domenica 19 marzo 2023

La velatura delle croci e delle immagini. Riflessione storica e ipotesi su origine e simbolismo.

 Dopo una lunga assenza dal blog, ho pensato di riprendere un mio articolo dello scorso anno già pubblicato sul Settimanale della Diocesi di Trieste "Il domenicale di San Giusto" (3 aprile 2022), col quale ho collaborato come redattore responsabile della pagina "cultura". Ho apportato alcune lievi modifiche e qui lo presento ai benevoli lettori. Con l'occasione annuncio che tra non molto pubblicherò (in collaborazione con un caro amico) un qualcosa di piuttosto corposo su una particolarità del decaduto "usus aquileyensis"...stay tuned!

Francesco G. Tolloi

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«Usus cooperiendi cruces et immagines per ecclesiam ab hac dominica [Va di Quaresima, n.d.a.] servari potest, de iudicio Conferentiae Episcoporum» [1]. Il Messale “riformato”, con tale rubrica permissiva, attesta un uso che, pur limitatamente ad alcuni luoghi, si è conservato e che per secoli fu di diffusione generale. Prendendo, ad esempio, il Messale romano nell’edizione pio-benedettina, al sabato “Sitiéntes” (ossia il sabato dopo la quarta domenica di Quaresima, il giorno che precede la domenica di Passione), ci troveremo innanzi ad una rubrica chiaramente precettiva: «Expleta Missa, ante Vesperas, cooperiuntur Cruces et Imagines per ecclesiam; quæ copertæ manent, Cruces quidem usque ad expletam per Celebrantem Crucis adorationem in Feria VI Parasceves, Immagines vero usque ad intonatum Hymnum Angelicum in Sabbato Sancto.» [2] 

croce velata


Ma da dove e quando si diffuse tale usanza? Quali sono i suoi significati? Non è facile rispondere con certezza: le testimonianze, specie quelle più antiche, sono frammentarie ed anzi attestano una scarsa uniformità della prassi, tuttavia, i dati disponibili, consentono perlomeno di intuire dei percorsi di ricerca e, talvolta, di formulare prudentemente delle ipotesi, spesso ponendo nuovi quesiti. Il Messale che promulgò nel 1570 papa San Pio V secondo le indicazioni del Concilio di Trento, non menziona la prassi, per contro, trent’anni dopo l’
editio princeps del Caeremoniale episcoporum, promulgata da Clemente VIII, ne fa esplicito riferimento [3]

Velatura
Velatura nel Tempo di Passione
presso la parrocchia romana di Trinità dei Pellegrini.
(da blog.messainlatino.it)


Questo stato di cose potrebbe suggerire l’ipotesi che nella prima epoca post tridentina si tentò di uniformizzare il costume della velatura, che si era mantenuto fino ad allora differenziato sia sotto il profilo geografico che temporale. La Francia, notoriamente refrattaria nell’accoglimento dei dettami tridentini, mantenne – nella lussureggiante galassia dei riti neogallicani (meglio sarebbe definirli usi propri diocesani) – una marcata differenziazione, destinata a perdurare fino alla seconda metà del XIX secolo, per questo ordine di motivi la sua osservazione è particolarmente utile ed interessante. A darcene autorevole testimonianza è Jean-Baptiste Le Brun des Marette, che a principio del Settecento viaggiò attraversò il regno di Francia annotando, con accurata meticolosità e dovizie di dettagli, gli usi liturgici esistenti nel territorio sia nelle diocesi che tra Ordini e congregazioni di religiosi, registrando, anche in questa fattispecie, consuetudini diversificate [4]. Il Le Brun attesta in molte chiese francesi una copresenza di velature – che poi vedremo testimoniate anche al di fuori della Francia – di diverso tipo: delle tende vengono tirate per separare l’altare dal coro, oppure per separare del tutto la navata, altre volte sussistono entrambe, il più delle volte convivono con i veli che coprono le immagini e le croci. Diverso è anche il momento in cui queste coperture vengono poste: spesso ciò avviene appena alla conclusione dell’Ufficio della Ia domenica di Quaresima (dopo Compieta) venendo a marcare l’inizio del tempo quaresimale e con esso del digiuno che lo caratterizza. Un tanto deporrebbe circa la vetustà della prassi, in considerazione del fatto che la Quaresima, anticamente, si faceva iniziare in tale giorno mentre solo più tardi, per far coincidere al numero di quaranta le giornate effettivamente destinate al digiuno, si aggiunsero i giorni che vanno dal Mercoledì delle ceneri alla Feria IIa (lunedì) dopo la Ia domenica di Quaresima [5]. La velatura di immagini e croci, di cui fa riferimento il Messale, potrebbe essere un lacerto, in qualche modo cristallizzato, di queste particolari coperture realizzate, in epoca più remota come segno esteriore della Quaresima? E se così fosse l’uso Va domenica di Quaresima potrebbe essere un momento più ritardato o un punto di arrivo raggiunto nel tempo cui, infine, si è data una struttura normativa? Si tratta di quesiti che, innanzi alle testimonianze qui brevemente accennate, sorgono spontanei. Circa l’antichità il Braun opina che l’uso si diffuse proprio in Gallia già nel VII secolo, nella penisola italiana si attesta intorno al Mille (Consuetudines dell’abbazia di Farfa, di matrice clauniacense), per divenire di uso generalizzato nel basso Medioevo [6]. Il celebre canonista Guglielmo Durando, Vescovo di Mende, ci tramanda che nel XIII secolo, epoca in cui visse, alla Ia domenica di Quaresima si coprono le croci e si tira il velo innanzi all’altare e riferisce che ciò in alcune chiese si compie la domenica di Passione (Va di Quaresima) [7].  L’Autore ravvisa dunque un legame tra le due azioni, così come parrebbe ritenerlo, sostanzialmente, anche il Martène sostenendo che, quanto si praticava alla sua epoca (tra XVII e XVIII secolo) la domenica di Passione, era un tempo d’uso generale compierlo la Ia domenica di Quaresima (dopo la Compieta della stessa, o dopo la celebrazione di Prima del lunedì immediatamente successivo) [8].

Privare il fedele dalla vista delle cose sacre o persino dell’altare e dunque dell’azione sacra mediante la velatura, si percepiva come segno esteriore di mestizia. Il citato Durando, estremamente significativo e rappresentativo di una modalità di interpretazione basata su suggestioni allegoriche che permea la speculazione dell’Età di mezzo, suggerisce che, mediante questo segno esteriore, il cristiano rivive una condizione di conoscenza imperfetta, dunque velata, al pari di quella degli uomini dell’antico testamento. Qualora la velatura sia limitata alle ultime due settimane prima di Pasqua, l’accento sarebbe posto sul nascondimento della natura divina: nella domenica di Passione, infatti, veniva proclamato il Vangelo di San Giovanni (8, 46-59) in cui i giudei vogliono lapidare Gesù, dopo un concitato e teso scambio verbale, tanto che egli si vede costretto ad uscire per nascondersi: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo [9]. Ben diversa e non molto convincente, in questa circostanza, la spiegazione che dà Claude De Vert: l’Autore, celebre per ricondurre i gesti di culto e costumi liturgici a necessità materiali e concrete, ritiene che l’usanza possa derivare dall’uso arcaico di collocare la croce solo al momento della celebrazione ed anzi ritiene che essa, originariamente non veniva collocata affatto, come potè leggere e vedere in alcuni luoghi (ancora una volta nell’ambito degli usi neogallicani). La croce sarebbe stata poi portata dal diacono o dallo stesso celebrante all’altare (es. a Reims) per rimanervi il tempo necessario: quando la comodità indusse a lasciarla sul posto, si prese l’abitudine di velarla, uso che sarebbe rimasto in questo specifico tempo [10]. Mario Righetti, perito del Concilio Vaticano II, ritiene verosimile che la velatura di croci ed immagini la domenica di Passione sia una semplificazione tardiva delle velature quaresimali, in particolare opina poter derivare dall’hungertuch (letteralmente telo della fame) attestato inizialmente in area germanica a significare il tempo di digiuno [11]. Particolarmente suggestiva ed articolata è l’ipotesi di Thurston: per l’Autore l’origine della velatura di croci ed immagini è riconducibile proprio ai teli che, anticamente, dal principio quaresima, celavano la sancta sanctorum. L’usanza andrebbe ricercata nell’allentamento e successivo abbandono della prassi canonica della pubblica penitenza. 

Espulsione dei pubblici penitenti


Riconciliazione dei pubblici penitenti
Litografie tratte da Pontificale romanum, Mechliniæ, Dessain, 1862
(collezione di Francesco G. Tolloi)


I penitenti,
in capite quadragesimae, venivano allontanati dal tempio per poi essere riammessi e riconciliati il giovedì santo. Essi sarebbero stati dunque privati dalla vista delle cose sacre: mediante la velatura si produrrebbe una finzione giuridica che porterebbe tutti i fedeli, in un certo qual modo, alla condizione dei penitenti pubblici [12].


Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta. (Ps. 42,1)


Francesco G. Tolloi

francesco.tolloi@gmail.com



[1] Cfr. Rubr. in Dom. V in Quadragesima, in Missale romanum, editio typica tertia, Città del Vaticano, Typis Vaticanis, 2002, pag. 255.

[2] Cfr. Rubr. In Sabb. post Dominicam IV Quadragesimæ, in Missale romanum, editio typica, Romæ, Typis Polyglottis Vaticanis, 1920, pag. 121.

[3] Cfr. Caeremoniale episcoporum, Romae, Typographia linguarum externarum, 1600, editio princeps, ristampa anastatica a cura di A. M. Triacca e M. Sodi, Città del Vaticano, LEV, 2000, Lib. II, cap. XX, pagg. 217 e s. (225 e s.).

[4] S. De Moleon, Voyages liturgiques de France, Paris, Delaulne, 1718, passim.  (De Moleon è lo pseudonimo del Le Brun des Marette).

[5] In tal senso appare significativa l’Orazione secreta della Ia domenica di Quaresima del Messale c.d. tridentino (cfr. Missale romanum, editio typica 1920, pag. 68) che fa esplicito esordio del tempo quaresimale e con esso delle austerità, segno di conservazione di un elemento arcaico, di matrice gregoriana, a fronte delle modificazioni intervenute successivamente (cfr. Sacramentario Gregoriano. Testo latino-italiano e commento, a cura di M. Sodi e O.A. Bologna, Roma, Edizioni Santa Croce, 2021, pag. 63 al 223.). [Sacrifícium quadragesimális inítii solémniter immolámus, te, Dómine deprecántes: ut, cum epulárum restrictióne carnálium, a nóxiis quoque volunptátibus temperémus.]

[6] Cfr. G. Braun, I paramenti sacri. Loro uso storia e simbolismo, trad. it. G. Alliod, Torino, Marietti, 1914, pag. 209 e segg, pag. 209 e ss. Per l’Autore l’uso di velare il crocifisso va ricercato nel fatto che sino al XII secolo Cristo veniva rappresentato trionfante sulla croce, volendo sottolineare i contenuti della passione salvifica lo si sottraeva dalla vista coprendolo (idem, pag. 211).

[7] Cfr. G. Durando, Rationale Divinorum Officiorum, Ludguni, Ravillii, 1612, lib. VI al 32, par. 12, pag. 303. L’uso della velatura già la Ia domenica di Quaresima lo si riscontra anche nel rito ambrosiano, qui però vengono velate le sole immagini e non i crocifissi (Cfr. V. Maraschi, Le particolarità del rito ambrosiano, Milano, Propaganda Libraria, 1938, pag. 81).

[8] Cfr. E. Martene, De antiquis Ecclesiae Ritibus, Antverpiae, de la Bry, 1737, tomus tertius, pag. 186.

[9] Cfr. G. Durando, Rationale Divinorum Officiorum, op. cit., lib. I, al III, par. 35, pag. 17. Proprio al Vangelo di tale domenica è legato l’uso della cappella papale attestato dal Cerimoniale apostolico. Dal testo si apprende che la velatura della croce avviene in questa domenica ed in particolare le immagini sono coperte con un velo, issato con delle carrucole attraverso cui passando le corde, per mezzo di alcuni chierici della cappella nel momento in cui termina la proclamazione del Vangelo; cfr. A. Patrizi Piccolomini, Sacrarum Cerimoniarum, Sive Rituum Ecclesiasticorum Sanctae Romanae Ecclesiae, Coloniae Agrippinae, 1572, liber secundus, fol. 224 r.

[10] Cfr. C. De Vert, Explication simple, litterale et historique des Cérémonies de l’Eglise, Paris, Delaulne, 1713, Tome quatrieme, pagg. 30 e ss..

[11] Cfr. M. Righetti, Manuale di storia liturgica, Milano, Ancora, 1969, Volume II, pag. 175 e s. Sull’hungertuch, la sua diffusione e sopravvivenza, si veda ancora: G. Braun, I paramenti sacri, op. cit., pag. 211.

[12] Cfr. H. Thurston, Lent and Holy Week, London, Longmans Green, 1914, pag. 99 e ss. Il rito dell’espulsione e riconciliazione dei pubblici penitenti trovava posto nel Pontificale romanum fino agli anni Sessanta del Novecento (cfr. Pontificale romanum, Taurini, Marietti, 1941, V, pagg. 300 e ss. Per l’approfondimento di questi riti si rinvia a: J. Catalano, Pontificale romanum in tres partes distributum, Parisiis, Méquignon, Leroux et Jouby, 1852, Tomus III, pagg. 8 e ss.


domenica 7 febbraio 2021

San Niceforo martire - 9 febbraio /30 dicembre


Proprio un paio di anni fa, in questo primo scorcio di febbraio, nell’ambito della mia collaborazione con il Settimanale della diocesi di Trieste “Vita Nuova”, iniziai una serie di articoli attorno le figure dei Santi che si riscontravano, anche nel passato più o meno recente, nei propria della diocesi. Consultando i supplementi delle Messe e degli Uffici diocesani redatti “ad mentem” delle riforme di papa San Pio X, ebbi modo di imbattermi in San Niceforo, un martire venerato come patrono di una piccola diocesi istriana, quella di Pedena, soppressa sul finire del Settecento. La presenza nel calendario locale di San Niceforo mi diede modo di condividere una riflessione circa le modalità compilative sottese ai calendari propri – e di conseguenza nei propria diocesani - muovendo dal culto del martire Niceforo. Ritengo quelle righe ancora di una certa validità, motivo per il quale intendo qui proporle anche ai lettori del mio blog, con l’ integrazione, more solito, del testo latino ed italiano delle “lezioni storiche” proclamate al secondo Notturno della liturgia mattutinale, sempre con la consueta riserva di ulteriori integrazioni in futuro e con il proposito di raccogliere e dare sistematicità alle figure di santità ed il loro culto che appaiono nei propria della mia piccola ma antica diocesi.

Francesco G. Tolloi

 

A fianco dei santi annoverati nel Calendario della Chiesa universale, le diocesi mantengono vivo il culto dei santi locali nei loro Propria. Si tratta di raccolte che costituiscono delle “appendici” al Messale e alla Liturgia delle Ore che riportano i testi da utilizzarsi nelle celebrazioni locali: dalle pericopi scritturali all’eucologia. Ma quali sono i criteri con i quali le celebrazioni dei santi sono inserite nelle singole raccolte diocesane? Con uno sguardo retrospettivo si potrebbe rispondere che esistono, principalmente, due insiemi di motivi. Il primo insieme è quello che chiameremo “intrinseco” poiché più connaturato all’indole e finalità di tali compilazioni: in esso rientrano motivazioni geografiche e/o devozionali. Per fare un esempio San Giusto martire, nostro patrono principale, è vissuto nella nostra città ed è stato martirizzato nelle acque del nostro golfo, la motivazione del suo culto è perciò sia geografica che devozionale.  San Sergio, viceversa, nostro patrono secondario, pur avendo servito, stando all’antica tradizione, l’Impero romano come tribuno militare in Trieste, subì il martirio – col suo compagno d’armi San Bacco – in Siria. La stessa tradizione vuole che, prima di salire il patibolo, egli scagliasse la sua alabarda che precipitò miracolosamente a Trieste per dare un segno ai correligionari triestini coi quali aveva stretto rapporti di solida amicizia. Al di là della vicenda e delle vicissitudini successive dell’alabarda del nostro compatrono, il criterio della sua presenza nei propria triestini rientra in una motivazione che è, soprattutto, legata al suo culto, quindi devozionale e dunque rientra nel primo insieme (motivazioni intrinseche).

Il secondo insieme lo chiameremo “estrinseco”, poiché derivante da esigenze altre che non la prossimità geografica e l’attestazione del culto qui identificati in un ruolo di principalità tra gli stimoli che portano alle compilazioni dei propria. Le motivazioni qui convenzionalmente raggruppate per ordine e semplicità – ciò va precisato - possono, evidentemente, reciprocamente influenzarsi, i perimetri dei due insiemi possono, perciò, toccarsi e persino occasionalmente fondersi e confondersi. Questo secondo convenzionale insieme così definito andrebbe a comprendere le motivazioni storiche e/o politiche.

Ex chiesa cattedrale di Pedena
dal sito: https://www.central-istria.com/it/pican

Fino all’epoca di vigenza dei novecenteschi Proprium officiorum di mons. Andrej Karlin e del Proprium missarum di mons. Luigi Fogar, compariva, alla data del 9 febbraio un san Niceforo vescovo e martire. La presenza di questo santo, che – stando alla tradizione - si immolò ad Antiochia mentre imperversava la persecuzione di Valeriano, si presta egregiamente a offrirci un esempio di motivazione “estrinseca” di inserimento nelle raccolte liturgiche locali. Il caso specifico è dato da una motivazione di ordine storico. San Niceforo era infatti patrono principale della diocesi di Pedena, piccola ma antica unità ecclesiastica della penisola istriana che – dopo un periodo di sede vacante a seguito del trasferimento a Segna del vescovo Aldrago Antonio de’ Piccardi (1784) – fu soppressa ed incorporata nella neo eretta diocesi di Gradisca, suffraganea dell’arcidiocesi di Lubiana, il cui territorio venne a comprendere quello di Gorizia, Trieste e – per l’appunto - Pedena. Tale nuovo assetto dei confini e della giurisdizione ecclesiastica era stato ispirato dall’imperatore Giuseppe II, tanto che nel 1791, un anno dopo la sua morte, Pio VI portò la cattedrale a Gorizia (destinata ad essere chiamata fino al 1986 arcidiocesi ‘Goritiensis seu Gradiscana’) e ristabilì il vescovado triestino, destinato ad incorporare anche i territori della soppressa diocesi di Pedena. Ma da Pedena Trieste non ebbe solo le dodici parrocchie che componevano la piccola diocesi istriana, mutuò anche il culto per san Niceforo. Sarebbe più proprio parlare dei “santi Nicefori”, al plurale: a Pedena se ne veneravano due! A parte il martire accennato il cui dies natalis è il 9 febbraio, a Pedena, il 30 dicembre, si ricordava il primo della cronotassi dei vescovi petenensi di identico nome. Questi sarebbe vissuto nel VI secolo: di ritorno da un viaggio ad Aquileia, ove si sarebbe recato per scagionarsi da un’infamante accusa, ebbe a giungere ad Umago ove morì. Le sue spoglie furono conservate nel duomo della città costiera, per essere depredate dai genovesi nel XIV secolo. Un braccio del supposto protovescovo fu, invece, conservato nella cattedrale di Pedena.

I Santi Nicefori
ex cattedrale di Pedena
(dal sito https://www.central-istria.com/it/pican)


Su questa copresenza di due santi recanti il nome greco di Niceforo, uno martire l’altro confessore, nella devozione e nel culto della diocesi istriana – tra l’altro attestati da testimonianze iconografiche della ex cattedrale petenate – parecchio è stato detto e la vicenda risulta nebulosa e di fatto irrisolta: ci sono effettivamente due santi Niceforo o si tratta di uno sdoppiamento del culto di un martire orientale diffusosi, verosimilmente, durante il dominio bizantino quando le spoglie mortali approdarono a Fianona e poi, miracolosamente, giunsero a Pedena ?

Concludiamo questo necessariamente breve e lacunoso excursus sui “santi Nicefori” parafrasando le argute parole scritte dal compianto monsignor Luigi Parentin a proposito di questo “enigma agiografico”: nel dubbio meglio ingraziarsi entrambi.

Francesco G. Tolloi

francesco.tolloi@gmail.com

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Lezioni del secondo Notturno

[lectio iv] Sub império Valeriáni célebre in Oriénte fuit Nicéphori nomen, qui aliquándo íntimam cum Saprítio presbýtero amicítiam cóluit, donec subínde, istigánte dǽmone, tanta inter eos orirétur discórdia, ut mútuo se ódio prosequréntur, et alter alterius fáciem sustinére non posset. Nicéphorus tamen paulo post in se revérsus, tum impósitis amícis, tum ipse coram accédens, vénieam pétiit a Saprítio, sed incássum; numquam enim ei vóluit reconciliári. Intérea, exórta in Christiános persecutióne, Sapríruys, ad tribúnal júdicis raptus, magna ánimi fortitúdine et libertáte Christum confitétur, et cum nullo modo addúci posset, ut diis immoláret, constríctus cóchlea et in equúleo disténsus, diríssimis cruciátibus constantíssime superátis, ad mortem damnátur.

 

Durante l’impero di Valeriano famoso fu il nome di Niceforo, il quale, fu legato un tempo da un’intima amicizia con il presbitero Sapritio, finché, a un certo punto, su istigazione di un diavolo, nacque tra di loro una tal discordia, che si odiavano a vicenda e non sopportavano nemmeno di vedersi. Niceforo, tuttavia, dopo poco tempo, ritornato in sé, sia grazie alla mediazione di amici, sia in prima persona, chiese scusa a Sapritio, ma invano; egli infatti mai volle riconciliarsi. Nel frattempo, sorta una persecuzione contro i cristiani, Sapritio, condotto al tribunale del giudice, con grande  fortezza e libertà d’animo confessò Cristo e, dal momento che in nessun modo poteva essere convinto a sacrificare agli dei, messo sotto torchio e disteso sul letto di tortura, dopo aver superato con grandissima forza atroci tormenti, è condannato a morte.

[lectio v] Hanc Saprítii constántiam cum intellexísset Nicéphorus, lætus accúrit; certo confídens, véniam sibi non denegatúrum, qui jamjam Christi Martyr erat futúrus. Infélix tamen sacérdos ne in ipso quidem supplícii loco fratri vóluit reconciliári : quo factum est, ut Dei misericórdia indígnum se reddens, et supérna grátia destitútus, súbito mutáta senténtia, supplício térritus, Christo palam renunciárit, et a Nicéphoro qui eum veheménter hortabátur, ne prǽmium sibi parátum amítteret, aures avértens, diis sacrificáverit. Tum Nicéphorus : Ego quoque, inclamáre cœpit, Christiánus sum, et quem iste túrpiter negávit, Christum Deum colo; me loco ejus occídite. Mirántibus vero lictóribus, quod se ultro morti tráderet, se et Christiánus esse, et deos géntium detestári elatióri voce profitéri non déstitit.

 

Quando Niceforo ebbe udito di tale forza da parte di Sapritio, con gioia accorre; fermamente fiducioso che chi già stava per essere fatto martire di Cristo non gli avrebbe negato il perdono. Il tristo sacerdote, tuttavia, nemmeno sul luogo stesso di supplizio volle far pace; e così avvenne che, rendendosi indegno della misericordia di Dio, e spogliato della grazia suprema, d’improvviso, cambiato parere, si spaventò del supplizio e, rifiutandosi di sentire Niceforo che lo esortava con forza a non perdere il premio che gli era stato preparato, sacrificò agli dei. Allora Niceforo cominciò a gridare: “anche io sono cristiano e adoro come Dio Cristo, che costui ha turpemente negato, uccidete me al suo posto!” Di fronte allo sbigottimento dei littori che si offrisse al morte, egli non la smise di professare che era un cristiano e che detestava gli dei dei pagani.

[lectio vi] Quod cum prǽsidi nunciátum esset, Nicéphorum, blandítiis licet et verbéribus pertentátum, mandátis Imperatórum parére detrectántem, lata mortis senténtia, cápite plecti jubet. Itaque Nicéphorus, quam sua fide, humilitáte et caritáte proméruit martýrii palmam Saprítio jam destinátam, capitis obrtuncatióne reportávit anno Christi círciter ducentésimo quinquagésimo nono. Sacra ejus ossa, ut vetus fert tradítio, Deo mirabíliter disponénte, in Istriam deláta, Pétenæ débito cum honóre asservántur, ubi eídem Mártyri tamquam principáli Diœcésis Petenénsis Patróno, solémnis cultus usque ad suppressiónem illíus Episcopátus hábitus est, ejúsque festum die trigésima Decémbris celebrátum. Dum vero Diœcésis Petenénsis a Pio Papa sexto Tergestínæ fúerit attribúta, hic quoque idem Martyr magna cum veneratióne coli cœpit, eádem die ejúsdem festo consecráta.

 

Quando fu riferito al magistrato che Niceforo, sebbene tentato con promesse e percosse, rimaneva renitente agli ordini dell’Imperatore, emessa la sentenza di morte, ordina la decapitazione. Niceforo, pertanto, ottenne per decapitazione e grazie alla sua fede, umiltà e carità quella palma di martirio che era già stata destinata a Sapritio, all’incirca nell’anno di Cristo 259. Le sue ossa, come vuole la tradizione, portate, per disposizione divina, in Istria, con il debito onore sono conservate a Petena, dove al medesimo martire si mantenne un culto solenne come principale patrono della Diocesi di Petena, fino alla sopressione di quell’episcopato, e la sua festa era celebrata il 30 dicembre. Quando la Diocesi di Petena fu unita da Papa Pio VI alla diocesi di Trieste, anche qui si celebrò con grande venerazione il medesimo Martire, nello stesso giorno consacrato alla sua memoria.

Da: Proprium Officiorum pro unitis Dioecesibus Tergestina et Justinopolitana, Pars Verna, Ratisbonae et Romae, Pustet, 1918, pp. 3 e ss. (vescovo A. Karlin)


venerdì 4 dicembre 2020

Sant'Apollinare Suddiacono, martire - 6 dicembre -

Sul colle di San Giusto, non molto distante dalla Cattedrale triestina, si staglia la sobria chiesa ottocentesca officiata da sempre dai frati cappuccini, chiamata popolarmente la “chiesa di Montuzza”. Il sacro edificio sorge su un terreno donato dall’Imperatore Francesco Giuseppe, per ospitare il convento e la chiesa dei frati, allora provenienti della Provincia Marchigiana. Ciò poté vedersi compiuto grazie alla tenace volontà di monsignor Bartolomeo Legat, vescovo di Trieste e Capodistria (+ 1875), le cui spoglie proprio in questa chiesa attendono il giorno ultimo. L’iniziativa fu sostenuta dalla munificenza di tanti triestini, noti o sconosciuti, ma anche da triestini “d’adozione”, come la famiglia reale delle Spagne che visse l’esilio nella nostra città [1]. Fortissimamente si voleva un ritorno dei frati cappuccini che a Trieste, dal 1617 al 1785, erano insediati fuori della Porta Cavana. Costretti a lasciare la città per i provvedimenti di soppressione di Giuseppe II, ripararono nella vicina Stiria. Questa chiesa, così come quella atterrata nell’ultimo scorcio del XVIII secolo, è intitolata a Sant’Apollinare legando così il nome di questo Santo alla presenza cappuccina a Trieste  [2].

Chiesa di Sant'Apollinare (Trieste).

Va notato che non si tratta però del più celebre Sant’Apollinare ravennate, vescovo originario di Antiochia vissuto nel I secolo che compì il suo martirio a Classe (RA), ove sorge la celeberrima basilica impreziosita dai raffinati e famosi mosaici. Sebbene non manchi chi ritenga trattarsi di uno “sdoppiamento” del culto ravennate [3], stando alla lex orandi locale il “nostro” Apollinare era un suddiacono che viveva a Tergeste nei primi secoli dell’era cristiana [4] . Egli si prendeva cura di un anziano presbitero di nome Martino cui procurava di che nutrirsi, posto che i cristiani, per scampare alle persecuzioni, si nascondevano nei boschi e nelle grotte attorno alla città. Apollinare iniziò ad acquistare una certa notorietà in seno alla comunità cristiana attratta dai poteri taumaturgici del suddiacono. Questi infatti, tracciando con la sua mano il segno di croce, aveva ridato la vista ai ciechi e ridonato la salute ad ammalati. Furono proprio queste circostanze a destare l’attenzione del Preside Licinio che fece convocare Apollinare al suo cospetto. Qui gli fu intimato di offrire incenso ai falsi dei, Apollinare rifiutò professando in modo risoluto e deciso la sua fede in Cristo. I suoi aguzzini risolsero allora di spogliarlo e porlo su una graticola sotto la quale ardeva il fuoco. Per recargli ulteriore tormento, quattro soldati lo percuotevano con mazze nerborute. Apollinare, pronunziata un’orazione, fece con la sua mano un segno di croce ad indirizzo del fuoco che subito si spense. Subito si levò in piedi incolume, tra la meraviglia e lo stupore dei presenti. Licinio, adiratosi, sospettando che il ministro della casa del Signore ricorresse ad arti magiche, diede ordine che gli fosse mozzata la mano destra, proprio quella mano con la quale Apollinare tracciava il segno vivificante della nostra redenzione ed operava prodigi. Ma neanche questa orribile mutilazione piego la volontà del suddiacono. Innanzi al rifiuto di abiurare, il Preside lo condanno a morte mediante decapitazione. L’esecuzione avvenne fuori le mura cittadine, alcuni devoti concittadini, fratelli nella fede, ne raccolsero le spoglie dandone degna sepoltura. 

I pochi cenni biografici su Apollinare e il più minuzioso racconto dei tormenti inflittigli dai pagani, si evincono dalla sua Passio, un racconto che il Grégoire, avendolo analizzato sotto il profilo linguistico e morfologico, ritiene di collocare in una forbice temporale situabile tra non prima della fine del IV secolo e prima dell’inizio dell’XI [5]. Il racconto ha riscontro solo in un estremamente esiguo numero di testimoni manoscritti peraltro geograficamente circoscritti [6].

Il sacerdote Giuseppe Mainati riferisce che il 26 aprile del 1624 nella Cattedrale di San Giusto, fu rinvenuta un’arca contenente, assieme a lacerti di vestimenti consunti, il cranio di Sant’Apollinare e parte delle sue ossa. Lo stesso sacerdote – che ricoprì l’incarico di sacrista della nostra Cattedrale – ci attesta che vi era l’uso (evidentemente ancora nel primo ventennio dell’Ottocento quando egli scrive), di esporre l’arca del Santo sotto l’altare di San Nicolò il 6 dicembre, giorno della sua festa [7].


Sant'Apollinare raffigurato nell'Opera
di Giuseppe Mainati 

Monsignor Giusto Buttignoni, oltre a ricordare la ricognizione precedente, che era avvenuta essendo vescovo di Trieste Rinaldo Scarlicchio, riporta la notizia di un’altra compiuta nel 1929 dal vescovo Luigi Fogar, cui il Buttignoni ebbe a presenziare assieme al Padre Guardiano del Convento dei Cappuccini. Con l’occasione le reliquie furono poste in una nuova urna, ispirata allo stile di quella di San Sebaldo di Norimberga, realizzata dall’argentiere goriziano Lipizer [8].

È ancora monsignor Buttignoni a ricordare, nell’anno 1930 quella che egli stesso definisce l’«apoteosi del Martire» culminata con una celebrazione triduana a ridosso del dies natalis di Sant’Apollinare ed una solenne traslazione di una reliquia insigne dello stesso, mossa dalla Cattedrale verso la chiesa dei Cappuccini [9].

Pala di Sant'Apollinare nell'omonima chiesa
di Trieste. (Antonio Guardassoni, 1819-1888)
Immagine dal forum "atrieste" g.c.

Per quanto attiene la presenza di Sant’Apollinare Martire nei testi dei propria diocesani, possiamo rilevare uno spartiacque rappresentato dalle riforme di papa San Pio X. Come detto la festa del santo suddiacono tergestino è il 6 dicembre, data che il Calendario Universale riserva a San Nicola (rito duplex). Avveniva dunque che in Cattedrale si celebrava (rito duplex majus) la festa di Sant’Apollinare, annoverato tra i patroni secondari, il 6 dicembre, facendosi reposizione della festa di San Nicola al 9 dicembre. Nel resto della diocesi si riscontrava la situazione speculare: San Nicola il 6 dicembre e Sant’Apollinare il 9 [10]. Con le riforme di San Pio X, si aprì la possibilità di commemorare la festa del calendario universale in quello locale: le feste infatti di rito duplex, come nel nostro caso, ma anche di rito semiduplex, per le quali si verifica occorrenza, non dovevano più essere riposte alla prima data utile ma potevano essere commemorate [11]. Fu durante l’episcopato di monsignor A. Karlin che fu redatto il Proprium Officiorum diocesano ad mentem della riforma di San Pio X: qui, per l’appunto, troviamo Sant’Apollinare celebrato il giorno 6 dicembre in tutta la diocesi e San Nicola commemorato [12]. Negli anni Sessanta del Novecento Sant’Apollinare fu espunto dai propria [13], il canonico monsignor Vittorio Cian fa notare che è proprio il nome di Sant’Apollinare a mancare tra i tradizionali santi diocesani. Il suo inserimento fu osteggiato dalla Congregazione proprio perché si riteneva trattarsi dello “sdoppiamento” dell’omonimo ravennate (che fu vescovo, mentre il “nostro” suddiacono…) [14]. È peraltro ancora lo stesso Autore a riferire che «Mons. Santin [allora vescovo di Trieste] mi confidò che ebbe a lottare non poco con P. Fruttaz alla Congregazione per il Culto per l’eccessiva severità critica adottata in quel momento verso le tradizioni dei santi locali, del resto smentita, come nell’esempio del rinvenimento della sepoltura dei santi aquileiesi Canzio, Canziano e Canzianilla, dati per inventati secondo certi critici. Secondo quei criteri ben poco si sarebbe conservato del calendario tradizionale della Chiesa Tergestina.» [15].

Anche in vista della riformulazione dei propria diocesani, negli anni Ottanta dello scorso secolo si decise di procedere alla ricognizione delle reliquie dei martiri della Chiesa triestina. È ancora monsignor Cian a riportare l’autentica compilata per l’occasione (31 agosto 1986): per quanto attiene i resti ossei, si è potuto determinare che la maggior parte di essi è riconducibile ad un individuo di sesso maschile e che sono compatibili con le reliquie custodite dai Cappuccini, un’altra parte di ossa appartengono ad un individuo di sesso femminile, mentre un’ultima parte è di frammenti ossei di origine animale [16]. Nel testo dell’autentica, a firma del vescovo monsignor L. Bellomi, si legge: «Non potendosi con certezza individuare i resti dell’eventuale Apollinare, martire triestino, si decide di non insistere per l’inserimento nel calendario diocesano e quindi di non rinnovarne il culto.»[17].

Nei propria rinnovati si fa menzione di Sant’Apollinare nella Memoria dei Santi Protomartiri della Chiesa Tergestina, qui fissata al 7 giugno [18]. Nella data del suo “dies natalis” è celebrato solo nella chiesa di Montuzza a lui intitolata come si evince dal calendario provinciale dei frati cappuccini [19].

Absidiola di Sant'Apollinare
(Cattedrale di San Giusto, Trieste)

Sant'Apollinare
(Passionario della badessa E. Bonomo, XVII sec.)

Per quanto attiene l’iconografia, la più antica si trova nell’absidiola della navata all’estrema destra della Cattedrale, laddove, pur in condizioni deteriorate, si possono vedere degli affreschi romanici con episodi della vita del Santo e lo si ritrova anche nel manoscritto seicentesco della badessa Eufrasia Bonomo [20]. Nella chiesa dei Cappuccini è rappresentato sulla pala dell’altare maggiore opera del bolognese Alessandro Guardassoni (1819-1888) [21]. Qui il Santo, rivestito della tunicella in allusione al suo grado suddiaconale, è raffigurato nella gloria, sostenuto da una corona di angeli nell’atto di pregare per la sua città che ab immemorabili lo invoca tra i suoi patroni.

Sancte Apollinaris, ora pro nobis!

Francesco G. Tolloi

francesco.tolloi@gmail.com



Note:

[1] Mi riferisco qui a Carlo V e la sua discendenza (c.d. “carlisti”), inumati presso la cappella di San Carlo Borromeo della Cattedrale triestina.

[2] Per cenni succinti sulla presenza cappuccina a Trieste, rimando a: L. Parentin, Il francescanesimo a Trieste e in Istria nel corso dei secoli, Trieste, Comitato triestino per l’ottavo centenario della nascita di San Francesco, 1982, pagg. 39-40.

[3] Nella voce dedicata a Sant’Apollinare della Bibliotheca Sanctorum, Filippo Caraffa, poggiando il suo assunto sul Lanzoni e citandolo, riferisce che le relazioni tra le sponde dell’Adriatico portarono anche allo scambio di reliquie di Santi e all’adozione conseguente del culto di essi che alle volte ne trasformarono la figura. (Cfr. F. Caraffa, Apollinare, in Bibliotheca Sanctorum, Roma, Istituto Giovanni XXIII nella Pontificia Università Lateranense 1969, vol. III, col. 249.).

[4] Ho ritenuto qui utilizzare un’indicazione con termini temporali volutamente ampi se non vaghi. Un tanto perché, nei testi che ho avuto modo di consultare non danno un’indicazione univoca. Riporto succintamente qualche esempio. Il testo della Passio riportata dal Kandler (P. Kandler, Pel fausto ingresso di Monsignore Illustrissimo e Reverendissimo D. Bartolomeo Legat Vescovo di Trieste e Capodistria, Trieste, Papsch, 1847, s.p.) esordisce con un’indicazione temporale di questo tipo: «Temporibus Antonini Imperatoris». Per il Kandler il martirio avvenne nel 151, ossia durante l’imperio appunto di Antonino Pio, figlio d’adozione di Adriano e primo della dinastia degli Antonini. Il benedettino Réginald Grégoire colloca il dies natalis del nostro suddiacono sotto Antonino Caracalla regnante tra 211 e 217 (R. Grégoire, Le passioni degli antichi martiri di Trieste, in n AA. VV. La Tradizione Martiriale Tergestina Storia, culto, arte (a cura di V. Cian e G. Cuscito), Trieste, Edizioni Vita Nuova, 1992, pagg. 97 e 104). Gabriella Brumat Dellasorte, che pure indica in bibliografia l’Opera con il saggio del padre Grégoire, colloca il martirio nel 142, dunque ancora durante l’imperio del citato Antonino Pio, il successore di Adriano (cfr. G. Brumat Dellasorte, Apollinare, in AA. VV. Santi e Martiri del Friuli Venezia Giulia (a cura di W. Arzaretti), Padova, Messaggero, 201, pagg. 80-81.).

[5] Cfr. R. Grégoire, Le passioni degli antichi martiri di Trieste, op. cit., pag. 104.

[6] Cfr. P. Chiesa – E. Colombi (a cura di) Lista sommaria dei manoscritti delle passiones dei martiri aquileiesi e tergestini, in San Giusto e la Tradizione Martiriale Tergestina, a cura di G. Cuscito, Trieste, Editreg, 2005, pag.70

[7] Cfr. G. Mainati, Vita e Martirio del glorioso San Giusto e de’ Santi Servolo, Sergio, Lazzaro, Apollinare, Primo, Marco, Giassone e Celiano, Eufemia e Tecla sorelle, Giustina e Zenone, Venezia, Picotti, 1816, pag. 75

[8] Cfr. G. Buttignoni, S. Giusto e gli altri Martiri triestini, Trieste, Smolars, 19482, pagg. 59 e ss.

[9] Ivi, pag. 62 e s.

[10] Cfr. Kalendarium Perpetuum in Proprium Officiorum in usum Ecclesiarum Unitarum Dioeceson Tergestinae et Justinopolitanae, Ratisbonae – Romae – Neo Eboraci, Pustet, 1900, pag. 14*. Tale proprium dell’Ufficio – edito durante l’episcopato di monsignor A. M. Sterk - è l’ultima edizione in vigore prima della Bolla “Divino Afflatu” di San Pio X. Lo status quo descritto si ritrova anche nelle edizioni precedenti.

[11] Cfr. Additiones et Variationes in Rubricis Breviarii, in Breviarium Romanum, editio typica, Romae, Polyglottis Vaticanis, 1915, Tit. V, pagg. lxvj e s.

[12] Cfr. Proprium Officiorum pro unitis Dioecesibus Tergestina et Justinopolitana, pars hiemalis, Ratisbonae et Romae, Pustet, 1915, pagg. 3 e ss.

[13] Cfr. Proprium Officiorum pro Dioecesi Tergestina, Taurini, Marietti, 1964 e Proprium Missarum Dioecesi Tergestinae, Taurini, Marietti, 1964. Si tratta dei propria “ad normam et mentem” del nuovo Codice delle Rubriche, promulgati da mons. A. Santin.

[14] V. Cian, Il culto liturgico dei Santi della tradizione tergestina, in AA. VV. La Tradizione Martiriale Tergestina Storia, culto, arte (a cura di V. Cian e G. Cuscito), Trieste, Edizioni Vita Nuova, 1992, pag. 194.

[15] Ivi, pag. 246, nt. 16.

[16] Cfr V. Cian, Il culto dei nostri martiri: documenti e autentiche, in AA. VV. La Tradizione Martiriale Tergestina Storia, culto, arte (a cura di V. Cian e G. Cuscito), op. cit., pagg. 26 e s.

[17] Ivi, pag. 27.

[18] Cfr. Diocesi di Trieste, Liturgia delle Ore, Città del Vaticano, Poliglotta Vaticana, 1989, pag. 23. Qui Sant’Apollinare è menzionato nella nota introduttiva alla celebrazione della Memoria assieme ai santi: Giasone, Celiano, Primo, Zenone e Giustina. I testi furono promulgati durante l’episcopato di monsignor L. Bellomi.

[19] Cfr. Guida liturgica per i Frati Cappuccini delle Province veneta e lombarda e per le monache Clarisse Cappuccine, Venezia, Curia Prov. Ofm Capp., 2020, pag. 8. Da essa si evince che la ricorrenza di Sant’Apollinare è celebrata presso la chiesa dei Cappuccini di Trieste di cui è titolare con il grado di solennità.

[20] Cfr. G. Brumat Dellasorte, Apollinare, in AA. VV. Santi e Martiri del Friuli Venezia Giulia, op.cit., pag. 81.

[21] Cfr. G. Cuscito, Le chiese di Trieste, Trieste, Italo Svevo, 1992, pag. 209.

Lezioni del secondo Notturno

[lectio iv] Antoníno Imperatóre, cum prǽsidum in Christiános ódium fúreret, et pleríque, dum persecutiónis fervébat æstus, in móntibus  et cavérnis abscónderent, Apollináris, ecclésiæ tergestínæ subdiáconus, cum Martíno sacerdóte haud procul Tergésto delitéscens, ei victum clam suppeditábat. Mórtuo autem Martíno, cum Apollináris signo crucis cæcos illumináret et infírmis sanitátem largirétur ac pópulos miraculórum fama motus ad eum concúrreret, ipsum Licínus præses accersítum idólis thus adolére jubet, et nisi morem gerat, gravíssima ei torménta minátur.

Sotto l’imperatore Antonino, allorchè l’odio dei magistrati incrudeliva contro i cristani, e la maggior parte, al culmine delle persecuzioni, si nascondevano nei monti e in caverne, Apollinare, suddiacono della Chiesa di Trieste, nascondendosi con il sacerdote Martino non lontano da Trieste e si procurava di nasconsto il vitto. Dopo la morte di Martino, dal momento che Apollinare con un segno della croce aveva ridonato la vista a ciechi e la salute ai malati, e il popolo mosso dalla sua fama accorreva a lui, il Magistrato Licinio ordina che gli venga davanti e bruci incenso agli idoli, e se non si fosse adeguato gli minacciava gravissimi tormenti.

[lectio v] Sed fortis Christi miles, cum jussa prǽsidis éxequi constantíssime recusáret et Christum Deum intrépide confiterétur, nudus in cratícula exténsus, SUBjécto igne torquétur, interímque nodósis fústibus a quátuor satellítibus diríssime cǽditur. Verum, cum facta oratióne et flammis signo crucis mirabíliter exstínctis, Apollináris ex cratícula incólumis consurrexísset, et qui intérerant, magnum esse Christianórum Deum, qui fidéles suos tam poténter deféndit, exclamárent; Licínius, ómnia mágicæ artis præstígiis attríbuens, Confessóri Christi manum déxteram, qua crucis signum formáverat, amputári jubet.

Il coraggioso soldato di Cristo, però, dal momento che con persistenza si rifiutava di eseguire gli ordini del magistrato e con coraggio confesava Cristo come Dio, disteso nudo su una grata con del fuoco sotto viene torturato mentre quattro militari lo colpiscono fortissimaemnte con mazze nodose. Tuttavia, dopo che con una preghiera e con un segno di croce le fiamme si erano spente miracolosamente, Apollinare si rialzò incolume dalla graticola e che i presenti riconobbero che il Dio dei Cristani doveva essere grande, se difendeva così potentemente i suoi fedeli; Licinio, attribuento il tutto a trucchi di arte magica, ordina di amputare la mano destra del Martire, con la quale aveva tracciato il segno della croce.

[lectio vi] Postrémo, cum præses invícti Confessóris constántiam se frángere posse desperáret, pronuntiáta mortis senténtia, eum extra urbem cápite plecti ímperat. Octávo ígitur Idus Decémbris Apollináris prope Tergéstum occísus est, ejúsque corpus a piis fidélibus prope civitátis moénia honorífice cónditum. Ipse vero sanctus martyr inter patrónos civitátis Tergestínæ, ex antíqua ad hæc usque témpora traditióne, veneratiónem habet.

Alla fine, quando il magistrato si era convino che non sarebbe stato capace di piegare la costanza dell’invitto martire, pronunciata la sentenza di morte, dà l’ordine di decapitarlo fuori dalla citta.  Apollinare fu ucciso il 6 dicembre vicino a Trieste, e il suo corpo  fu sepolto con onore da pii fedeli vicino alle mura della città. Il Santo Martire, poi, è venerato dai tempi anctichi fino ai nostri giorni tra i patroni della città.

 

Da: Proprium Officiorum pro unitis Dioecesibus Tergestina et Justinopolitana, Pars Hiemalis, Ratisbonae et Romae, Pustet, 1918, pp. 3 e ss. (vescovo A. Karlin)