lunedì 21 marzo 2016

Giovedì santo. L’ abluzione dell’altare papale di S. Pietro


Una breve premessa.

Tra le innumerevoli cerimonie che si susseguivano serratamente durante la Settimana santa in Roma, merita particolare attenzione – non fosse altro per la curiosità che era in grado di suscitare – l’abluzione dell’altare papale che veniva compiuta la sera del Giovedì santo nella Basilica vaticana. L’anonimo autore di un piccolo volume , ai primi del Novecento, dedicato proprio a questo particolare costume liturgico,  ci riferisce che –  fin dalle testimonianze da lui consultate – il concorso di fedeli era tale da rendere persino difficoltoso il passaggio del clero che si dirigeva all’altare per il compimento di questa cerimonia:  talmente numerosa era la moltitudine che esso si vedeva costretto ad aprirsi materialmente il varco tra le ali di folla [1]. L’allora popolarissimo periodico «La Tribuna Ilustrata della Domenica», volle – nel 1898 – pubblicare una dettagliata incisione a colori di Romagnoli e Zaniboni, laddove si notano i fedeli assiepati fino alle immediatissime vicinanze del basamento delle colonne berniniane [2].  Altrettanto – sebbene con un’incisione, questa volta, in bianco e nero presa da un “disegno dal vero “ di D. Paolocci – si evince da «L’illustrazione popolare».

Descriverò qui brevemente il modo di ordinarsi di questa cerimonia.

L'abluzione dell'altare papale. (Romagnoli e Zaniboni)
- collezione personale di Francesco G. Tolloi -

L'abluzione dell'altare papale (Paolocci)
- collezione personale di Francesco G. Tolloi -
Svolgimento.

Una volta terminata l’ufficiatura delle Tenebrae, ossia il canto di mattutino e lodi del Venerdì santo anticipati la sera del giovedì, il clero della basilica vaticana si portava processionalmente all’altare papale. Aprivano la processione il crocifero – la cui immagine del Crocifisso era velata – accanto ad esso, ai suoi fianchi, incedevano due accoliti che sostenevano i candelieri con le candele in cera gialla grezza spente. Li seguivano i seminaristi, il clero beneficiato e i restanti canonici.  Il canonico officiante, sopra il rocchetto, portava stola e piviale di colore nero. Egli era assistito da sei canonici. Questi, che per l’ufficiatura avevano indossato la cappa, ora indossavano la cotta messa sopra il rocchetto e la stola nera. Il cardinale arciprete della Basilica, indossando la cappa di colore violaceo (caratteristica dei tempi di penitenza), seguiva la processione accompagnato dai suoi familiares

Gli accoliti e il crocifero andavano a collocarsi nella parte retrostante l’altare, mentre l’officiante con i sei canonici si mettevano in ginocchio sul più basso dei gradini dell’altare; il restante del clero si disponeva ad emiciclo presso l’altare. L’altare si presentava in questo momento privo delle tovaglie, in luogo opportuno erano state preparate sette brocche riempite di vino bianco allungato con acqua. L’officiante intonava l’antifona Diviserunt sibi, subito proseguita dai cappellani che cantavano – alternativamente con la Schola cantorum – il salmo XXI, secondo il testo del Salterio romano in uso al clero della basilica vaticana [3]

Ritengo che l’uso di cantarlo – attestato dal citato Autore di La cérémonie de l’ablution (cit., p. 31), sia una innovazione recenziore, infatti Francesco Cancellieri ci riporta che si proseguiva “senza canto”[4]. Non appena la summenzionata antifona era intonata, il canonico officiante si alzava e, una volta toltosi il piviale, saliva con i suoi assistenti all’altare. Ivi, il canonico altarista, in rocchetto e cotta, gli porgeva una delle brocche. Gli altri sei canonici in stola nera, ricevevano anch’essi una brocca. Contemporaneamente versavano una parte del contenuto sulla mensa, spargendolo con l’ausilio di un “aspergillo”. Il Cancellieri ci ragguaglia che questi aspergilli erano dei serti fatti con rami di tasso, di bosso o più comunemente di sanguinella opportunamente composti ed intrecciati [5]. Questi canonici scendevano dall’altare per lasciare il posto al cardinale arciprete che imitava immediatamente il medesimo gesto. Altrettanto facevano, dopo di lui, gli altri canonici, i beneficiari, il clero della basilica e, in fine, i seminaristi. 

Una volta che tutti avevano terminato di spargere il vino allungato con l’acqua sulla mensa, l’officiante con i suoi assistenti saliva nuovamente all’altare di cui asciugava la mensa servendosi di spugne e asciugatoi di stoffa. Terminata anche questa operazione, scendevano in plano per mettersi in ginocchio sul più basso dei gradini. Tutti si ponevano quindi in ginocchio. Avendo i cappellani detto il versetto Christus factus est obediens con la sua risposta, l’officiante principiava il Pater noster – proseguito in segreto – cui faceva seguito l’orazione Respice, quaesumus, Domine

Tutti si levavano e – fatta la debita reverenza – facevano ritorno alla sacrestia, per poi far riaccedere alla navata centrale poco dopo per assistere alla solenne ostensione delle reliquie della Lancia, della Croce e del santo Sudario.


Origine e qualche riferimento storico.

Decisamente diverse sono state le ipotesi avanzate per spiegare  le origini dell’uso liturgico di mondare l’altare: se perlomeno ardita è l’ipotesi per la quale vi sia da ricercare il fondamento nelle costumanze rituali del tempio israelitico (in particolare Esodo XXIX),  a fortiori lo è quella del protestante zwingliano Rodulpus Hospinianus che ne vorrebbe rintracciare l’origine addirittura in lacerti di usi pagati, trasformati ed adattati (nella fattispecie la lustratio del simulacro della dea Cibele) [6]. Fin troppo viziata di “positivismo” appare l’ipotesi del De Vert. L’Autore è conosciuto proprio per queste spiegazioni che ricercano una mera origine pratica, spesso forzatamente pragmatica. Proprio nel caso della ablutio, egli opina che l’uso si sia instaurato profittando del fatto che l’altare si trova spogliato degli ornamenti, in particolare delle tovaglie che abitualmente ne ricoprono la mensa. L’uso di spogliare l’altare dopo la celebrazione sarebbe rimasto nelle prescrizioni del Giovedì santo: essendo già spogliato un lavaggio ne sarebbe stato largamente facilitato e  agevolmente sarebbe venuto ad insinuarsi  nelle incombenze da farsi in quei giorni. È qui che il De Vert si lascia andare a una critica all’atteggiamento e la condotta dei sacristi che lasciano gli altari addobbati col mero pretesto della comodità [7]

Una interpretazione votata alla simbolicità e alla allegoria, vorrebbe che l’altare, immagine del corpo di Cristo, venga lavato, come pietosamente si fa con il corpo di un morto; il vino e l’acqua sembrerebbero, a questo punto, voler alludere e simboleggiare il sangue e l’acqua scaturiti dal costato del Signore, ferito dalla lancia che gli colpì il costato.

Se prima ho fatto cenno all’ampio concorso di popolo che interveniva nell’occasione di questa cerimonia della basilica vaticana, non posso non ricordare che su questo rito l’attenzione di scrittori ed eruditi ha avuto più volte modo di soffermarsi. Solamente tra l’ultimo scorcio del XVII secolo e gli esordi del XVIII, tre furono le opere consacrate a questo uso liturgico (le elenco in ordine cronologico):

  •  I.M. SUARESIUS, Ritus qui observatur in Basilica Vaticana quotannis in Die Coenae Domini, Romae, Herculis, 1686;
  • C. BATTELLO, Ritus annuae ablutionis altaris majoris Sacrosanctae Basilicae Vaticanae, Romae, Zenobii, 1702;
  • F. ORLENDUS, Duplex lavacrum in Coenae Domini fidelibus exhibitum, Florentiae, Nestenus – Borghigiani, 1710.


Tra i testi più vetusti ove si trova contezza di questo peculiare rito merita menzione il De ecclesiasticis officiis di sant’Isidoro (+ 636), per il quale: “Hinc est quod eodem die altaria, templique parietes, et pavimenta laventur, vasaque purificantur quae sunt Domino consecrata”[8]

Sant’Eligio di Noyon parrebbe mettere in stretta relazione l’abluzione dell’altare – nonché dell’edificio ecclesiastico e dei vasi sacri – alla lavanda dei piedi di cui costituirebbe una sorta di particolare prolungamento o, se vogliamo, di sviluppo ulteriore. Così si esprime a proposito sant’Eligio: “Propter humilitatis formam commendandam ea die pedes eorum lavit, et hinc est quod eodem die altaria, tempique parietes, et vasa purificantur” [9]

L’autore citato di La Cérémonie de l’ablution de l’autel papal (cit., p. 6)  poggiando il suo opinare sulla critica tardo Ottocentesca – in particolare facente capo al Vancard – avanza dubbi circa l’attribuzione di quel testo a sant’Eligio. Potrebbe trattarsi, più verosimilmente, di qualche autore riconducibile al X secolo, o solo a qualche decennio prima. Significativo appare però il fatto che – pur nella difficoltà di datare con precisione un’origine certa di tale rito e di trovare testimonianze precedenti sant’Isidoro – all’epoca del grande dottore ispanico, il rito si configurava già per essere tale, con tanto di tentativi di lettura in chiave  simbolica, e non una mera - parafrasando qui il De Vert - attenzione di pulizia esteriore in vista dell’imminenza della principale festa cristiana. Sicuramente la circostanza di trovare l’altare spoglio ha favorito il formarsi di tale usanza, ma mi pare possa escludersi che questa spiegazione, specie se da sola, riesca ad essere non solo esaustiva ma anche solo convincente.

Due secoli più tardi, Rabano Mauro (+ 856) attesta l’uso germanico di effettuare una lavanda dell’altare nella Feria V della Settimana santa [10]. Martène fornisce altri interessanti ragguagli circa la diffusione di questo rito [11]. Quanto alla menzione di tale uso liturgico  nell’ambito degli Ordines romani, è necessario soffermarsi al n. “L” (numerazione Andrieu). La redazione di tale Ordo rimonta al X secolo: “Eodem die altaria templi et parietes sive pavimenta ecclesia laventur et vasa Domino sacrata purificentur” [12]. Anche in questo caso devo registrare che l’ablutio non si limita alle mense degli altari ma si estende alle pareti, il pavimento e – infine – ai vasi sacri. È proprio a decorrere da quest’epoca che le testimonianze si presentano meno rarefatte e, se vogliamo, sono all’insegna di una certa sistematicità e ricorrenza. Se ne trova traccia sia nei consuetudinarii diocesani che in quelli di ambito monastico, le tracce non sono tuttavia univoche. Anzi, proprio di pari passo alla diffusione, si va incontro a una diversificazione degli usi. In tal senso il rito dell’abluzione, in alcuni ambiti, lo si trova spostato il giorno dopo, nel venerdì in Parasceve, situato subito dopo il vespero o, anche, durante la refezione. Ma la variante temporale non è certo la sola: appare diversificato il tipo di paramenti e anche il colore che vengono adoperati per compiere tale ufficio. In alcuni luoghi esso si compiva  in camice e stola, altrove si aggiungeva il manipolo, in altre località ancora si costumava indossare il piviale o – se interveniva il vescovo – questi indossava in capo la mitria. Altrove ancora si praticava a piedi nudi e differenti ancora erano i brani liturgici eseguiti durante l’azione propriamente detta. Diversità si riscontra anche nell’uso degli aspergilli: chi ne usava di confezionati con rami di ginepro e chi, invece, si avvaleva dei ramoscelli di ulivo benedetti la domenica precedente ecc. Quasi sempre la lavanda propriamente detta avveniva con vino allungato con acqua ma esistono esempi ove una prima lavanda avveniva semplicemente con acqua, il vino veniva poi versato – effondendolo in forma di croce – ai punti laddove, durante il rito di consacrazione dell’altare, la mensa era stata segnata con l’unzione da parte del vescovo. Tale uso è attestato in area germanica, la chiesa di Aquileia – che molti usi ebbe a mutuare da tali ambiti geografici – usava poi disporre sulla mensa mondata dei ceri in forma di croce [13]. Qui ho ricordato l’uso aquileiense per motivi geografici e di affetto.

Ancora una volta l’anonimo autore di La cérémonie de l’ablution de l’autel papal (cit. p. 19), ci dà contezza che tra il XV e il XVII secolo le testimonianze del rito di abluzione degli altari sono frequentissime: dai diversi consuetudinarii, ai messali diocesani, quelli monastici, i libri processionali ecc. Ma proprio a partire dal XVI secolo si assiste a una disaffezione verso tale costume liturgico che porta, inevitabilmente, alla desuetudine e all’abbandono. A questo processo di declino non si vide risparmiata neanche la basilica vaticana laddove pare che il rito sia stato ristabilito appena nel 1635 [14]; a titolo di curiosità ricordo che l’uso della basilica era attestato nel XIII secolo il Venerdì santo, l’abluzione avveniva con una provvista di vino greco fornito dal vescovo di Porto. 

Quasi a voler frenare questo decadimento credo si possa leggere la volontà del cardinale Orsini – il futuro Benedetto XIII – quando, essendo vescovo di Benevento, volle vedere introdotto tale uso nella sua cattedrale. A questo inesorabile declino sopravvisse l’uso della basilica vaticana e l’uso di alcuni ordini religiosi fra i quali i carmelitani dell’antica osservanza e dei domenicani[15].

Una brevissima  conclusione.

Qui mi sono limitato – e spero almeno di essere parzialmente riuscito – a voler dare testimonianza di un uso liturgico romano: certo gli aspetti che meriterebbero una approfondita  analisi non sono certamente pochi. La messe documentale da consultare, come ho già notato, sarebbe davvero molto copiosa.  Raccoglierla e confrontarla in modo sistematico e serrato – unitamente anche all’analoga consuetudine della Chiesa greca, porterebbe a una auspicabile chiarezza. Certo questo non era negli scopi di questo mio semplice scritto che mi auguro servirà almeno alla preservazione della memoria ne pereat.

Tu autem in sancto habitas, laus Israel!

Francesco G. Tolloi
francesco.tolloi@gmail.com



[1] La Cérémonie de l’ablution de l’autel papal à Saint Pierre au Vatican, Rome, Desclée – Lefebvre, s.d. [1908], p. 26.
[2] «La Tribuna illustrata della Domenica», anno VI, n. 15,  10 aprile 1898.
[3] Per il testo cfr.: Breviarium romanum ad usum Cleri Basilicae Vaticanae, Romae, Typis Vaticanis, pars verna,1925, pp. 260 e ss.. Su questo breviario v. J. NABUCO, Ius Pontificalium, Parisiis – Tornaci – Romae, Desclée, 1956, pp. 232 e ss.. Il salterio romano era utilizzato anche nella ducale basilica di S. Marco a Venezia.
[4] Cfr.: F. CANCELLIERI, Descrizioni delle Funzioni della Settimana Santa nella Cappella Pontificia, Roma, Bourliè, 1818 4, p.101.
[5] Idem, p. 100.
[6] R. HOSPINIANUS, De Festis christianorum, Genevae, De Tournes, 1674, p. 121.
[7] C. DE VERT, Cérémonies de l’Eglise, Paris Delaulne, 1720, II, pp. 389 e ss..
[8] De eccles. Officiis, Lib. I, cap. 29, De Coena Domini, in P.L., t. LXXXIII, col. 764.
[9] Homilia VIII, de Coena Domini, in P.L., t. LXXXVIII, col 623.
[10] De institutione clericorum, cap. XXXVI, De Coena Domini, in P.L., t. CVII, col. 347.
[11] Se ne trovano diverse menzioni, ad es. E. MARTÈNE, De antiquis Ecclesiae Ritibus, Anteperviae, Bry, 1737, IV, pp. 277 e ss. (Lib. IV, cap. XXII).
[12] M. ANDRIEU, Les ordines Romani du Haut Moyen Age, Louvain, Spicilegium Sacrum Lovaniense, 1961, V, p. 189.
[13] G. VALE, Gli antichi usi liturgici della Chiesa d’Aquileia dalla Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua, Padova, Tipografia del Seminario, 1907, p. 29.
[14] La cérémonie de l’ablution..., cit., p. 24.
[15] Per una compiuta descrizione dell’uso domenicano: Ecclesiasticum Officium juxta ritum Sacri Ordinis Praedicatorum, Romae, Hospitio Reverendissimi Magistri Ordinis, 1927, pp. 82 e ss. Vedi anche Caeremoniale juxta Ritum S. Ordinis Praedicatorum (ed. V. Jandel), Mechliniae, Dessain, 1869, pp. 425 e ss.., A. KING, Liturgies of Religious Orders, Bonn, Nova et Vetera, pp. 356 e s.. Sui carmelitani, debitori sia degli usi domenicani che di quelli gerosolimitani del santo Sepolcro, Idem, p. 266 e ss..

venerdì 4 marzo 2016

Quarta Domenica di Quaresima: la benedizione della Rosa d’oro. Qualche appunto.

Era anticamente buona ed utile regola identificare e denominare le domeniche utilizzando le prime parole dell’Introito proprio del giorno. Tale uso è rimasto ancora, perlomeno abbastanza diffuso, per quanto concerne la terza domenica d’Avvento (Gaudete) e la quarta domenica di Quaresima (Laetare), circa la quale intendo qui soffermarmi. Il Missale romanum indica la stazione alla Basilica della Santa Croce, la “sessoriana”.
Roma: Basilica di S. Croce in Gerusalemme
(Sessoriana)

Stando all’opinione del beato Schuster, l’individuazione della Statio in tale basilica è da ricercarsi in un processo imitativo della costumanza orientale; nella Chiesa Greca vi è infatti una domenica della “Grande Quaresima” deputata in modo particolare a commemorare il vivificante legno della Croce; in Occidente – seppure con uno spostamento temporale, visto che il rito greco celebra tale mistero la terza domenica – si sarebbe scelta questa domenica con conseguente ubicazione della Stazione alla Sessoriana in considerazione dalla particolare importanza e preziosità delle reliquie della Passione ivi convenientemente serbate ma un altro motivo è sicuramente il riferimento chiaro dell’Introito, come vedremo, alla santa Gerusalemme di cui la basilica romana è immagine. Sempre secondo il Beato, questa particolare solennità che la Chiesa di Roma riserva e tributa alla quarta domenica di Quaresima, potrebbe ricondursi  all’antico caput jejunii – di matrice appunto schiettamente romana – di tre settimane prima della Pasqua [1].

In ogni caso, stante la configurazione della Quaresima, anche un approccio superficiale e distratto potrebbe consentire di evincere con immediatezza le caratteristiche di letizia e di gioia, non fosse altro per l’uso – sebbene facoltativo - del colore rosaceo [2] in luogo del viola e per il festoso incipit dell’Introito le cui parole – mutuate dal profeta Isaia (66, 10-11) spronano a sentimenti di tripudio: Gerusalemme, e per trasposizione la Chiesa, deve rallegrarsi, deve saziarsi alle fonti della sua consolazione. All’invito di Isaia fa degna eco il versetto del Salmo 121 (1): Laetatus sum in his quae dicta sunt mihi, in domum Domini ibimus.

Se volessimo per un istante considerarare gli antichi rigori quadragesimali ancora di più riusciremo a penetrare appieno nei sentimenti più autentici di questa domenica che permette un ristoro al penitente, in un periodo ormai prossimo alla contemplazione dei misteri principali della nostra redenzione e della nostra fede. Letizia dunque, ma anche sprone a compiere gli ultimi sforzi, è proprio in questo contesto -  sapientemente definito dai segni liturgici - mi pare di poter inquadrare il singolare rito della benedizione della Rosa d’oro, compiuta dai Pontefici, che sembrerebbe voler alludere a un premio che nel contempo è un pegno a perseverare nelle virtù in considerazione delle quali si è fatti oggetto di tale altissimo riconoscimento.
Rosa d'oro offerta da papa Pio VII all'Imperatrice
d'Austria Carolina Augusta
(Vienna, Kunsthistorisches Museum)


La costumanza di benedire la Rosa d’oro affonda le sue radici nell’alto Medioevo; se ne ha testimonianza durante il pontificato di papa Leone IX (+ 1054). Il Moroni [3] ci precisa che – in realtà – all’epoca del menzionato pontefice essa fosse già stata in vigore, nell’affermarlo egli poggia la sua opinione sul Catalano [4].

Mi è parso utile ed interessante riportare la descrizione che ne fa l’informatissimo Francesco Cancellieri nel XVIII secolo: proprio di questo Autore il citato Moroni si dichiara più volte discepolo.

Prima di lasciare lo spazio a questo illustre Testimone, desidero spendere qualche parola – anche se poi il Cancellieri fornirà la sua descrizione -  circa questo manufatto: la Rosa d’oro,  se inizialmente era concepita solo e semplicemente come un fiore, ha assunto nei secoli una certa quale ampiezza di forme. Nella sua foggia originaria essa era un fiore fabbricato col metallo prezioso, alle volte essa veniva colorata di rosso proprio per imitare il fiore. Più tardi la colorazione di rosso fu accantonata, preferendo incastonare un rubino. La forma più conosciuta parrebbe rimontare all’epoca successiva a Sisto IV (+1484) [5]:  essa si compone di una fronda fiorita, con ramo spinoso e più boccioli, tutti realizzati in oro. Il fiore principale ha una piccola coppa con relativo coperchio o una semplice lamina forata: in essa – durante la benedizione – il Sommo Pontefice andrà a introdurre il balsamo ed il muschio evocanti la fragranza del fiore preso a modello per il manufatto. La realizzazione della Rosa d’oro è sempre stata affidata alle sapienti mani di artisti di altissimo livello, tra i tanti esempi che potrei portare citare ricorderò quella realizzata dal Bernini per conto di papa Alessandro VI [6].

Quanto a questa mia trascrizione del Cancellieri, preciso che ho rispettato l’uso delle maiuscole, abbreviazioni, corsivi e punteggiatura dell’Autore. Per comodità ho ridotto le note a piè di pagina del testo originario, con riferimenti bibliografici, inserendole nel corpo del testo e identificandole con delle parentesi. Alla fine del testo mi soffermerò su alcuni aspetti che ritengo utili.

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Capo VII.
Quarta Domenica di Quaresima.
Cappella Papale e Benedizione della Rosa d’oro. [7]

Questa mattina canta Messa un Cardinal Prete. L’Altare è ornato con otto Statue d’argento, se la Cappella si fa alla Sistina, e con tredici, se si fa alla Paolina al Quirinale. Tutto il S. Collegio viene in Sottana, Mozzetta, e Mantelletta di color Rosa secca, come nella terza Domenica dell’Avvento, colle Cappe violacee.
Il Papa ancora viene in Piviale di color rosaceo, consimile al colore del Trono, ed anche il Celebrante co’ sacri Ministri. Il Diacono porta la Dalmatica, e il Suddiacono la Tonicella, e non già le Pianete piegate. Poichè tutta la Messa di questo giorno eccita all’allegrezza, interponendosi dalla Chiesa questo giubilo spirituale, per ristorare i Fedeli dall’afflizione del digiuno.
Il Papa unge col Balsamo del Perù, e col muschio, e benedice la Rosa d’oro nella stanza de’Paramenti, prima di venire in Cappella. Il Vaso col suo coperchio, in cui si contiene il Balsamo, è di argento. L’altro che serve pel muschio, è di avorio con piede, e coperchio simile, guarnito d’argento dorato, con un dente, o lingua serpentina impietrita nella Coppa.
Un picciolo Cucchiarino d’oro con uno Zaffiro in breccia incastrato nel mezzo serve per pigliare il Muschio, ed un altro di argento dorato per prendere il balsamo.
Varj sono stati i disegni, che si sono usati in diversi tempi, de’ vasi, o de’ piedi per questa Rosa. Presentemente ha un piede triangolare col suo balaustro, sopra di cui sorge un ramo spinoso con varie Rose, ed una in cima più grande, in cui v’ha una picciola Crate, o sia Lamina forata, dove il Papa nella benedizione pone il balsamo, e il Muschio. Tanto il piede, nelle cui tre facciate v’è lo stemma del Papa, quanto il Ramo, e le Rose, sono tutte d’oro.
Dopo che la Rosa è stata benedetta vien portata in Cappella da un Chierico di Camera in Cotta, e Rocchetto, che la consegna a mons. Sagrista, il quale la colloca sopra l’Altare sotto la Croce, d’onde la rileva, per farla riportare dal medesimo Chierico di Camera, dopo la Messa, nella stanza de’ Paramenti, in una picciola Mensa fra due Candelieri. Poi si ripone, e si conserva per regalarsi a qualche Personaggio, come ha fatto il Regnante Pontefice all’Arciduchessa di Austria Maria Cristina, ed alla di lei Sorella Arciduchessa Amalia.
L’Introito si canta in contrapunto. Sermoneggia il P. Procurator Generale de’ Carmelitani. Il mottetto Cantemus Domino dopo l’Offertorio, è di Matteo Simonelli, con seconda parte. Il Deo gratias si canta.
Questa Domenica viene frequentemente chiamata Domenica Laetare, dall’Introito preso dalle parole d’Isaia (LXVI. 10). Dicesi ancora Dominica panum dall’Evangelio, in cui si narra la prodigiosa moltiplicazione de’ pani nel Deserto. Ma più communemente si appella Dominica Rosae, Rosarum, o de Rosa, dalla Rosa d’oro, che per antichissimo uso il Papa suol benedire in questo giorno.
Il P. Calmet (In Probatione Historica Lotharingiae Tom. I, col. 427) è stato il primo a scuoprire la vera origine del Rito, che ha dato questo nome alla presente Domenica. S. Leone IX ereditò fra’ suoi beni patrimoniali il Monastero di S. Croce in Alsazia, e vendicollo in libertà, assoggettandolo immediatamente alla S. Sede. E per eternare la memoria di questa esenzione, gl’impose il tributo annuo di una Rosa d’oro di due oncie, da portarsi in mano da lui, e da’ suoi successori nella quarta Domenica di Quaresima, celebrando nella Basilica di S. Croce di Gerusalemme. E così sotto il nome di Tributo, o Censo pagato da un Monastero posto in libertà, venivasi a simboleggiare la misteriosa allegrezza del Popolo d’Israello, liberato dalla schiavitù Babilonica, a cui si allude nel lieto uffizio di questo giorno.
Nel breve corso di un mezzo Secolo, queto semplice Tributo di un Monastero esente divenne regalo degno de’ Principi. Poichè si legge presso Dachery (T.X. Spicilegii p. 396), e Luca Olstenio (Colleg. Rom. P. 11. P. 222), che questo Fiore fu regalato nel 1096 da Urbano II, dopo la celebrazione del Concilio di Tours, a Fulcone Conte d’Angers, il quale grato di quest’onore fissò, che dovesse esser portato da sè, e da’ suoi successori nel giorno delle Palme.

Nel 1230 s’introdusse il costume di aggiungere a questa Rosa le qualità esterne del suo Fiore, tingendo l’oro di rosso, e spargendola di muschio; e di spiegarsi il mistero del colore, e dell’odore della Rosa naturale, dallo stesso Pontefice con un Sermone, per l’istruzione del Popolo, come ci attestano il Canonico Benedetto (In Ord. XI. num. 36), il Diploma di Alessandro III, che la regalò a Ludovico VII Re di Francia (T.X. Concil. p. 1360. E in T. IV. Hist. Francor. a pg. 768) e il Durando (Rational. lib. cap. 53 num. 10). Ma sopra tutto ce ne convince il Sermone d’Innocenzo III su questo argomento.
Sappiamo poi da Cencio Camerario (Ord. XII. num. 17), che nello stesso Secolo XII s’ incominciò ad aggiungere al muschio anche il balsamo. Sembra, che si cessasse di colorir l’oro, quando s’introdusse l’uso di collocare un Rubino in mezzo alla Rosa, per renderla più preziosa, senza alterarne le qualità, come poi si è sempre praticato, anche quando si è ridotta la semplice Rosa ad un Ramo di Rose vago, e fiorito, come or lo vediamo. Questa variazione dev’esser seguita prima di Sisto IV, che un anno in vece della Rosa, benedisse una Quercia d’oro, rappresentante il suo Stemma, che mandò in dono alla Cattedrale di Savona sua Patria. Pio II sermoneggiò sopra la Rosa, secondo l’antico costume, che però, come apparisce da Pietro Amelio (Ord. XV. num. 48), era già divenuto arbitrario, e poi andò affatto in disuso.
Ma benchè si variassero le circostanze, che accompagnavano le qualità della Rosa, si conservò l’uso di mandarla in dono a qualche Principe, ovvero di regalarla a qualche nobile Personaggio, che si trovasse in quel dì presente alla Sacra Funzione. Questi per lo più era il Prefetto di Roma (Felix Contelorius de Praefecto Urbis. Romae 1631. 4. Gaet. Cenn del Prefetto di Roma a tempo de’Re, e della Repubblica, a tempo degli Augusti, e Re d’Italia, e sotto i Rom. Pontefici. nel T. I. delle sue Dissert. Postume p. 269), vestito di scarlatto, o di porpora, colle calze di color oro, che accompagnava a piedi il Papa, che cavalcando portava la Rosa in mano fino al Palazzo Lateranense, dove smontava, e ivi baciandogli i piedi, ricevea il dono della Rosa.
Convien però avvertire, che non tutti ebbero questa Rosa benedetta, come molti han creduto, quasi che sia tanto antica la Rosa d’oro, quanto la sua benedizione. Questa certamente non può attribuirsi nè a Urbano V, nè ad Innocenzo IV, a cui sia assegna dall’Autore della sua vita, a cui si assegna dall’Autore della sua vita, seguito dal Martene (De Rit. Ant. Diss. XIX num. XVII); ma è posteriore a Niccolò V, giacchè niuna menzione di questa benedizione si fa negli Ordini da noi citati, e la prima volta che si nomina, è nel Cerimoniale di Cristofaro Marcello. Paolo III tolse l’uso, introdotto da Paride de Grassi sotto Giulio II, Leone X, e Clemente VII, di ungerla col Crisma; e il Rito prescritto dal suddetto Cerimoniale di ungerla col balsamo, di sovrapporvi il muschio, di benedirla, ed’ incensarla, è perseverato fino a’ nostri tempi. […]
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Qualche mio appunto...

Relativamente al luogo, si legge la benedizione avveniva – all’epoca dell’Autore -  nella “stanza de’ Paramenti” (la c.d. Sala del Pappagallo); l’uso rimonta al periodo successivo la “cattività avignonese”, i Sommi Pontefici ritornando nell’Urbe e trovando le storiche chiese in mal partito introdussero l’uso delle celebrazioni nelle loro cappelle. La benedizione della Rosa d’oro avveniva anticamente alla basilica Sessoriana (statio del giorno). Qualora fosse presente in Roma l’Imperatore per ricevere l’incoronazione, la cerimonia avveniva nella basilica di S. Maria in Cosmedin [8].

Al principio del testo, riferendosi all’abito che gli eminentissimi signori Cardinali portano alla cappella di questo giorno, il Cancellieri riferisce l’utilizzo – per l’abito talare, la mantelletta e la mozzetta – del colore rosaceo, più precisamente del color rosa secca
veste talare rosa secca
Veste talare cardinalizia color  rosa secca
Esso è una variante dell’abito di penitenza di cui si serba il colore violaceo nella cappa. Sino al 1969 [9], i cardinali disponevano, tra gli altri, di un abito da portarsi (qui procedo con una semplificazione) nei tempi di penitenza e nelle circostanze luttuose. Detto abito è violaceo, o più precisamente paonazzo con fodere, orlature, bottoni e asole di color rubino o cremisi [10]. Sarà non di meno utile notare che – durante il pontificato di Papa Pio XI – il colore paonazzo viene definito con precisione ed è lo stesso anche per i Vescovi e i Prelati, ciò pose fine all’utilizzo delle tante varietà che erano proliferate e sussistevano [11]Ripromettendomi di ritornare prima o poi sull’argomento, voglio precisare che la tonalità del paonazzo varia in base alla proporzione con cui vengono composti i due colori di base ossia il blu e il rosso. Dal XVI secolo sino al principio del XIX, notiamo che la nuance vira palesemente al bluastro, un tanto deriva dall’interazione di due coloranti ossia l’indaco naturale e la cocciniglia domestica; solo nel corso del XIX secolo, in cui si fa utilizzo di coloranti di natura sintetica, apre la strada verso un processo che porterà all’uniformizzazione del colore [12]. Quanto ai vestimenti di rosa secca usati dagli eminentissimi cardinali in questa domenica – e nella domenica Gaudete – va precisato che erano in seta marezzata [13]. Il loro uso iniziò a decadere verso la fine del pontificato del beato Pio IX, non essendoci stata un’abolizione, si ha contezza dell’utilizzo  da parte di qualche Cardinale – limitatamente alla propria chiesa titolare e, come è ovvio alle due domeniche ricordate – sino all’epoca di Pio XI [14]. La citata Istruzione della Sacra Congregazione Ceremoniale (v. nt. 10) non fa menzione di questi abiti rosacei stante la desuetudine degli stessi.

Circa il rito di benedizione [15], l’Autore ci riporta l’uso, poi caduto, di ungere il manufatto col Crisma. Il Moroni sottolinea l’influsso su Giulio II, Leone X e Clemente IX del cerimoniere Cristoforo Marcello; la rimozione di tale uso – operata da papa Paolo III – muove dalla considerazione che l’Unzione col Crisma compete alle consacrazioni e non alle benedizioni [16].
(vedi il testo della benedizione alla nt. 15)
Il beato Paolo VI infonde il balsamo nella Rosa d'oro destinato
al Santuario brasiliano dell'Aparecida (1967)


Relativamente agli usi della Cappella papale sul sito del Collegium Divi Marci: ho già avuto modo di parlarne; ad esso rimando per approfondimenti e per riferimenti bibliografici.

Quanto ai conferimenti della Rosa d’oro, rispetto quanto già lumeggiato dal Cancellieri, ricordo che essa - inizialmente conferita al Prefetto di Roma o “l’uso di mandarla in dono a qualche Principe, ovvero di regalarla a qualche nobile Personaggio, che si trovasse in quel dì presente alla Sacra Funzione”, come di ricorda l’Autore - fu anche concessa a città, nazioni, chiese e santuari insigni. Il sempre ben informato monsignor François Xavier Barbier de Montault fa memoria del conferimento della Rosa d’oro da parte di Benedetto XIV (Prospero Lambertini) alla sede metropolitana di Bologna della quale fu Arcivescovo; Clemente XIV la conferì alla nazione lusitana verso la quale nutriva particolare benevolenza tanto da far meritare al Sovrano l’appellativo di “Sua Maestà Fedelissima” [17]. A titolo di curiosità ricordo che l’ultimo personaggio di alto lignaggio di sesso maschile che ebbe a ricevere questo “regalo degno de’ Principi” fu il cento sedicesimo doge della Serenissima Repubblica Francesco Loredan, insignito del prestigiosissimo riconoscimento nel 1759 da papa Clemente XIII. Il conferimento divenne più raro tra i secoli XIX e XX, purtuttavia in seno ai camerieri segreti partecipanti laici uno era particolarmente deputato come “Portatore della Rosa d’oro”(la carica figurava, peraltro, nell'Annuario Pontificio sino gli anni Sessanta del Novecento).
Il conte G. Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto
e il principe don Luigi Massimo Lancellotti: gli ultimi portatori
della Rosa d'oro
È tra i conferimenti novecenteschi che mi sento di fare particolare memoria di quello riservato alla serva di Dio Elena Petrović-Njegoš del Montenegro, Regina d’Italia (+ 1952), insignita – in ragione della sua vita votata alla carità – da papa Pio XI nel 1937.
Serva di Dio Elena del Montenegro
Regina d'Italia
Chiedo al benigno lettore che ha avuto la pazienza di leggermi fino a qua, di recitare un’ Ave Maria con l’intenzione di poter presto venerare fra i beati questa splendida figura di donna cristiana.

Laetare Jerusalem!

Francesco G. Tolloi
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Note:

[1] A. I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum. Notizie storiche e liturgiche sul Messale Romano, Torino – Roma, Marietti, 1933, vol. III, pp. 116 e ss..
[2] Sarà profittevole ricordare che il rosaceo è raccomandabile serbi una tonalità virante al violetto chiaro piuttosto che un “rosa puro”. Cfr.: G. BRAUN, I Paramenti Sacri. Loro uso storia e simbolismo, trad. Italiana G. Alliod, Torino, Marietti, 1914, p. 40. Il rosa – stando a mons. Gromier – esisteva a Roma già nel 1582, cfr.: L. GROMIER, Commentaire du Caeremoniale episcoporum, Paris, La Colombe, 1958, p. 348.
[3] G. MORONI, Dizionario di erudizione storico – ecclesiastica, Venezia, Emiliana, vol. LIX, p. 115.
[4] J. CATALANO, Sacrarum Caeremoniarum sive Rituum Ecclesiasticorum Sanctae Romanae Ecclesiae, Romae, De Rubeis, 1750, tomus I, tit. 7, cap. 3 (pp. 265 e ss.).
[5] G. MORONI, Dizionario di erudizione storico – ecclesiastica..., cit., p. 112.
[6] Per un sintetico approfondimento: B. BERTHOD – P. BLANCHARD, Trésors inconnus du Vatican. Cérémonial et Liturgie., Paris, L’amateur, 2011, pp. 299 e s..
[7] F. CANCELLIERI, Descrizione delle Cappelle Pontificie e Cardinalizie di tutto l’anno. Roma, Salvioni, 1790, pp. 247 e ss..
[8] N. DEL RE, Rosa d’oro, voce in Enciclopedia Cattolica, Roma, Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il Libro Cattolico, 1953, X, coll. 1344 e ss..
[9] Cfr.: SECRETARIA STATUS SEU PAPALIS, Instructio (Ut sive solliciti) 31 marzo 1969, in Acta Apostolicae Sedis, LXI, Romae, Polyglottis Vaticanis, 1969, pp. 334 e ss.. Tale  istruzione – a firma del cardinale Amleto Cicognani – riforma totalmente, in direzione di una massiccia semplificazione (che di fatto corrisponde ad uno smantellamento), la materia degli abiti dei Cardinali, Vescovi e Prelati.
[10] SACRA CONGREGAZIONE CEREMONIALE, Norme Ceremoniali per gli Eminentissimi Signori Cardinali, Roma, Poliglotta Vaticana, 1943, pp. 3 e ss..
[11] SACRA CONGREGATIO CAEREMONIALIS, Decretum (Sacrae huic Congregationi), 24 giugno 1933, Romae, Polyglottis Vaticanis, 1933. Questo decreto – che qui cito nella edizione in mio possesso stampata singolarmente – riporta gli esempi della tonalità del paonazzo sia per il tessuto di seta che quello di lana.
[12] Cfr.: B. BERTHOD – P. BLANCHARD, Trésors inconnus du Vatican…, cit., p. 338.
[13] F. X. BARBIER DE MONTAULT, Le costume et les usages ecclésiastiques selon la tradition romaine, Paris, Letouzey et Ané, s.d. [1900], I, p. 275.
[14] Cfr.: B. BERTHOD – P. BLANCHARD, Trésors inconnus du Vatican…, cit., p. 299.
[15] Riporto integralmente la formula di benedizione. (V.) Adjutórium nóstrum in nómine Dómini. (R.) Qui fecit cælum et terram.(V.) Dóminus vobíscum. (R.) Et cum spíritu tuo. Orémus. Deus qui es lætítia et gáudium omnium fidélium, majestátem tuam supplíciter exorámus ut hanc Rosam odore visuque gratíssimam, quam hodiérna die in signum spiritúalis lætítiæ in mánibus gestámus, bene + dícere et sancti + ficáre tua pietáte dignéris, ut plebs tibi dicáta ex jugo Babilónicæ captivitátis edúcta, per Unigéniti Filii tui grátiam cæléstis Jerúsalem gáudium sincéris córdibus repræséntet. Et quia ad honórem nóminis tui Ecclésia tua hoc signo hodie exúltat et gáudet, tu ei, Dómine, verum et perféctum gáudium et grátiam tuam largiáris, ut per fructum boni óperis in odórem illíus floris tránseat qui de radíce Jesse prodúctus, flos campi, lílium convállium mystice prædicátur. Qui tecum vivit et regnat in unitate Spíritus Sancti Deus per omnia saécula saeculórum. (R.) Amen. Postea imponit incensum in thuribulo. Deinde Rosam ungit balsamo imponitque ei muscum: aspergit aqua benedicta et adolet incenso.
[16] G. MORONI, Dizionario di erudizione storico – ecclesiastica..., cit., p. 117.
[17] F. X. BARBIER DE MONTAULT, Les stations et dimanches de Carême a Rome, Rome, Spithoever, 1865, pp. 91 e ss..