Prælegendum.
Nel già dichiarato proposito di riprendere su questo mio blog alcuni miei contributi pubblicati altrove, ho pensato fosse utile proporre questo mio breve articolo sulle "Rogazioni" già pubblicato su "Il domenicale di San Giusto", settimanale della diocesi di Trieste con il quale ho avuto modo di collaborare dai suoi esordi come redattore responsabile della pagina "cultura": l'articolo fu pubblicato nel numero del 24 aprile 2022 (pag. 7). Oggi, festa di San Marco, ricorrono appunto le "Rogazioni Maggiori" che - salvo rare e felici eccezioni - furono falciate da quel globalmente deprecabile moto riformatore che fu il "Novecento in liturgia", dove un'ideologia pastoralista autoreferenziale mal pensò di demolire un intero edificio per recuperarne le macerie e ricomporle in un bizzarro prodotto architettonico cementato da un'ideologia i cui esiti fallimentari sono sotto gli occhi di tutti. Oggi, questa lex orandi concepita in vitro, la si vorrebbe universalmente imposta con atti d'autorità del tutto inediti nella storia della Chiesa - al netto delle bizzarre fandonie evocate in quel monstrum di documento ben conosciuto sotto il nome di Motu Proprio "Traditionis custodes" - lasciando, con poca pudicizia, in evidenza la fallace debolezza degli assunti.
Con l'augurio di una buona lettura,
Francesco G. Tolloi
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Il gaudio che promana dalla
Pasqua e che, espandendosi, permea e plasma l’espressione liturgica di tutto il
ciclo pasquale, subiva delle brevi interruzioni, dei momenti in cui la Chiesa
apriva delle parentesi di penitenza: si tratta delle rogazioni, delle speciali
processioni volte a placare l’ira divina, a scongiurare le avversità naturali
(come i terremoti e le inondazioni), l’inclemenza del clima ed impetrare
l’abbondanza del raccolto. Proprio queste finalità le rese particolarmente care
al mondo rurale, abituato a rapportarsi nella quotidianità con una natura,
talvolta avversa, da cui dipendeva, in modo diretto, il proprio sostentamento.
In quattro occasioni perciò la Chiesa chiamava i suoi figli a speciali momenti
di preghiera che culminavano con speciali processioni al canto delle litanie
dei Santi. La prima di queste occasioni era fissata il 25 aprile ed era detta Litania
major, per distinguerla da altre simili fissate, in epoca più tarda, nei
tre giorni che precedono la solennità dell’Ascensione (litaniae minores).
La litania major ha un’origine schiettamente romana. Sebbene il
tentativo di identificare l’istituzione di feste cristiane con il rivestimento a
posteriori di preesistenti ricorrenze pagane appaia talvolta ardito o
forzato, in questo caso specifico è piuttosto convincente. Nel cinquantennio
successivo l’editto di Costantino, sopravviveva ancora tenacemente in seno alla
popolazione di Roma, l’uso di muovere delle speciali processioni a primavera
volte a propiziare, presso gli dei, l’abbondanza dei raccolti. Di queste
particolari costumanze pagane, dette ambarvalia, la più importante
ricorreva il 25 aprile e percorreva la via Flaminia. Giunto il corteo al quinto
miglio (ponte Milvio), in un bosco ritenuto sacro, il sacerdote preposto al
culto di Quirino praticava dei sacrifici al dio Robigus (donde
l’occasione veniva detta robigalia). Dinnanzi a questa situazione di
forte radicamento, papa Liberio (+ 366) ritenne di mantenere l’antica usanza
caricandola però di significati cristiani. La processione conosceva diverse
tappe (stationes) e trovava il suo culmine nella celebrazione della
Messa in San Pietro [1]. Stando all’opinione del Beato Ildefonso
Schuster, con ogni probabilità la ricorrenza aveva inizialmente un carattere
festivo, proprio l’aggettivazione major starebbe ad indicare una
principalità rispetto alle processioni stazionali, queste sì caratterizzate dalla
penitenza, che si tenevano, in modo particolare durante la Quaresima [2].
Diversamente dalle litanie maggiori, quelle minori si reiteravano per tre
giorni e la paternità è comunemente attribuita a San Mamerto, vescovo di Vienne
e fin dall’origine tradiscono connotati di penitenza. Nel V secolo, la regione
del Delfinato era stata afflitta da varie calamità, ultimo, in ordine di tempo,
un terremoto particolarmente rovinoso aveva portato la desolazione in quei
territori. il santo vescovo per questi motivi, approssimandosi l’Ascensione,
indisse tre giorni di digiuno con processioni litaniche facenti tappa in alcune
chiese dei sobborghi. L’uso fu presto imitato da altre diocesi francesi,
spagnole e tedesche per attestarsi poi a Roma durante il pontificato di Leone
III (+ 816) al culmine di un’epoca di intensi scambi culturali-liturgici tra le
Gallie e l’Urbe [3]. Va
notato che nella fase di diffusione delle litaniae minores non sempre si
riscontrò uniformità nell’accogliere la costumanza, in modo particolare il
digiuno che le caratterizzava era visto come incompatibile con la letizia dei
cinquanta giorni che seguono la Pasqua, da qui si produsse una certa varietà
destinata ad essere ridotta all’uniformità solo nel corso dei secoli: vi erano
luoghi che avevano accolto le processioni ma non il digiuno, altri che avevano
accolto la costumanza in toto ma fissandola dopo la Pentecoste. Diverso
è il caso di Milano: forti del passo evangelico per il quale «Finché hanno lo
sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno giorni quando lo sposo sarà
loro tolto: allora, in quel giorno, digiuneranno.» (mt 2), i milanesi fissarono
le supplicazioni litaniche nella settimana che segue l’Ascensione. Queste tre
giornate, dette litaniae triduane, non sono però frutto di un’imitazione
dell’uso di Vienne ma si ritengono istituite dall’arcivescovo San Lazzaro negli
anni in cui gli Unni di Attila devastarono la città (452). Si trattava in ogni
caso di riti fortemente penitenziali, connotati dall’uso del colore liturgico
nero: al primo dei tre giorni si imponevano le ceneri sul capo dei presenti (un
uso che era sconosciuto nella sua posizione in capite quadragesimae nel
rito ambrosiano), il digiuno, nella Chiesa mediolanense, fu mantenuto sino alle
soglie del Novecento [4].
Dall’età carolingia dunque troviamo attestati in Roma quattro giornate in cui
si tengono le rogazioni e possiamo ipotizzare che tra le maggiori originarie e
quelle minori, d’introduzione più recente, ci sia stata una reciproca
influenza. In modo particolare le prime potrebbero esser state prese a modello
quanto a testi e aspetto cerimoniale, mentre le seconde potrebbero aver
trasmesso il tratto penitenziale. Si riscontra in modo particolare, sia dal
Sacramentario gregoriano che dagli Ordines medievali, che durante il
percorso il pontefice procedeva a piedi scalzi muovendo dal Laterano in
direzione di San Pietro, le diverse categorie di persone partivano da altre
chiese dell’Urbe ciascuna preceduta dalla propria croce astile [5].
Il percorso veniva interrotto da alcune soste presso le chiese che si
incontravano lungo il tragitto [6].
Queste soste o stazioni avevano un duplice scopo, uno eminentemente pratico e
concreto, ovverosia di rinfrancarsi e riposare, l’altro di venerare i patroni
delle chiese così visitate e rendere omaggio alle reliquie che in esse erano
custodite. Appare interessante notare che questo carattere stazionale si
conservò anche nel Rituale romanum che normò le rogazioni fino alla
vigilia dei nostri giorni: le rubriche infatti prevedevano che incontrando
lungo il percorso - che spesso nelle campagne a noi vicine si protraeva per
molte ore - delle chiese si interrompeva il canto delle litaniae sanctorum
e si entrava in esse per cantare l’antifona del patrono e la sua orazione [7].
Queste soste spesso avvenivano anche presso i capitelli e le edicole votive
erette lungo le strade di campagna. In alcuni luoghi dell’arcidiocesi
metropolitana di Gorizia si attesta l’uso, sicuramente non esclusivo, di
cantare quattro vangeli (mt 6, mc 6, lc 11 e gv 16) seguiti da orazioni in
quattro apposite stationes [8].
Attualmente il Benedictionale (parte di quello che era il Rituale)
fornisce uno schema celebrativo, l’edizione in lingua italiana, curata dalla Conferenza
episcopale italiana, conserva, giusta l’uso del luogo, le rogazioni nei giorni
che precedono l’Ascensione sviluppandone il rito con maggiore ampiezza. Il
dettato normativo dei praenotanda consente altresì la celebrazione in
altre circostanze [9].
Ut fructus terrae dare, et
conserváre dignéris, te rogámus, audi nos.
Francesco G. Tolloi
[1] Cfr. M.
Righetti, Manuale di storia liturgica, Milano, Ancora, 1969, vol. II,
pagg. 296 e ss.
[2] Cfr. I.
Schuster, Liber Sacramentorum, Torino, Marietti, 1930, vol. IV, pag.
119.
[3] Cfr. P.
Siffrin, voce Rogazioni in Enciclopedia Cattolica, Città del
Vaticano, Ente per l’enciclopedia cattolica e per il libro cattolico, 1953, vol
X, coll. 1084 e ss.
[4] Cfr. V.
Maraschi, Le particolarità del rito ambrosiano, Milano, Istituto di
propaganda libraria, pag. 94 e ss.
[5] Cfr. M.
Andrieu, Les Ordines Romani du haut moyen age, Louvain, Spicilegium
Sacrum lovaniense, 1961, vol. V, pagg. 314 e ss. (il Volume è dedicato in
particolare all’Ordo L dell’XI secolo)
[6] Cfr. Sacramentario
Gregoriano, testo latino-italiano e commento, a cura di M. Sodi e O.A.
Bologna, Roma, Edizioni Santa Croce, 2021, pag. 109 e s. (al 512 e ss.).
[7] Cfr. Rituale
romanum, editio typica, Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1957, Titulus
X, Caput IV, al 5, pag. 773.
[8] Cfr. Benedictionale
seu collectio precum et piorum exercitiorum, Goritiae, Cancellariae
Principis-Archiepiscopalis Goritiensis, 1915, pagg. 44 e ss. (promulgato dal
principe arcivescovo F. Sedej). Questo uso peculiare, ma anche tanti altri che
sono rintracciabili in zone più o meno a noi vicine, va ricercato nel fatto che
il Rituale romanum, promulgato la prima volta da papa Paolo V (1614),
non fu mai imposto a differenza degli altri libri liturgici.
[9] Cfr. Rituale
romanum – De benedictionibus, Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1985,
Caput XXII, pagg. 287 e ss. e Benedizionale, Roma, Conferenza Episcopale
Italiana, pagg. 746 e ss.
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