Una breve premessa.
Tra
le innumerevoli cerimonie che si susseguivano serratamente durante la Settimana
santa in Roma, merita particolare attenzione – non fosse altro per la curiosità
che era in grado di suscitare – l’abluzione dell’altare papale che veniva
compiuta la sera del Giovedì santo nella Basilica vaticana. L’anonimo autore di
un piccolo volume , ai primi del Novecento, dedicato proprio a questo
particolare costume liturgico, ci
riferisce che – fin dalle testimonianze da
lui consultate – il concorso di fedeli era tale da rendere persino difficoltoso
il passaggio del clero che si dirigeva all’altare per il compimento di questa
cerimonia: talmente numerosa era la
moltitudine che esso si vedeva costretto ad aprirsi materialmente il varco tra
le ali di folla [1]. L’allora
popolarissimo periodico «La Tribuna Ilustrata della Domenica», volle – nel 1898
– pubblicare una dettagliata incisione a colori di Romagnoli e Zaniboni,
laddove si notano i fedeli assiepati fino alle immediatissime vicinanze del
basamento delle colonne berniniane [2]. Altrettanto – sebbene con un’incisione,
questa volta, in bianco e nero presa da un “disegno dal vero “ di D. Paolocci –
si evince da «L’illustrazione popolare».
Descriverò
qui brevemente il modo di ordinarsi di questa cerimonia.
L'abluzione dell'altare papale. (Romagnoli e Zaniboni) - collezione personale di Francesco G. Tolloi - |
L'abluzione dell'altare papale (Paolocci) - collezione personale di Francesco G. Tolloi - |
Svolgimento.
Una volta terminata l’ufficiatura delle Tenebrae, ossia il canto di mattutino e lodi
del Venerdì santo anticipati la sera del giovedì, il clero della basilica
vaticana si portava processionalmente all’altare papale. Aprivano la
processione il crocifero – la cui immagine del Crocifisso era velata – accanto
ad esso, ai suoi fianchi, incedevano due accoliti che sostenevano i candelieri
con le candele in cera gialla grezza spente. Li seguivano i seminaristi, il
clero beneficiato e i restanti canonici. Il canonico officiante, sopra il rocchetto,
portava stola e piviale di colore nero. Egli era assistito da sei canonici.
Questi, che per l’ufficiatura avevano indossato la cappa, ora indossavano la
cotta messa sopra il rocchetto e la stola nera. Il cardinale arciprete della
Basilica, indossando la cappa di colore violaceo (caratteristica dei tempi di
penitenza), seguiva la processione accompagnato dai suoi familiares.
Gli accoliti e il crocifero andavano a collocarsi nella
parte retrostante l’altare, mentre l’officiante con i sei canonici si mettevano
in ginocchio sul più basso dei gradini dell’altare; il restante del clero si
disponeva ad emiciclo presso l’altare. L’altare si presentava in questo momento
privo delle tovaglie, in luogo opportuno erano state preparate sette brocche
riempite di vino bianco allungato con acqua. L’officiante intonava l’antifona Diviserunt sibi, subito proseguita dai
cappellani che cantavano – alternativamente con la Schola cantorum – il salmo XXI, secondo il testo del Salterio
romano in uso al clero della basilica vaticana [3].
Ritengo che l’uso di cantarlo – attestato dal citato Autore di La cérémonie de l’ablution (cit., p. 31),
sia una innovazione recenziore, infatti Francesco Cancellieri ci riporta che si
proseguiva “senza canto”[4].
Non appena la summenzionata antifona era intonata, il canonico officiante si
alzava e, una volta toltosi il piviale, saliva con i suoi assistenti
all’altare. Ivi, il canonico altarista, in rocchetto e cotta, gli porgeva una
delle brocche. Gli altri sei canonici in stola nera, ricevevano anch’essi una
brocca. Contemporaneamente versavano una parte del contenuto sulla mensa,
spargendolo con l’ausilio di un “aspergillo”. Il Cancellieri ci ragguaglia che
questi aspergilli erano dei serti
fatti con rami di tasso, di bosso o più comunemente di sanguinella
opportunamente composti ed intrecciati [5].
Questi canonici scendevano dall’altare per lasciare il posto al cardinale
arciprete che imitava immediatamente il medesimo gesto. Altrettanto facevano,
dopo di lui, gli altri canonici, i beneficiari, il clero della basilica e, in
fine, i seminaristi.
Una volta che tutti avevano terminato di spargere il vino
allungato con l’acqua sulla mensa, l’officiante con i suoi assistenti saliva
nuovamente all’altare di cui asciugava la mensa servendosi di spugne e
asciugatoi di stoffa. Terminata anche questa operazione, scendevano in plano per mettersi in ginocchio sul
più basso dei gradini. Tutti si ponevano quindi in ginocchio. Avendo i
cappellani detto il versetto Christus
factus est obediens con la sua risposta, l’officiante principiava il Pater noster – proseguito in segreto –
cui faceva seguito l’orazione Respice,
quaesumus, Domine.
Tutti si levavano e – fatta la debita reverenza –
facevano ritorno alla sacrestia, per poi far riaccedere alla navata centrale
poco dopo per assistere alla solenne ostensione delle reliquie della Lancia,
della Croce e del santo Sudario.
Origine
e qualche riferimento storico.
Decisamente diverse sono state le ipotesi
avanzate per spiegare le origini
dell’uso liturgico di mondare l’altare: se perlomeno ardita è l’ipotesi per la
quale vi sia da ricercare il fondamento nelle costumanze rituali del tempio
israelitico (in particolare Esodo XXIX), a
fortiori lo è quella del protestante zwingliano Rodulpus Hospinianus che ne
vorrebbe rintracciare l’origine addirittura in lacerti di usi pagati,
trasformati ed adattati (nella fattispecie la lustratio del simulacro della dea Cibele) [6].
Fin troppo viziata di “positivismo” appare l’ipotesi del De Vert. L’Autore è
conosciuto proprio per queste spiegazioni che ricercano una mera origine
pratica, spesso forzatamente pragmatica. Proprio nel caso della ablutio, egli opina che l’uso si sia
instaurato profittando del fatto che l’altare si trova spogliato degli ornamenti,
in particolare delle tovaglie che abitualmente ne ricoprono la mensa. L’uso di
spogliare l’altare dopo la celebrazione sarebbe rimasto nelle prescrizioni del
Giovedì santo: essendo già spogliato un lavaggio ne sarebbe stato largamente
facilitato e agevolmente sarebbe venuto
ad insinuarsi nelle incombenze da farsi
in quei giorni. È qui che il De Vert si lascia andare a una critica
all’atteggiamento e la condotta dei sacristi che lasciano gli altari addobbati
col mero pretesto della comodità [7].
Una interpretazione votata alla simbolicità e alla allegoria, vorrebbe che
l’altare, immagine del corpo di Cristo, venga lavato, come pietosamente si fa
con il corpo di un morto; il vino e l’acqua sembrerebbero, a questo punto,
voler alludere e simboleggiare il sangue e l’acqua scaturiti dal costato del
Signore, ferito dalla lancia che gli colpì il costato.
Se prima ho fatto cenno all’ampio
concorso di popolo che interveniva nell’occasione di questa cerimonia della basilica
vaticana, non posso non ricordare che su questo rito l’attenzione di scrittori
ed eruditi ha avuto più volte modo di soffermarsi. Solamente tra l’ultimo
scorcio del XVII secolo e gli esordi del XVIII, tre furono le opere consacrate
a questo uso liturgico (le elenco in ordine cronologico):
- I.M. SUARESIUS, Ritus qui observatur in Basilica Vaticana quotannis in Die Coenae Domini, Romae, Herculis, 1686;
- C. BATTELLO, Ritus annuae ablutionis altaris majoris Sacrosanctae Basilicae Vaticanae, Romae, Zenobii, 1702;
- F. ORLENDUS, Duplex lavacrum in Coenae Domini fidelibus exhibitum, Florentiae, Nestenus – Borghigiani, 1710.
Tra i testi più vetusti ove si trova
contezza di questo peculiare rito merita menzione il De ecclesiasticis officiis di sant’Isidoro (+ 636), per il quale:
“Hinc est quod eodem die altaria, templique parietes, et pavimenta laventur,
vasaque purificantur quae sunt Domino consecrata”[8].
Sant’Eligio di Noyon parrebbe mettere in stretta relazione l’abluzione
dell’altare – nonché dell’edificio ecclesiastico e dei vasi sacri – alla
lavanda dei piedi di cui costituirebbe una sorta di particolare prolungamento
o, se vogliamo, di sviluppo ulteriore. Così si esprime a proposito sant’Eligio:
“Propter humilitatis formam commendandam ea die pedes eorum lavit, et hinc est
quod eodem die altaria, tempique parietes, et vasa purificantur” [9].
L’autore citato di La Cérémonie de
l’ablution de l’autel papal (cit., p. 6)
poggiando il suo opinare sulla critica tardo Ottocentesca – in
particolare facente capo al Vancard – avanza dubbi circa l’attribuzione di quel
testo a sant’Eligio. Potrebbe trattarsi, più verosimilmente, di qualche autore
riconducibile al X secolo, o solo a qualche decennio prima. Significativo
appare però il fatto che – pur nella difficoltà di datare con precisione
un’origine certa di tale rito e di trovare testimonianze precedenti
sant’Isidoro – all’epoca del grande dottore ispanico, il rito si configurava
già per essere tale, con tanto di tentativi di lettura in chiave simbolica, e non una mera - parafrasando qui
il De Vert - attenzione di pulizia esteriore in vista dell’imminenza della
principale festa cristiana. Sicuramente la circostanza di trovare l’altare
spoglio ha favorito il formarsi di tale usanza, ma mi pare possa escludersi che
questa spiegazione, specie se da sola, riesca ad essere non solo esaustiva ma
anche solo convincente.
Due secoli più tardi, Rabano Mauro (+
856) attesta l’uso germanico di effettuare una lavanda dell’altare nella Feria V della Settimana santa [10].
Martène fornisce altri interessanti ragguagli circa la diffusione di questo
rito [11].
Quanto alla menzione di tale uso liturgico
nell’ambito degli Ordines
romani, è necessario soffermarsi al n. “L” (numerazione Andrieu). La redazione
di tale Ordo rimonta al X secolo:
“Eodem die altaria templi et parietes sive pavimenta ecclesia laventur et vasa
Domino sacrata purificentur” [12].
Anche in questo caso devo registrare che l’ablutio
non si limita alle mense degli altari ma si estende alle pareti, il pavimento e
– infine – ai vasi sacri. È proprio a decorrere da quest’epoca che le
testimonianze si presentano meno rarefatte e, se vogliamo, sono all’insegna di
una certa sistematicità e ricorrenza. Se ne trova traccia sia nei consuetudinarii diocesani che in quelli
di ambito monastico, le tracce non sono tuttavia univoche. Anzi, proprio di
pari passo alla diffusione, si va incontro a una diversificazione degli usi. In
tal senso il rito dell’abluzione, in alcuni ambiti, lo si trova spostato il
giorno dopo, nel venerdì in Parasceve,
situato subito dopo il vespero o, anche, durante la refezione. Ma la variante
temporale non è certo la sola: appare diversificato il tipo di paramenti e
anche il colore che vengono adoperati per compiere tale ufficio. In alcuni
luoghi esso si compiva in camice e
stola, altrove si aggiungeva il manipolo, in altre località ancora si costumava
indossare il piviale o – se interveniva il vescovo – questi indossava in capo
la mitria. Altrove ancora si praticava a piedi nudi e differenti ancora erano i
brani liturgici eseguiti durante l’azione propriamente detta. Diversità si
riscontra anche nell’uso degli aspergilli:
chi ne usava di confezionati con rami di ginepro e chi, invece, si avvaleva dei
ramoscelli di ulivo benedetti la domenica precedente ecc. Quasi sempre la
lavanda propriamente detta avveniva con vino allungato con acqua ma esistono esempi
ove una prima lavanda avveniva semplicemente con acqua, il vino veniva poi
versato – effondendolo in forma di croce – ai punti laddove, durante il rito di
consacrazione dell’altare, la mensa era stata segnata con l’unzione da parte
del vescovo. Tale uso è attestato in area germanica, la chiesa di Aquileia –
che molti usi ebbe a mutuare da tali ambiti geografici – usava poi disporre sulla
mensa mondata dei ceri in forma di croce [13].
Qui ho ricordato l’uso aquileiense per motivi geografici e di affetto.
Ancora una volta l’anonimo autore di La cérémonie de l’ablution de l’autel papal
(cit. p. 19), ci dà contezza che tra il XV e il XVII secolo le testimonianze
del rito di abluzione degli altari sono frequentissime: dai diversi consuetudinarii, ai messali diocesani,
quelli monastici, i libri processionali ecc. Ma proprio a partire dal XVI
secolo si assiste a una disaffezione verso tale costume liturgico che porta,
inevitabilmente, alla desuetudine e all’abbandono. A questo processo di declino
non si vide risparmiata neanche la basilica vaticana laddove pare che il rito
sia stato ristabilito appena nel 1635 [14];
a titolo di curiosità ricordo che l’uso della basilica era attestato nel XIII
secolo il Venerdì santo, l’abluzione avveniva con una provvista di vino greco
fornito dal vescovo di Porto.
Quasi a voler frenare questo decadimento credo si
possa leggere la volontà del cardinale Orsini – il futuro Benedetto XIII –
quando, essendo vescovo di Benevento, volle vedere introdotto tale uso nella
sua cattedrale. A questo inesorabile declino sopravvisse l’uso della basilica
vaticana e l’uso di alcuni ordini religiosi fra i quali i carmelitani
dell’antica osservanza e dei domenicani[15].
Una
brevissima conclusione.
Qui mi sono limitato – e spero almeno di
essere parzialmente riuscito – a voler dare testimonianza di un uso liturgico romano:
certo gli aspetti che meriterebbero una approfondita analisi non sono certamente pochi. La messe
documentale da consultare, come ho già notato, sarebbe davvero molto copiosa. Raccoglierla e confrontarla in modo
sistematico e serrato – unitamente anche all’analoga consuetudine della Chiesa
greca, porterebbe a una auspicabile chiarezza. Certo questo non era negli scopi
di questo mio semplice scritto che mi auguro servirà almeno alla preservazione della
memoria ne pereat.
Tu autem in sancto habitas, laus Israel!
Francesco G. Tolloi
francesco.tolloi@gmail.com
[1] La
Cérémonie de l’ablution de l’autel papal à Saint Pierre au Vatican, Rome,
Desclée – Lefebvre, s.d. [1908], p. 26.
[2] «La Tribuna illustrata della Domenica»,
anno VI, n. 15, 10 aprile 1898.
[3] Per il testo cfr.: Breviarium romanum ad
usum Cleri Basilicae Vaticanae, Romae, Typis Vaticanis, pars verna,1925, pp.
260 e ss.. Su questo breviario v. J. NABUCO, Ius Pontificalium, Parisiis –
Tornaci – Romae, Desclée, 1956, pp. 232 e ss.. Il salterio romano era
utilizzato anche nella ducale basilica di S. Marco a Venezia.
[4] Cfr.: F. CANCELLIERI, Descrizioni delle Funzioni della Settimana
Santa nella Cappella Pontificia, Roma, Bourliè, 1818 4, p.101.
[5] Idem, p. 100.
[6] R. HOSPINIANUS, De Festis
christianorum, Genevae, De Tournes, 1674, p. 121.
[7] C. DE VERT, Cérémonies de l’Eglise,
Paris Delaulne, 1720, II, pp. 389 e ss..
[8] De
eccles. Officiis, Lib. I, cap. 29, De
Coena Domini, in P.L., t. LXXXIII, col. 764.
[9] Homilia
VIII, de Coena Domini, in P.L.,
t. LXXXVIII, col 623.
[10] De
institutione clericorum, cap. XXXVI, De
Coena Domini, in P.L., t. CVII, col. 347.
[11] Se ne trovano diverse menzioni, ad es.
E. MARTÈNE, De antiquis Ecclesiae Ritibus,
Anteperviae, Bry, 1737, IV, pp. 277 e ss. (Lib. IV, cap.
XXII).
[12] M.
ANDRIEU, Les ordines Romani du Haut Moyen
Age, Louvain, Spicilegium Sacrum Lovaniense, 1961, V, p. 189.
[13] G. VALE, Gli antichi usi liturgici della Chiesa d’Aquileia dalla Domenica delle
Palme alla Domenica di Pasqua, Padova, Tipografia del Seminario, 1907, p. 29.
[14] La
cérémonie de l’ablution..., cit., p. 24.
[15] Per una compiuta descrizione dell’uso
domenicano: Ecclesiasticum Officium juxta
ritum Sacri Ordinis Praedicatorum, Romae, Hospitio Reverendissimi Magistri
Ordinis, 1927, pp. 82 e ss. Vedi anche Caeremoniale
juxta Ritum S. Ordinis Praedicatorum (ed. V. Jandel), Mechliniae, Dessain,
1869, pp. 425 e ss.., A. KING, Liturgies
of Religious Orders, Bonn, Nova et Vetera, pp. 356 e s.. Sui carmelitani,
debitori sia degli usi domenicani che di quelli gerosolimitani del santo
Sepolcro, Idem, p. 266 e ss..