorità e dei notabili al di fuori
dell’esercizio dei pubblici uffici. La poenula
ben presto fu adottata dai chierici: Amalario di Metz ci ragguaglia – e siamo
già nel IX secolo - che essa era indossata generalmente e indistintamente da
tutti i chierici definendola “generale
indumentum sacrorum ducum” [9].
Un'osservazione retrospettiva permette di rilevare che è dal secolo IV che i diaconi “non semper sed saepe” [10] iniziarono ad indossare la dalmatica (ovviamente anch’essa d’uso inizialmente civile), nei secoli successivi imitati dai suddiaconi (con l’uso della tunicella). Gioverà ricordare una certa “gelosia” romana nel serbare l’uso della dalmatica al papa e ai suoi chierici: talvolta furono proprio i sommi pontefici a concedere l’uso della dalmatica presso altre realtà ecclesiali locali, a titolo esemplificativo papa Simmaco la concesse, durante i primi anni del VI secolo, ai diaconi di Arles, san Gregorio Magno, sul finire dello stesso secolo, la concesse al vescovo di Gap e al suo arcidiacono ed ebbe altresì la premura di recapitare delle dalmatiche confezionate, indice evidente della rarità di tale sacro ornamento fuori dall’Urbe [11].
Roma
si segnalò più conservativa nell’utilizzo della poenula rispetto ad altri luoghi ed anzi, nell’Urbe, si attesta
l’uso da parte dei diaconi di ministrare all’altare con la dalmatica salvo
indossare la poenula nelle
celebrazioni aventi un carattere penitenziale [12],
va comunque considerato e tenuto in debito conto che l’uso della stessa – anche da
parte degli accoliti - è attestato in alcuni luoghi fino all’XI secolo [13].
Fu quindi dal generalizzarsi dell’uso ecclesiastico della poenula che ebbero a formare la loro identità la casula o planeta occidentali e il φαιλόνιον dei greci [14]. La necessità di piegare o levare la casula - nei modi e nei momenti che poi vedremo - deriva da mere esigenze di funzionalità, praticità e comodità che appaiano quanto mai opportuni se non necessari tenuto in opportuno conto l’ingombro che essa doveva costituire per un chierico cui incombe il servizio del celebrante e al quale sono richiesti diversi spostamenti per le sue mansioni come ad esempio al diacono, o l’impaccio che doveva costituire, per fare un altro semplice esempio, salire gli scalini dell’ambone con un indumento così ampiamente foggiato. Detta necessità indubbiamente portò al lento cristallizzarsi degli usi che trovarono progressivamente sistematizzazione normativa nei libri liturgici. Anche quando l’ampiezza del paramento venne meno non cessarono questi “segni” ormai fissati, codificati e diventati norma; a titolo di completezza non si può trascurare il fatto che molti gesti legati alla pianeta sarebbero incomprensibili se non in considerazione delle fattezze primigenie o comunque antiche di questo indumento: così il Caeremoniale episcoporum che prescrive di arrotolarla sulle braccia [15], o il messale stesso laddove impone di sollevare la pianeta al momento in cui il celebrante eleva le sacre specie [16] , un accorgimento ormai solamente rituale poiché, per usare le parole del Bonanni, “essendo ora aperta non vi sia tal bisogno”[17].
Fu quindi dal generalizzarsi dell’uso ecclesiastico della poenula che ebbero a formare la loro identità la casula o planeta occidentali e il φαιλόνιον dei greci [14]. La necessità di piegare o levare la casula - nei modi e nei momenti che poi vedremo - deriva da mere esigenze di funzionalità, praticità e comodità che appaiano quanto mai opportuni se non necessari tenuto in opportuno conto l’ingombro che essa doveva costituire per un chierico cui incombe il servizio del celebrante e al quale sono richiesti diversi spostamenti per le sue mansioni come ad esempio al diacono, o l’impaccio che doveva costituire, per fare un altro semplice esempio, salire gli scalini dell’ambone con un indumento così ampiamente foggiato. Detta necessità indubbiamente portò al lento cristallizzarsi degli usi che trovarono progressivamente sistematizzazione normativa nei libri liturgici. Anche quando l’ampiezza del paramento venne meno non cessarono questi “segni” ormai fissati, codificati e diventati norma; a titolo di completezza non si può trascurare il fatto che molti gesti legati alla pianeta sarebbero incomprensibili se non in considerazione delle fattezze primigenie o comunque antiche di questo indumento: così il Caeremoniale episcoporum che prescrive di arrotolarla sulle braccia [15], o il messale stesso laddove impone di sollevare la pianeta al momento in cui il celebrante eleva le sacre specie [16] , un accorgimento ormai solamente rituale poiché, per usare le parole del Bonanni, “essendo ora aperta non vi sia tal bisogno”[17].
Ma
come si addivenne a questi usi? Bisogna, a mio vedere, fare riferimento ai
più antichi ordines che - secondo
Callewaert - consentono di evincere, ad esempio, che i diaconi indossassero nei
giorni festivi la poenula sopra la
dalmatica deponendo la prima nell’accesso al presbiterio nelle occasioni
festive e ministrando, invece, parati con la poenula negli altri “in signum moeroris” [18].
Effettivamente l’assunto ha riscontro con gli ordines più antichi e la destinazione ai tempi di mestizia – in
seguito - si ravvisa fino alla codificazione “classica” e all’abbandono
recenziore. A titolo esemplare secondo l’Ordo
I, i diaconi si spogliano della poenula
proprio facendo accesso al presbiterio [19]
- mentre dal III (esso è di fatto un’appendice al I) in poi la levano al Gloria -
i suddiaconi (Ordo I) della schola cantorum la raccolgono sul petto all’inizio ed anzi, colui che fra di essi li dirige nel canto, la toglie del
tutto all’inizio della messa [20].
Non sarà superfluo rammentare – stando sempre all’opinione di Michel Andrieu –
che l’Ordo I, la cui redazione
rimonta all’VIII secolo, ebbe lo scopo di diffondere il modo di celebrare romano
nelle Gallie [21].
L’utilizzo della poenula per i tempi penitenziali è da ricondursi, secondo l’abate Mario Righetti, alle processioni stazionali che si compivano donde deriva la necessità di un indumento esteriore ampio e coprente allo scopo di proteggersi dalle intemperie, un tanto potrebbe essere bastato a caricare le pianete indossate dai ministri di un significato di mestizia, mantenutosi proprio in quei contesti liturgici che si sono rivelati maggiormente conservativi nel mantenere le costumanze più antiche [22]. Va tenuto altresì in debito conto che l’antica poenula era generalmente confezionata in lana grezza e presentava colorazioni scure con le quali veniva ad opporsi – in un certo qual modo – alla dalmatica che, per il suo colore chiaro ed il suo ornato a clavi purpurei, evocava un carattere più marcatamente festivo.
A Roma ab immemorabili – e ben prima della codificazione duecentesca del “canone dei colori”, spesso figlia dell’attribuzione di significati simbolici, - vi era una distinzione tra vestes albae, destinate ai momenti di festività e vestes pullae caricate di una significanza luttosa. Ciò portò una certa varietà - ed anzi incertezza - nell’individuazione delle circostanze nelle quali far parare i ministri con la poenula come ad esempio l’avvento, la settuagesima, la quaresima e le messe dei defunti, gli usi andarono a unificarsi e rendersi omogenei tra i secoli XII e XIII mantenendosi e cristallizzandosi nella forma che ho definito “classica” [23].
L’utilizzo della poenula per i tempi penitenziali è da ricondursi, secondo l’abate Mario Righetti, alle processioni stazionali che si compivano donde deriva la necessità di un indumento esteriore ampio e coprente allo scopo di proteggersi dalle intemperie, un tanto potrebbe essere bastato a caricare le pianete indossate dai ministri di un significato di mestizia, mantenutosi proprio in quei contesti liturgici che si sono rivelati maggiormente conservativi nel mantenere le costumanze più antiche [22]. Va tenuto altresì in debito conto che l’antica poenula era generalmente confezionata in lana grezza e presentava colorazioni scure con le quali veniva ad opporsi – in un certo qual modo – alla dalmatica che, per il suo colore chiaro ed il suo ornato a clavi purpurei, evocava un carattere più marcatamente festivo.
A Roma ab immemorabili – e ben prima della codificazione duecentesca del “canone dei colori”, spesso figlia dell’attribuzione di significati simbolici, - vi era una distinzione tra vestes albae, destinate ai momenti di festività e vestes pullae caricate di una significanza luttosa. Ciò portò una certa varietà - ed anzi incertezza - nell’individuazione delle circostanze nelle quali far parare i ministri con la poenula come ad esempio l’avvento, la settuagesima, la quaresima e le messe dei defunti, gli usi andarono a unificarsi e rendersi omogenei tra i secoli XII e XIII mantenendosi e cristallizzandosi nella forma che ho definito “classica” [23].
Distribuzione dei ceri alla Purificazione ("Candelora"). |
La
codificazione tridentina è certamente debitrice degli Ordines più recenti nonché riconducibile alle opere del Patrizi
Piccolomini e del Grassi. In merito al nostro argomento la troviamo nella
sostanza e contenuti identica dalla
promulgazione del Missale Romanum nel
1570 fino all’edizione VI dopo la tipica dello stesso approvata nel 1952 (cit.).
Gioverà riportare la rubrica nella sua completezza:
“6.
In diebus vero jejunorum (praeterquam in Vigiliis Sanctorum), et in Dominicis
et Feriis Adventus et Quadragesimæ, ac in Viglilia Pentecostes ante Missam
(exceptis Dominica Gaudéte etiam si
ejus Missa infra hebdomadam repetatur, et Dominica Lætáre, Vigilia Nativitatis Domini, Sabbato sancto in benedictione
Cerei et in Missa, ac in Quatuor Temporibus Pentecostes), item in benedictione
Candelarum et in Processione: in die Purificationis B. Mariæ: in Cathedralibus
et præcipuis Ecclesiis utuntur Planetis plicatis ante pectus: quam Planetam
Diaconus dimittit cum lecturus ets Evangelium, eaque tunc super sinistrum
humerum super Stolam complicantur: aut ponitur aliud genus Stolæ latioris in
modum Planetæ plicatæ; et facta Communione resumit Planetam, ut prius.
Similiter Subdiaconus dimittit eam cum lecturus est Epistolam, quam legit in
Alba, et ea finita, osculataque Celebrantis manu, Planetam resumit, ut prius.
7.
In minoribus autem Ecclesiis, prædictis diebus jejuniorum Alba tantum amicti
ministrant: Subdiaconus cum Manipulo, Diaconus etiam cum Stola ab humero
sinistro pendenti sub dexterum.” [24]
Dal
testo mutuato dal corpo rubricale vari
sono gli aspetti meritevoli di essere in qualche modo evidenziati: anzitutto
l’esclusione – come si è visto arcaica - dell’uso della dalmatica e della
tunicella in contesti di messe dal carattere penitenziale, ma anche il
riservare l’uso delle pianete da parte dei ministri alle sole chiese cattedrali
e le “praecipuis ecclesiis”. Circa le individuazione delle chiese ricomprese
nella definizione citata, la Sacra Congregazione dei Riti ebbe modo di
pronunciarsi, orientandosi, seppure tardivamente, verso una definizione
allargata e non limitata solo a chiese collegiate, basilicali o le chiese
insigni di religiosi tanto che si giunse ad annoverare tra le “præcipuis
ecclesiis” anche le parrocchiali [25].
Roma, basilica sessoriana, ostensione delle reliquie della Passione (Venerdì Santo, dopo la Messa dei Presantificati) |
Affatto
non trascurabile il richiamo alla ulteriore piegatura della pianeta, da parte
del diacono, prima della proclamazione del vangelo che prevede addirittura la
sostituzione con la “stola latior” o “stolone” per motivi di praticità. Dalla editio princeps del messale apprendiamo
che lo stolone era detto nelle chiese romane “bastum” [26]
probabilmente per la foggia che richiama il “basto” posto sul dorso del somaro.
Sarà interessante notare il maggior “conservatorismo” nei confronti degli usi
più arcaici della cappella papale laddove si introdusse tardivamente l’uso
dello stolone preferendo ripiegare la pianeta e fissarla a tracolla [27],
L’uso di questa piegatura supplementare
della pianeta o addirittura sostituzione con una “pianeta più comoda” da prima
del vangelo fino a dopo la comunione appare come un’attenzione necessaria se
consideriamo l’infittirsi delle mansioni che si concentrano in quella parte
della messa e che ricadono nella sfera delle competenze del diacono.
Diacono con la casula avvolta e posta a tracolla |
Lo
stolone non è affatto – a dispetto del nome - una stola di dimensioni maggiori
o un paramento a sé stante ma nulla è – come sopra si diceva – se non una
“pianeta più comoda” e quindi maggiormente adeguata ed adatta all’espletamento
degli uffici, ciò si evidenzia anche dal fatto che lo stolone non deve essere
fornito della croce come invece è prescritto per la stola [28].
Tale attenzione è eminentemente pratica tanto che, qualora il vescovo celebri
pontificalmente al trono, nei tempi in cui i ministri non fanno uso della
dalmatica e della tunicella, i suoi canonici diaconi assistenti non tolgono mai
la pianeta piegata dal momento che essa non andrebbe ad arrecare loro impaccio
alcuno [29]
.
Una
certa ambiguità nel confondere lo stolone con la stola comune (che invece resta
coperta dal primo) si era in ogni caso creata: i diaconi deputati al canto
della passione nelle messe della domenica delle palme, del martedì, mercoledì e
venerdì santi, giusta le prescrizioni del Caeremoniale
episcoporum, indossano, sopra il camice, la stola e il manipolo [30];
in alcuni luoghi si era instaurato l’uso, attestato anche dal Bauldry [31],
di sovrapporre lo stolone, tale usanza fu cassata dalla Sacra Congregazione dei
Riti nel tardo Ottocento [32].
In ogni caso l’uso della pianeta piegata era un tratto caratteristico dei tempi
di penitenza tanto che neppure durante le celebrazioni solenni che si compiono
“coram exposito”, ad esempio le quarant’ore, possono giustificare la loro
sostituzione con la dalmatica e la tunicella [33].
Distribuzione delle palme. |
Roma, S.Anselmo, processione delle palme. |
Processione delle palme a Westminster (celebra il card. Bourne) |
Sono
meritevoli di una rapida rassegna anche altri riti latini diversi dal romano.
La liturgia della primaziale di Lione prevede l’uso delle pianete piegate per
l’avvento, la quaresima eccetto la prima domenica in questa costumanza è da
ravvisarsi l’antico uso di principiare le austerità quadragesimali il lunedì
successivo la prima domenica [34],
il venerdì santo non si adoperano. In questo rito il diacono prima di cantare
il vangelo toglie la pianeta e non la ripiega o sostituisce con lo stolone [35].
Il
rito ambrosiano prevede l’uso delle pianete piegate durante il tempo di
avvento, la quaresima nonché alle rogazioni minori, nelle domeniche di
quaresima il diacono depone la pianeta già per cantare le “preces” che in tali
occasioni vengono proclamate subito dopo l’ ingressa.
La liturgia milanese prevede per la domenica delle palme e il venerdì santo il
colore liturgico rosso quindi i ministri si parano con la dalmatica e la
tunicella. Nel caso di celebrazioni innanzi al Santissimo Sacramento
solennemente esposto le pianete plicate si rimpiazzano – differentemente
dall’uso romano - con la dalmatica e la
tunicella [36].
Braga
ha un uso delle pianete piegate del tutto simile a quello romano se si eccettua
l’uso della dalmatica e della tunicella per la benedizione e processione degli
ulivi [37].
Presso
i domenicani nei tempi penitenziali il diacono e il suddiacono ministrano senza
“indumento esteriore” [38];
stesso uso si attesta anche presso i carmelitani dell’osservanza (“calzati”) [39]
e presso i cistercensi [40].
Il
rito dei certosini non prevede l’uso delle pianete piegate ma va ricordato che durante
la messa il diacono si limita sempre a indossare la stola sopra il suo abito da
coro, la cocolla, al momento della proclamazione del vangelo [41].
Un
probabile retaggio dell’epoca in cui l’uso delle pianete piegate non si era
ancora del tutto definito in modo univoco è ravvisabile presso i canonici
regolari premostratensi i quali le prevedono anche per il tempo di settuagesima
[42].
Per
quanto concerne i riti estinti afferenti
la composita e variegata famiglia “neogallicana” sarà interessante soffermare e
focalizzare l’attenzione sull’uso abbastanza diffuso, del quale ci ragguaglia
il De Vert, di portare la pianeta piegata e posta di traverso (“plicata ex
transverso”) verso sinistra [43]
con l’evidente scopo di consentire maggiore libertà di movimento al braccio
destro; in tale senso è esemplare la testimonianza offerta dal messale della chiesa
metropolitana di Parigi promulgato durante l’archiepiscopato del Vintimille ove
si prevede l’uso di “planetis transversis” (non nelle domeniche ma nelle ferie
d’avvento e di quaresima e ove è previsto il digiuno), il diacono – sotto la pianeta
così acconciata indossa già lo stolone qui chiamato “orarion” (modo col quale i
greci chiamano la stola diaconale) il quale copre la sua stola ordinaria;
sicchè al momento di proclamare il vangelo non dovrà fare altro che deporre la
sua pianeta [44].
Le liturgie delle diocesi francesi presentavano vistose differenze attinenti i tempi
in cui i ministri indossavano o meno la dalmatica e la tunicella e le pianete
piegate. A mero titolo d’esempio, assolutamente non esaustivo, citio –
proprio per renderci conto del livello di diversificazione delle prassi - il caso di Limonges laddove il diacono si
serve della pianeta piegata mentre il suddiacono indossa il piviale che depone
per proclamare l’epistola [45]
e di Autun ove nelle ferie di avvento e quaresima, nelle solenni vigilie e nei
quattro tempi di settembre, i ministri non usano la dalmatica ma restano
solamente con il manipolo sul camice (il diacono aggiunge la stola) [46].
Anche nelle famiglie liturgiche orientali, a uno sguardo attento,
non sfuggono utilizzi non esclusivamente presbiterali della pianeta o, come in
questi contesti è meglio dire, del φαιλόνιον. Il
lettore di rito greco riceve sulle spalle al momento della sua ordinazione (χειροθεςία) un φαιλόνιον non spiegato ma anzi piegato, se egli è secolare si appressa
con esso altresì al momento della sua ammissione all’ipodiaconato [47], tale costumanza fa propendere per un uso più
esteso antico che qui rinveniamo limitato al solo momento rituale
dell’ordinazione [48]. Sarà
interessante notare che l’uso del φαιλόνιον
non piegato ma accorciato nelle forme è conservato ancora nella tradizione
russa nella χειροθεςία lettorale [49].
Imposizione φαιλόνιον accorciato
χειροθεςία lettorale di p. Seraphim
(Roberto Valeriani Ropa, patriarcato di Mosca) |
Un’altra traccia dell’uso non presbiterale in ambito orientale della poenula, ancora una volta accorciata, è
da scorgersi, stando all’opinione di Pilkington, nella mantellina (assai simile
a una mozzetta) posta sul camice e che scende sulle spalle dei chierici che
ministrano nel rito armeno [50].
Divina liturgia in rito armeno. (si notano le "mantelline" sulle spalle dei ministri) |
Ritorno nuovamente nell’ambito dell’argomento centrale per ripercorrere la storia di
questa costumanza liturgica nella sua ultima fase. Senza dubbio sempre per praticità
e comodità, nonché in questa precisa fattispecie il risparmio oggettivo di
preziosa stoffa, si giunse, nei secoli successivi la codificazione tridentina,
all’uso di tagliare la pianeta nella sua parte anteriore per portarla alla
misura che assumerebbe nel caso della piegatura, sagomando altresì il gallone o
il merletto ai nuovi contorni così definiti. Si può supporre che tale uso
portò, a lungo andare, a un fraintendimento, giungendo quasi ad equivocare che
le pianete di cui si servivano i leviti fossero qualcosa di differente dalla
pianeta del sacerdote e forse a portare progressivamente a una certa disaffezione.
Pianete "mozzate" violacea e nera. |
Pianeta "mozzata" violacea. |
Il
gesuita Braun, autore della più volte citata monografia sui vestimenti
liturgici, afferma - e siamo all’inizio del XX secolo - che nei territori
germanici era ormai caduto l’uso da parte del diacono e suddiacono di servirsi delle
pianete [51].
Nel cinquantennio successivo, durante il pontificato del venerabile Pio XII,
precisamente nel 1951, venne promulgato, “ad experimentum” per la durata di un
triennio, il nuovo ordo del sabato
santo [52]:
in esso, oltre a una liturgia trasformata, troviamo espunte le casule piegate
che in tutta la prima parte del rito (benedizione del fuoco, profezie,
benedizione del fonte) venivano utilizzate e le troviamo sostituite con
dalmatica e tunicella violacee.
Di
pochi anni successiva la promulgazione del nuovo ordo della settimana santa [53],
è il 1955: i riti contraddistinti da genuini tratti di arcaicità vengono ridotti,
rivisti e ristrutturati sullo sfondo del pastoralismo e le pianete piegate
sostituite dalla dalmatica e dalla tunicella. Si rileva in quegli anni una
insofferenza verso questo particolare uso liturgico, citiamo – a titolo di
esempio – il Fattinger che, nell’auspicare un’abolizione totale di tale
costume, lo cassa quale anacronismo privo di significato [54].
Come si è detto l’edizione giovannea del messale (1962) non prevede
espressamente il loro uso.
Si può affermare che l’uso delle pianete piegate sia un vero e proprio reperto vivente,
un testimone inequivocabile di quello che era un uso non esclusivo della
pianeta da parte del sacerdote tanto che l’abolizione ha portato a caricare la
stessa di una nuova semantica, differente da quella consacrata dall’uso dei
secoli e che anzi, proprio alla luce di questi, appare per lo meno ambigua se
non addirittura scorretta. Fu certo un’azione che perlomeno è eufemisticamente
classificabile come incauta quella di abolire questi usi. Incauta perché
incoerente con un divenire organico che portò allo stratificarsi, definirsi e
istituzionalizzarsi di usi secondo un lento processo di consolidamento cui fa
antitesi, invece, un moto – o meglio un atto - così repentino che abroga d’autorità.
Monsignor
Annibale Bugnini, nel censire criticamente una delle sue prime “creature” –
ovverosia il nuovo Ordo della
settimana santa di cui poco fa ho fatto cenno, afferma, in modo invero
piuttosto laconico e sbrigativo, che nessuno avrà a dolersi o sentirà la
mancanza delle “pianete piegate” [55]:
orbene questo non sembra un omaggio degno e rispettoso a quanto dai secoli più
remoti giunse, forse miscompreso, fino a quegli anni. Anzi si può affermare che non sia riscontrabile alcun elemento oggettivo che deponga a
favore di questa abolizione, nessun argomento solido ma solo autoritativo o,
peggio, rispondente a criteri di soggettività o estetica.
Non
posso inoltre tacere dell’incongruenza che rasenta l’assurdità di questa
abolizione di un uso, di un’attenzione dedicata alla pianeta postulata nelle
sue antiche ampie fattezze, che paradossalmente si colloca - dal punto di vista
temporale - proprio nel periodo di massima fioritura del recupero dell’antica e ampia foggia, detta impropriamente “gotica” dei paramenti.
Anche,
ma certamente non soltanto, questa abolizione, questo abbandono che per Leon
Gromiér “fait mentir les peintures des
catacombes” [56],
crea e implica un concetto e un sentire nuovo che sottende le riforme: un
pastoralismo autoreferenziale che inaugura la reinterpretazione del
simbolo; si segna il passo di una nuova
era, di un nuovo e inedito modo di procedere che – inevitabilmente – reca con
sé la fine di quel ideale equilibrio, ravvisato ancora una volta da Gromier, per
il quale la pastorale obbedisce alla liturgia e non viceversa [57].
Si tratta di tappe – all’apparenza ancora forse timide e quasi sommesse – ma
evidentemente prodotte da una nuova mentalità e che segnano il passo verso la
creazione di quel rito che Klaus Gamber classifica e denomina come “Ritus
modernus” [58].
Pianeta piegata di foggia antica (notare come, nell'ultima figura, è avvolta e accomodata) |
Francesco G. Tolloi
francesco.tolloi@gmail.com
Note:
[1] L’ultima edizione tipica del messale che
postula l’uso liturgico di portare la pianeta plicata è Missale Romanum, editio sexta post typicam, Romae, Typis
Polyglottis Vaticanis, 1954 questa è quindi l’edizione cui faremo riferimento.
[2] Nel linguaggio comune odierno si tende a
denominare “casula” il paramento foggiato in dimensioni ampie e morbide
avvolgenti la persona, più vicino agli stilemi antichi, mentre, per contro, si
costuma chiamare “pianeta” il paramento più stretto, scorciato e rigido che nei
secoli passati ha conosciuto le sue particolari declinazioni nazionali (p.e.
francese, ispanica ecc.). Il messale, e anche gli altri libri liturgici,
invece, usano indifferentemente ora “casula” ora “planeta”; in tal senso qui
considereremo i due termini come sinonimi. L’Andrieu afferma che il termine casula fosse estraneo al lessico
liturgico romano sino all’Ordo XXXVI e
che anzi – in antecedenza – esso designava la veste posta ai bambini
neobattezzati; cfr. M. ANDRIEU, Les
ordines romani du haut moyen age, IV les textes, Leuven, Spicilegium sacrum
lovaniense, 1956, p. 149, in particolare nt. 7.
[3] Si impone una precisazione: in oriente –
in particolare negli ambiti della tradizione costantinopolitana – la stola
vescovile e quella sacerdotale sono identiche sia per forma che per modo di
essere indossate; essa è chiamata επιτραχήλιου.
La stola diaconale, invece, è chiamata οράριου.
Essa è lunga e stretta, il diacono la fa pendere dalla spalla sinistra,
tenendo poi le estremità in mano quando – ad esempio – deve indicare qualcosa,
oppure la accomoda fissandola sotto l’ascella destra e quindi la fa incrociare
sopra la spalla sinistra facendo cadere le estremità. Prima della comunione il
diacono la acconcia a forma di “X” perché essa non sia d’impedimento nel suo ministrare.
In questo particolare modo incrociato la porta sempre l’ipodiacono;
generalmente la stola di cui si serve il diacono porta ricamata in direzione
della sua lunghezza per tre volte la parola αγιος.
Cfr. R. PILKINGTON, I riti orientali,
Torino, L.I.C.E. – Berruti, p.31.
[4] B. GAVANTO-G.M. MERATO, Thesaurus Sacrorum Rituum, Venetiis,
Balleoniana, 1792, I, p. 48.
[5] M. BAULDRY, Manuale Sacrarum Caeremoniarum, Venetiis, Balleoniana, 1711, p.
202.
[6] A. PISCARA CASTALDO, Praxis caeremoniarum, Neapoli,
Scoriggium, 1645, p. 178.
[7] Cfr. Rubricae
Generales, in Missale Romanum, editio
II iuxta typicam, Ratisbonae, Pustet,
1963, XIX, 137, c.
[8] C.
CALLEWAERT, De Planetis plicatis, in
«Ephemerides Liturgicae», L-X, 1936, p. 69.
[9] AMALARIO DI METZ, De ecclesiasticis officiis, II, 19 (P.L. 105, 1095).
[10] C.
CALLEWAERT, De Planetis plicatis…cit.,
p. 70.
[11] L.
DUCHESNE, Origines du culte chrétien,
Paris, Boccard, 19205. p. 402.
[12] G. BRAUN, I paramenti sacri, Trad. G. ALLIOD, Torino, Marietti, 1914, p. 98.
[13] A.
KING, Liturgy of the Roman Church, London -New York -Toronto , Longmans, 1957,
p. 130.
[14] Presso la famiglia rituale
costantinopolitana i greci solamente conservano la forma pressochè originaria
del φαιλόνιον, i russi – ed in genere i popoli slavi – lo
confezionano in forme meno ampie e molto accorciate nella parte anteriore.
[16] Ritus servandus in
celebratione Missae, in Missale Romanum, editio sexta post typicam, cit., cap. VIII, n. 6.
[17] F. BONANNI, La gerarchia ecclesiastica considerata nelle vesti sagre e civili,
Roma, Placho, 1720, p. 218.
[18] C.
CALLEWAERT, De Planetis plicatis…cit.,
p. 71.
[19] M.
ANDRIEU, Les ordines romani…, II, p.
126.
[20] Ibidem.
[22] Cfr.: M. RIGHETTI, Manuale di storia liturgica, Milano, Ancora, 1959, II, p. 131 e s.
Analoga motivazione sull’opzione della poenula
in luogo della dalmatica per ripararsi dalle avversità metereologiche nelle processioni
stazionali si riscontra, a titolo di esempio, anche in G. DE VERT, Explication simple, litterale et historique des ceremonies de l’Eglise,
Paris, Delaulne, 1720, II, p. 335.
[23] G. BRAUN, I Paramenti sacri…, cit. p. 90 e ss.
[24] Cfr. Rubricae
generales Missalis, in Missale
Romanum, editio sexta post typicam, cit., XIX (nel virgolettato abbiamo ritenuto di mantenere i criteri del
messale quanto all’uso delle maiuscole, dittonghi ecc. rendendo in corsivo il
testo in rosso nell’originale).
[25] Cfr SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI,
Decreto 23 aprile 1875 n. 3352, in Decreta
authentica Congregationis Sacrorum Rituum, IIII, Romae, Propaganda Fide,
1908, p. 52 e s. (in particolare al 7).
[26] Ritus
servandus in celebratione missarum in Missale
Romanum, Romae, Faletti Variscum, 1570 (rist. anast. a cura di M. SODI –
A.M. TRIACCA, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, p. 22).
[27] Es. cfr.:D.
MAGRI, Hierolexicon sive sacrum
dictionarium, Venetiis, Balleonium, 1712., p 126. L’uso andò
scomparendo opzionando per il più comodo stolone già pochi anni dopo la
pubblicazione dell’opera citata, cfr: F. CANCELLIERI, Descrizione delle cappelle pontificie e cardinalizie di tutto l’anno,
Roma, Salvioni, 1740, p. 312; qui il Cancellieri, nel descrivere ciò che fa il
diacono prima di cantare il vangelo, scrive espressamente: “depone la pianeta
piegata e ne piglia un’altra che forma uno stolone”.
[28] SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Decreto 25
settembre 1852 n.3006, in Decreta
Authentica…cit., II p. 376.
[29] Caeremoniale
episcoporum…, cit., lib. II, cap. XIII (pp. 154 e ss.).
[30] Ibid.,
lib. II, cap. XXI (p. 176)
[31] M. BAULDRY, Manuale Sacrarum Caeremoniarum…, cit. p. 222.
[32] SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Decreto 12
marzo 1897 n. 3949, in Decreta Authentica…cit., III p. 327 e s.
[33] ID.,
Decreto 31 agosto 1867 n. 3161, in Decreta
Authentica…cit., II, p. 455 e s.
[34] A.
KING, Liturgy of Primatial Sees, Bonn , Nova et vetera,
2005, p. 50.
[35] Cfr. Liturgia Lugdunensis a sancta sede
approbata, Rubricae Generales,
4 in Missale Romano-Lugdunense, Parisiis-Lugduni, Le Clere-Pelagaud,
1866. E anche: Le céremonial de la sainte
église de Lyon, Lyon, Perisse, p. 262 e s. e p. 267.
[36] Cfr. Rubricae generales, 27 e 44 in Missale Ambrosianum, editio quinta post
typicam, Mediolani, Daverio, 1946.
Notiamo che il diacono nel rito proprio dell’arcidiocesi di Milano mette la
stola sopra la dalmatica, mentre quando ministra con la pianeta la stola è
tenuta sotto.
[37] A. KING, Liturgy of primatial sees…, cit., p. 213 e Rubricae generales, VIII, 6, in Missale
Bracarense, Romae, Polyglottis Vaticanis, 1924.
[38] De
coloribus, 4 in Missale S. Ordinis
Praedicatorum, Romae, Hospitio Magistri Ordinis, 1933.
[39] A.
KING, Liturgies of the Religious Orders,
Bonn , Nova et
Vetera, p. 296.
[40] Ibid.,
p. 127.
[41] Ibid., p. 38.
[42] Ibid.,
p. 185. Anche l’antico rito di Salisbury (Sarum) poi adottato anche a Londra
nel XV secolo prevedeva l’uso delle pianete per i ministri nel tempo di
settuagesima, cfr. ID, Liturgies anciennes, trad. B. PAUPARD, Mame, 1960,
p. 424 e s.
[43] C. DE VERT, Explication…, cit., II, p. 335 e ss.
[44] Rubricae
generales, X in Missale Parisiense,
Parisiis, Usuum Parisiensium, 1738. Si veda anche: S. DE MOLEON, Voyages liturgiques de France, Paris,
Delalaune, 1718, p. 247, nell’Opera è attestato l’uso di tenere lo stolone
sotto la pianeta piegata anche ad Angers e a Rouen (ibid., p. 92 e p.313)
[45] Rubricae
generales Missalis, XIV in Missale
Lemovicense, Leomovicis, Barbou, 1830.
[46] De
rubricis generalibus, V, 6 in Missale
Aeduense, Aeduae, Dejussieu, 1845.
[47] I. HABERT, Aρχιερατικον Liber Pontificalis Ecclesiae Graecae, Parisiis, Petri
Blasii, 1643, p. 38 e p. 306.
[48] Riferiamo – a titolo esemplare – il caso
degli ἐξωκατάκοιλοι: costoro erano diaconi preposti al servizio
del patriarca costantinopolitano. Essi indossavano la stola diaconale e il φαιλόνιον retaggio probabile del fatto
che inizialmente essi erano presbiteri preposti ad alcune chiese minori
dipendenti da S. Sofia (cfr. Ibid. p. 32 e s.).
[49] Cfr.:
R. PILKINGTON, I riti orientali…,
cit., p. 31 e p. 66, ma soprattutto J.G. KING, The rites and ceremonies of the Greek Church in Russia, London,
Owen-Dodsley-Rivington, 1772, p. 276 e
s.
[50] Cfr.: R. PILKINGTON, I riti orientali..., cit. p. 40.
[51] G. BRAUN, I paramenti sacri…, cit., p. 96.
[52] Ordo Sabbati Sancti quando vigilia paschalis insaturata
peragitur, editio altera, Romae,
Polyglottis Vaticanis, 1952.
[53] Ordo
Hebdomadae Sanctae Instauratus, editio typica, Romae, Polyglottis
Vaticanis, 1955.
[54] R. FATTINGER, Dizionario tecnico-pratico di liturgia, Roma, Edizioni Paoline,
1958, p. 358.
[55] Cfr. A. BUGNINI – C. BRAGA, Ordo Hebdomadae Sanctae instauratus
commentarium, Bibliotheca Ephemerides Liturgicae Sectio Historica 25, Roma,
Edizioni Liturgiche, 1956, p. 56, nt. 28.
[56] L. GROMIER, Semaine Sainte Restaurée, in «Opus Dei», 2, 1962, p. 80.
[57] ID., Commentaire
du Caeremoniale Episcoporum, Paris, La Colombe, p. 13.
[58] K. GAMBER, Die Problematik der Liturgiereform, in Ritus modernus. Gesammelte Aufsätze zur
Liturgiereform, Regensburg, Pustet, 1972, p. 11.
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