Prælegendum
La comune passione per la liturgia, la musica sacra - specie declinate nella dimensione della lex orandi locale - e da ultimo, ma non certo per importanza, una profonda amicizia con Gianluca Gortan Cappellari , hanno determinato i contorni di un progetto volto allo studio e diffusione del patrimonio cultuale facente parte dell'uso liturgico aquileiense tramontato alle soglie del XVII secolo. Questi intenti hanno potuto conoscere una concretezza, in un contesto di ottima sinergia, mercè l'entusiastico accoglimento dell'idea da parte dell'amico e collega giornalista Ivan Bianchi, direttore responsabile di "Nuova Iniziativa Isontina". Il numero 88 (maggio 2023) della Rivista ha ospitato un nostro contributo inteso a ricostruire ed approfondire la celebrazione dei Vesperi pasquali ad Aquileia e nel suo territorio e qui, grazie al consenso della direzione della testata, posso riprendere sul mio blog. L' intenzione è di proseguire in questo filone con l'augurio che questo contributo sia il primo di una lunga serie. Un ringraziamento speciale è dovuto al "Centro per la Conservazione e la Valorizzazione delle Tradizioni Popolari di Borgo San Rocco-ODV", editore del Periodico "Borc San Roc", ultima rivista di studi storici del goriziano, in particolare al suo direttore, l'amico e confratello d'abito teutonico, Vanni Feresin, per il prezioso e fattivo contributo sine qua non.
Trattandosi di un articolo dallo sviluppo articolato, dotato di un ampio corredo di note a piè di pagina, trascrizioni musicali ecc. offro, più sotto ed alla fine del contributo, la possibilità di effettuare un download di una versione integrale in formato *pdf comodamente stampabile, il lettore potrà anche salvare e stampare l'inserto della rivista con l'intera ricostruzione liturgico-musicale del rito trattato.
Francesco G. Tolloi
francesco.tolloi@gmail.com
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con la ricostruzione liturgico-musicale
Pasqua e Battesimo
Nella vigenza dell’arcana
disciplina del catecumenato, la notte del Sabato Santo si chiudeva il percorso
formativo di coloro i quali aspiravano ad entrare nella comunità cristiana
mediante la solenne ricezione del Battesimo. Immersi nel Sacro Fonte i neofiti
indossavano una candida veste (alba) che avrebbero mantenuto per otto
giorni (settimana in albis). Anche volendo limitare la chiave di lettura
del Battesimo alla sola dimensione immanente e agli aspetti meramente
antropologici, si evince facilmente la rappresentazione di una morte ed una
conseguente rinascita: per usare categorie paoline si può ben dire che, per
mezzo di quel lavacro, muore l’uomo vecchio e risorge l’uomo nuovo, il
cristiano. Appare perciò pienamente comprensibile che, fin dagli albori della
sua storia, la Chiesa abbia caricato di contenuti battesimali la Pasqua
(passaggio) come si osserva chiaramente in tutte le tradizioni liturgiche
d’oriente ed occidente. Un tanto si
rende particolarmente evidente ancora oggi nei riti della veglia pasquale in
cui una parte consistente ha come fulcro il fonte battesimale. È però
interessante notare come nella lex orandi locale, legata all’uso
liturgico aquileiense, i secondi Vesperi della domenica di Pasqua [1],
ed anche quelli dell’Ottava, assumevano particolari connotati, con specifiche allusioni
al Battesimo che appaiono significative e degne d’attenzione.
L’uso
liturgico aquileiense
Abbiamo qui preferito la
locuzione “uso liturgico aquileiense” anziché ricorrere al termine “rito”, ciò
soprattutto perché tali costumanze cultuali della Provincia ecclesiastica di
Aquileia, perdurate sino alle porte del XVII secolo, erano, specie in
prossimità dell’epoca dell’abbandono, come ritiene tra gli altri anche il
liturgista Archdale King, ridotte a una variante del rito romano d’utilizzo
quasi generale [2].
Nel macrocontesto dato della riforma romano carolingia, essendo patriarca San
Paolino, Aquileia si orientò verso il rito romano. In particolare, all’epoca
dell’autore della Historia langobardorum, si trattò di esercitare l’opzione tra il rito romano e quello
ambrosiano: la complessa faccenda si risolse, affidandola al “giudizio divino”,
con l’adozione del primo. Conseguenza di questa antica decisione è l’esiguità
delle fonti per quello che fu il rito aquileiense propriamente detto, tanto che
oggi sarebbe estremamente complesso, se non impossibile, ricostruire il rito in
uso anteriormente ai fatti qui succintamente richiamati. Tuttavia si possono
riscontrare nei secoli successivi degli usi locali peculiari, documentati dalle
fonti manoscritte ed a stampa, che si estrinsecano durante il cursus
dell’anno liturgico e che appaiono sicuramente meritevoli di indagine, approfondimento
e confronto. Essi furono destinati a perdurare sino al Sinodo provinciale di
Udine del 1596, tenutosi sotto la presidenza del patriarca Francesco Barbaro,
che ne stabilì l’abbandono.
Frontespizio dell'ultima edizione a stampa del Messale aquileiense (Venezia, 1519) |
Fonti
sul Vespero Pasquale ad Aquileia
Entrando nel merito
dell’argomento specifico di questo scritto, va constatata l’assenza di fonti
risalenti agli albori della Chiesa di Aquileia che permettano di caratterizzare
un eventuale rito pasquale vespertino proprio delle origini: indicazioni in
merito non si riscontrano nemmeno nei pur altrimenti preziosissimi “Sermoni
liturgici” di San Cromazio [3].
Per gli ultimi secoli dell’uso aquileiense, sono invece diverse ed articolate
le fonti che ci testimoniano la celebrazione e la rilevanza di questo rito in
ambito “patriarchino”. Prima di discuterne le possibili origini ed indicare
delle analogie in altri usi liturgici locali, sarà opportuno descriverne le
caratteristiche e lo svolgimento come potrebbe essere stato celebrato sino al
Sinodo di Udine, confrontandolo specialmente alla forma più strettamente romana
che ci viene attestata dal Breviarium Romanum promulgato nel 1568 da
papa San Pio V (editio princeps) [4].
Va notato altresì che, nell’area di nostro interesse, non si riscontra una
totale uniformità degli usi e ciò sia sotto il profilo cronologico sia relativamente
alla distribuzione geografica. Nel tentativo di operare una ricostruzione del
rito che sia la più attendibile possibile, è innanzitutto necessario escludere,
almeno ad una prima analisi, tutti i libri liturgici pur in dotazione alla
Chiesa locale ma non di chiara origine aquileiense, tra i quali numerosi codici
di area italiana e soprattutto germanica, giunti in larga parte in queste terre
al seguito dei numerosi Patriarchi d’oltralpe che si sono succeduti sulla
Cattedra di Ermacora [5].
Tali libri, pur certamente usati e tramandati nel patriarcato, non
costituiscono tuttavia testimonianza di un uso locale, avendo tutt’al più
contribuito allo sviluppo organico dello stesso. Per il rito in esame, tra le
fonti liturgiche manoscritte, ovvero breviari, antifonari e processionali di
certa origine aquileiese, è possibile osservare l’esistenza di quattro varianti
o tradizioni distinte: due più antiche relative a San Daniele del Friuli
(secoli XI-XII) e Cividale (secoli XII-XIII) e due in larga parte successive,
una riguardante il rito per come si svolgeva nella Basilica patriarcale di
Aquileia (secoli XIII-XIV), l’altro per l’uso della Collegiata di Cividale
(secoli XIV-XV) [6]. Le principali differenze saranno
brevemente citate più avanti e sono più dettagliatamente riscontrabili nella
tabella proposta. Al momento basti generalmente osservare come lo sviluppo
cronologico di tali variazioni appaia compatibile con un’evoluzione almeno in
parte locale del rito: le fonti più antiche, infatti, pur con alcune
differenze, presentano maggiori analogie con i primi testimoni latini mentre le
più recenti se ne discostano maggiormente anche con l’introduzione di ulteriori
elementi riscontrabili solo su base locale. In questo contesto, il rito
presente nei libri liturgici redatti per l’utilizzo nella Basilica Patriarcale
di Aquileia, può essere considerata come la matura evoluzione della forma
locale dei Vesperi pasquali, già in parte attestata nel XII secolo [7],
e rappresenta la variante più diffusa nei testimoni noti, nonché quella
trasmessa alle edizioni a stampa [8].
Essa sembra, peraltro, aver costituito la base per l’introduzione di ulteriori
elementi, avvenuta successivamente a Cividale. Inoltre, sono sempre i libri di
Aquileia, redatti per le celebrazioni del Pontifex,
ovvero del Patriarca, che forniscono gran parte dei dettagli cerimoniali,
tramandando le più ricche indicazioni rubricali. Per questi motivi si
considererà tale variante come versione di riferimento sia nella descrizione sia
nella ricostruzione del rito.
La
celebrazione del Vespero di Pasqua
Il clero faceva accesso al coro processionalmente: precedeva un chierico con il turibolo, altri tre con la croce astile ed i candelieri, quindi un suddiacono parato con piviale bianco che portava l’evangeliario, seguiva il resto del clero e dunque l’officiante. Giunti al luogo deputato il celebrante incensava il testo del santo Vangelo che poi baciava [9]. L’ora canonica del Vespero pasquale, di cui possiamo individuare più momenti distinti ma collegati, veniva aperta dal canto delle nove invocazioni del Kýrie eléison (a similitudine della Messa) [10]. Nell’uso aquileiense, così come nel rito romano, il Vespero veniva aperto d’abitudine dall’ invocazione Deus in adjutórium meum inténde, mutuata dal Salmo 69, ma a Pasqua, nel nostro uso locale, si aprivano allo stesso modo anche la celebrazione delle altre ore canoniche, dall’Ora minore di Sesta della domenica pasquale a quella di Terza del sabato in albis [11]. Le invocazioni, dal punto di vista musicale, venivano modulate allo stesso modo riscontrabile nell’Ordinarium I, Lux et orígo, che l’edizione vaticana dei libri gregoriani riserva al tempo pasquale [12]. A questo punto veniva intonata un’antifona dell’VIII modo gregoriano, che ha come testo l’invocazione Allelúja ripetuta quattro volte. Si segnala l’esistenza di una variante con Allelúja triplicato, riportata, con relativa melodia in notazione adiastematica, nel codice San Daniele 4. La stessa antifona era ripetuta dopo il canto dei salmi 109 (Díxit Dóminus Dómino meo), 110 (Confitébor tibi Dómine in toto corde meo) e 111 (Beátus vir qui timet Dóminum), comunemente assegnati, anche nel Breviarium Romanum, ai Vesperi della domenica ed anche a Pasqua, domenica per antonomasia [13]. Nel rito romano stricto sensu ciascuno dei salmi era preceduto e seguito da un’antifona mutuata dalle Lodi del giorno. Mentre nei testimoni locali più antichi, quali il summenzionato codice sandanielese ed il Breviario di Cividale XCI, si registra l’uso di completare l’usuale salmodia del Vespero domenicale con il canto dei salmi 112 (Laudáte pueri Dóminum) e 113 (In éxitu Israël de Ægýpto), nelle altre fonti, più tardive e diffuse, si registra l’uso di eseguire l’Hæc dies (Sal. 117, 24), ossia lo stesso brano che la Messa del giorno assegna come graduale, di cui segue quasi del tutto la notazione delle edizioni vaticane [14]. Mentre ad Aquileia il versus è il medesimo utilizzato nella Messa (Confitémini Dómino, quoniam bonus; Ps. 106, 1), a Cividale risulta in uso una versione diversa: Confitémini Dómino, fílii Israël, quia non est álius Deus præter eum: ipse liberávit nos propter misericórdiam suam; aspícite quæ fecit nobíscum, ut enarrém ómnia mirabília ejus. Allelúja. (componimento basato su Tob. 13,3-7; Trascrizione 1) [15].
Senza soluzione di continuità veniva quindi cantato l’Allelúja con il versetto Pascha nostrum (I Corinzi, 5, 7) in tutto simile, per testo e melodia, a quelli del Messale e Graduale romano [16] e, parimenti, dei testimoni aquileiensi. Nella circostanza del Vespero si aggiungeva l’ulteriore versetto, sempre su testo paolino, Epulémur in ázymis sinceritátis et veritátis (I Corinzi, 5, 8). La rubricazione talvolta piuttosto meticolosa, in particolare dei codici in uso ad Aquileia ma anche del Breviarium del Capitolo di Trieste [17], fa trasparire uno spiccato gusto per la drammatizzazione, ottenuta mediante una serrata alternanza tra i cori che si dividono le singole parti dei brani [18]. Veniva dunque eseguita l’antiphona ad evangelium, locuzione che indica che il breve componimento prelude e segue il cantico evangelico di San Luca (Lc 1, 46-55) ossia il Magníficat. Il testo dell’antifona in uso ad Aquileia, almeno dal XII secolo, «notevole per il ritmo e per la rima» [19], così recita: Post passiónem Dómini, factus est convéntus, quia non est invéntum corpus in monuménto. Lapis sustínuit perpétuam vitam monuméntum rédidit cœléstem margarítam. Allelúja. Dal punto di vista musicale si tratta di un brano del I modo che non tradisce nulla di particolarmente originale, trattandosi come frequente nella prassi dell’epoca, del riutilizzo di una melodia antifonaria che potremmo definire di repertorio [20]. Va qui notato che nei già citati codici della Guarneriana e nell’antico Breviario cividalese, l’antiphona ad Magníficat è la stessa del rito romano (Et respiciéntes; Trascrizione 2),
mentre i testimoni, più tardi, di Cividale riportano l’antifona: Et [/Hæc] dicébant ad ínvicem quis revólvet nobis lápidem, ab hóstio monuménti, allelúja, allelúja (Trascrizione 3) [21].
Quest’ultima è un’antifona in VIII modo non comune nel repertorio romano, tuttavia attestata pur con varianti in numerosi codici d’oltralpe ed anche in area padana [22]. Durante il canto del Magníficat, sebbene le indicazioni rubricali dei codici tacciano in tal senso, possiamo ritenere che avvenisse l’incensazione dell’altare, del clero e del popolo secondo l’uso generalmente diffuso. Dopo il Magníficat e la ripetizione della relativa antifona, l’officiante cantava l’Orazione che corrisponde alla collecta, di matrice gregoriana, presente nel Missale Romanum (ed anche in quello aquileiense) nella Messa del giorno [23].
È proprio in questo momento che la celebrazione del Vespero pasquale assumeva dei toni altamente caratteristici: usualmente la celebrazione delle ore canoniche è caratterizzata dalla “staticità”, nel comune immaginario si ha il clero assiso nei suoi stalli che salmodia leggendo dai libri sorretti dal badalone e ci si limita a spostarsi dal choro – luogo eletto alla celebrazione dell’Ufficio Divino – per incensare l’altare ai cantici evangelici delle Lodi e del Vespero, qualora celebrati solennemente. In questa occasione, e per tutta l’Ottava pasquale, nella nostra tradizione locale si compivano delle processioni che raggiungevano quei luoghi che evocavano i misteri celebrati nei giorni precedenti, una sorta di itinerante ripasso, quasi un ideale pellegrinaggio catechetico per riviverli ed imprimerli indelebilmente nella memoria. La prima processione si dirigeva alla Croce, simbolo per eccellenza della redenzione, o all’altare ad essa dedicato, nel caso fosse presente come ad Aquileia e Cividale [24]. Ivi si cantava il responsorio Christus resúrgens che i codici locali tramandano in due versioni diverse, una più lunga, ricca ed ornata in uso a Cividale (Trascrizione 4), l’altra più stringata ed essenziale.
Il testo, attribuito a re Roberto II di Francia (Roberto il Pio, 972-1031), appare un rimprovero, se non una vera e propria invettiva, nei confronti dei crocifissori ai quali viene opposta la prova della resurrezione del Signore che si ha dalla pietra del sepolcro rovesciata. La già accennata tendenza ad un approccio quasi teatrale, incluso l’inserzione nel rito di responsori articolati o perfino azioni drammatiche paraliturgiche non è certamente esclusivo dell’area aquileiese. Essa piuttosto rientra nel canone poetico-estetico caratterizzante gran parte dell’arte sacra medievale, e che include un profondo intento didascalico. Tuttavia, è proprio in area aquileiense, ed in particolar modo a Cividale nel XIII-XIV secolo, che risulta particolarmente diffusa e sviluppata [25]. Studi recenti su manoscritti di area padovana inoltre suggeriscono che la propensione alla teatralità potesse essere, in epoca più remota, un tratto comune di tutta l’area anticamente legata al Patriarcato [26]. La tendenza drammaturgica espressa dall’articolazione di questo responsorio va ascritta ad un contesto caratterizzato dalla frequente inserzione, all’interno dei sacri riti, di vere e proprie rappresentazioni. Tali drammi si svolgevano tenendo in considerazione anche l’aspetto spaziale della liturgia, rappresentando in luoghi liturgici specifici (ad esempio presso il sepulchrum ecc.) i relativi eventi evangelici. In tale luce, l’approccio drammatico non si riduce ad un mero intento didascalico, distinguendosi in ciò dalla sacra rappresentazione, bensì esprime una dimensione sacra, e quindi propriamente liturgica, riconducibile al principio di exemplum ed imitatio [27] ed, in ultima analisi, di riattualizzazione che è cardine fondante la liturgia delle Chiese apostoliche. Compiuta l’incensazione - dopo il versetto Dicíte in géntibus [/natiónibus], allelúja, cui si rispondeva Quia Dóminus regnávit a ligno, allelúja – l’officiante cantava un’altra orazione (Deus qui ad ætérnam vitam), ancora una volta di tradizione gregoriana [28].
A questo punto si riformava il corteo processionale per dirigersi alla volta del fonte battesimale che - almeno nelle chiese più importanti, come Aquileia e Cividale sino al principio del XVII secolo - era distinto dall’edificio ecclesiastico principale ed anzi costituiva una costruzione autonoma a sé stante dalle fattezze di una chiesa [29]. I processionali quattrocenteschi della collegiata cividalese assegnavano a questo momento l’antifona In die resurrectiónis meæ, dicit Dóminus, allelúja, congregábo gentes et cólligam regna, ut effúndam super vos áquam mundam, allelúja (Trascrizione 5).
Come Et dicébant,
anche ques’antifona in VIII modo non trova riscontro nella tradizione liturgica
tridentina ed i testimoni esistenti sono prevalentemente d’oltralpe. L’uso di
questo testo nei Vesperi pasquali è però certamente molto antico e probabilmente
non locale: l’antifona, infatti, è presente, pur con melodia non uguale, nei
Vesperi pasquali di un codice liturgico del XI secolo in uso presso la Basilica
di San Pietro in Vaticano e che è generalmente considerato uno dei principali
testimoni superstiti del cosiddetto “canto romano antico” [30]. È
inoltre interessante notare che tale antifona, con la stessa funzione, si
riscontra anche a Venezia negli usi peculiari della ducale basilica marciana,
perdurati sino ai primi anni del XIX secolo [31]. Presso
il fonte battesimale, ornato ed illuminato a festa, l’antifona Vidi áquam (Ezech.
47, 1-9), del modo VIII - usualmente assegnata al rito dell’aspersione con
l’acqua prima della Messa di Pasqua e delle domeniche del tempo pasquale [32] -
preludeva e faceva seguito al Salmo 112 (Laudáte puéri Dóminum) ed a
Trieste, come attesta il locale Breviarium del XV secolo, si cantava verosimilmente
sotto la stessa antifona, pure il Salmo 113 (In éxitu Israël). Il sacro
fonte veniva incensato e l’officiante cantava il versetto Dómine apud te
fons vitæ, allelúja cui si rispondeva Et in lúmine tuo vidébimus lumen,
allelúja. L’orazione Deus qui diversitátem géntium, il cui testo,
ancora una volta compreso nel Sacramentario gregoriano, si ritrova come collecta
del giovedì dell’ottava pasquale sia nel Missale Romanum sia in quello secundum
consuetudinem almæ Aquileyensis Æcclesiae, chiudeva questa fase del Vespero
di Pasqua [33].
Battistero di Aquileia e dettaglio della vasca battesimale. |
Un altro spostamento avveniva alla volta del “sepolcro”: esso, nella basilica poponiana di Aquileia, è identificabile con la costruzione rotondeggiante, dell’XI secolo, presente in principio della navata di sinistra [34]. Va notato che questo particolare luogo liturgico, anche se chiamato con lo stesso termine con cui popolarmente si denomina l’“altare della reposizione” - destinato tradizionalmente alla conservazione dell’Ostia consacrata nella Messa in Cœna Domini del giovedì santo per la celebrazione della “Messa dei Presantificati” del giorno successivo (secondo il Missale Romanum) – conosceva, attorno ad esso, nell’usus aquilejensis, uno sviluppo rituale più ampio e complesso nel corso delle funzioni del Triduo pasquale.
Sepolcro della Basilica di Aquileia |
Al Vespero pasquale, presso
il sepolcro, si cantava l’usuale ultimo salmo del Vespero domenicale, ossia il
113 (In éxitu Israël), preceduto e
seguito dall’antifona Veníte et vidéte locum ubi pósitus erat Dóminus,
allelúja, allelúja. Il sepolcro veniva dunque incensato ed il versetto Surréxit
Dóminus de sepúlchro, allelúja – con la relativa risposta Qui pro nobis
pepéndit in ligno, allelúja – precedeva l’orazione Præsta quaésumus omnípotens
Deus che ritroveremo, con analoga posizione e destinazione, negli antichi e
abbandonati usi dell’Urbe [35].
Fatto ritorno in choro, la funzione si chiudeva con il canto del Benedicámus
Dómino, arricchito dalle invocazioni dell’Allelúja. Il Vespro si
chiudeva quindi con la benedizione del vescovo, se presente, per proseguire, in
ogni caso, con l’officiatura dell’Ora canonica di Compieta.
Secondo i processionali di Cividale, la conclusione del Vespero pasquale presso la Collegiata conosceva uno sviluppo di maggiore ampiezza e sarà interessante notare di come alcuni elementi furono destinati ad una longevità che trascese di gran lunga l’epoca dell’adozione dei libri liturgici “tridentini”. La classica formula di congedo dell’officiatura delle Ore canoniche, ossia il Benedicámus Dómino veniva preceduta da un particolare canto: Submérsus jacet Phárao (Trascrizione 6).
Sebbene le rubriche dei manoscritti cividalesi indichino il componimento come Prosa, il Submérsus è più propriamente un tropus alla formula del Benedicámus Dómino. I tropi erano delle particolari inserzioni testuali che precedevano, seguivano o persino inframmezzavano i formulari liturgici ufficiali, che fiorirono in modo piuttosto lussureggiante ed anche diversificato rispetto agli usi locali nel corso del Medioevo. Nel tentativo di una restaurazione dell’originaria purezza ed uniformità, i redattori dei libri liturgici compilati ad mentem dei dettami del Concilio Tridentino li espunsero. Quello di Cividale, per motivi ignoti e difficilmente indagabili, scampò de facto alle epurazioni di Trento per giungere ancora in uso nell’età contemporanea. Questa singolare sopravvivenza, limitata alla Collegiata di Cividale, forse potrebbe essere ricercata nella tradizione locale secondo la quale il Submérsus sarebbe stato importato in Friuli dal patriarca Bertoldo di Andechts (+ 1251). Il prelato ungherese, signore temporale della Patria del Friuli, era cognato della figlia di re Andrea, Santa Elisabetta d’Ungheria. Essendo la Santa, celebre per munificenza e carità, benefattrice del Capitolo di Cividale, volle espressamente che tale canto fosse adottato dal clero locale: mercé questa tradizione il brano era detto popolarmente “ongaresco”. Tale ipotesi non convinceva il Vale, che anzi avanzava l’ipotesi che il Submérsus potesse essere stato composto da tale frater Antonius Civitatensis, vissuto nel Quattrocento, autore anche di «[…] altre produzioni musicali di sapore piuttosto leggero» [36]. Il canto del Submérsus - detto popolarmente “Fanò”, probabile corruzione del termine Pharao - avveniva innanzi all’altare di San Donato ove era allestito il sepolcro: come testimonia ancora monsignor Vale, fino alla sua epoca – nonostante che per i riti del Missale Romanum servisse solo per le funzioni del giovedì e venerdì della Settimana Santa – nel tempo pasquale si mantenevano ancora gli arredi solenni e si lasciava la porticina del tabernacolo aperta, un lacerto forse interpretabile come allusiva testimonianza di quelle che erano state le costumanze rituali proprie all’epoca dell’usus aquileyensis [37]. Questo brano è inoltre testimone di un’altra peculiarità del repertorio liturgico musicale cividalese, ovvero l’ampio ricorso al cantus planus binatim, prima forma di sviluppo verso la polifonia, nella quale due voci di canto piano si muovono autonomamente ed in parallelo, pur in modo ancora non mensurale [38].
Collegiata di Cividale |
Tale
pratica risulta ampiamente diffusa nel medioevo europeo, tuttavia il Submérsus, come alcune altre polifonie
primitive, non trova riscontro al di fuori dalle fonti cividalesi, circostanza
che ne suggerisce un’origine quasi certamente locale [39]. Nel
contesto medievale europeo, sia la pratica compositiva del cantus planus binatim in generale che alcune specifiche composizioni
risultano essere ben più arcaiche dei testimoni pervenutici ed il loro uso,
soprattutto in ambito liturgico, è documentato in molti casi essere stato persistente
nel tempo [40].
Il Submérsus, tuttavia, utilizzando
la tecnica dello “Stimmtaush”, introdotta nel XII/XIII secolo, certamente non può
essere considerato appartenente al nucleo delle composizioni prepolifoniche più
arcaiche. In accordo con queste considerazioni stilistiche, è forse possibile
ipotizzare una data di composizione corrispondente alla prima metà del XIII
secolo, con un termine ante quem che
si può porre con certezza nel 1264, in corrispondenza alla datazione del testimone
più antico, ovvero il codice Cividale LVIII. È suggestivo osservare come tali
date siano pienamente compatibili con l’ipotesi tradizionale precedentemente menzionata.
Relativamente al perdurare dell’uso, Petrobelli riferisce che esso si mantenne
fino al 1960: si hanno partiture delle voci separate trascritte nel Settecento
ed alcune anche del 1921, una circostanza sicuramente insolita e rara, tanto da
far ritenere che non vi sia stata nessuna composizione polifonica che abbia
avuto un utilizzo così duraturo e prolungato nel tempo [41].
Il sacro rito si chiudeva con la formula di congedo Benedicámus Dómino arricchito dal triplice Allelúja (diversamente dal Breviarium Romanum che ne prevede due) la cui esecuzione – con una melodia che il Papinutti definisce «bella e ricca» [42] - secondo i codici della Collegiata era tradizionalmente affidata ad un bambino, e dunque col canto dell’antifona Regina Cœli (Trascrizione 7) [43].
Riguardo le
peculiarità specifiche che si mantennero in Cividale – verosimilmente fino al
1960 ossia fino quando si eseguiva ancora il Submérsus - è ancora il
Vale a ragguagliarcene: alla fine del Vespero si andava processionalmente,
attraverso la navata destra, fino alla porta maggiore del duomo ove si cantava
un’orazione, si raggiungeva il battistero laddove se ne cantava un’altra,
infine, al canto del salmo 112 (Laudáte puéri) si raggiungeva l’altare
di San Donato (adibito a sepolcro) per cantare il tropus. L’Autore, a
margine di questa stringata descrizione dello status quo ai suoi tempi, informa
che, all’epoca, simili usi sussistevano anche in altri luoghi dell’arcidiocesi
di Udine [44].
Purtroppo, a distanza di quasi centoventi anni dalla testimonianza del Vale,
non è possibile individuare i luoghi precisi cui allude l’Autore, ulteriori
dettagli ritualistici-cerimoniali o particolari brani eseguiti nella
circostanza, lacerti di quella che fu una più ampia lex orandi locale
che merita sempre di essere approfondita e conosciuta.
Considerazioni sulle origini e comunanze con altri
usi liturgici
L’esistenza
in diverse aree europee di testimoni precedenti i citati codici Aquileiensi,
inclusi anche gli Ordines Romani [45],
che già presentavano diversi e sostanziali elementi in comune con la forma
aquileleiense del Vespero pasquale, non depone per un’origine autoctona della
medesima. Essa non rappresenta, o almeno non del tutto, un’esclusività
specifica del territorio, tuttavia va osservato come, diversamente da quanto
avvenne in altre geografiche, nelle terre patriarcali essa si mantenne, ed anzi
si sviluppò, con maggior tenacia nel tempo. Lo svolgimento locale del rito appare
innanzitutto essere una riproposizione ed adattamento ai luoghi nostrani di
quello che fu il Vespero “stazionale” di Pasqua in uso a Roma nel corso del
Medioevo, definito da Amalario come gloriosum officium in Romana Ecclesia [46]
- forse derivato da un antico processo imitativo degli usi gerosolimitani (già
ravvisabile embrionalmente nell’Itinerarium
Ægeriæ [47])
- che ci viene tramandato soprattutto nelle descrizioni date dagli Ordines
XXX B e L (secondo la numerazione di Michel Andrieu) che datano alla fine
dell’VIII e del X secolo rispettivamente. Pur certamente collocandosi nella
tradizione romana senso lato, va
tuttavia notato il fatto che entrambi questi ordines siano stati redatti oltralpe [48]. Inoltre,
un testimone di poco successivo ma strettamente e certamente romano, quale
l’antifonario della Basilica di San Pietro in Vaticano del XII secolo, presenta
alcune differenze significative con gli Ordines,
tra le quali anche l’ordine delle stationes
[49].
Complessivamente, si può quindi certamente concludere che a Roma il rito fosse già
ben radicato ma non è possibile escludere che nel suo sviluppo abbiano poi
influito contaminazioni da usi nordici, con elementi simili, peraltro, proprio a
quelli riscontrati ad Aquileia. In mancanza di testimoni patriarcali antichi, è
in ogni caso allo stato impossibile stabilire con certezza quando e da dove
tali usi fossero giunti in ambito aquileiense. Va comunque segnalato come
l’ordine delle stationes nell’ uso di
Aquileia fosse più simile a quello in uso presso San Pietro. D’altra parte,
come significativamente affermava lo studioso salesiano Armando Cuva: «Va
rilevato che la diffusione degli Ordines
favorì lo sviluppo della celebrazione in tutta l’area della liturgia romana.» [50] e
ciò è generalmente sempre vero per quanto attiene l’esportazione delle prassi in
uso nell’Urbe. In aggiunta, appare meritevole di ulteriori indagini una
caratteristica che si riscontra nell’uso aquileiese ma assente nei libri romani
antichi, e cioè la statio ad sepulchrum.
Sulla
scorta del testimone più antico (Ordo
XXXB) descriveremo quindi succintamente le modalità celebrative convenzionalmente
definite romane di questa peculiare officiatura vespertina, che si teneva dalla
domenica di Pasqua fino al sabato in albis, in modo da poter cogliere
facilmente le analogie, ed anche gli adattamenti e le differenze, del costume
locale. Il clero si raccoglieva sotto la Croce trionfale eretta sulla pergula
della navata della basilica di San Giovanni in Laterano, al canto del Kýrie
essi muovevano alla volta dell’abside per prendere posto durante il canto dei
salmi 109 (Díxit Dóminus), 110 (Confítebor tibi Dómine) e 111 (Beátus
vir). Tra il secondo ed il terzo salmo venivano intercalati dei versetti,
dal salmo 92 (Dóminus regnávit), fortemente allusivi al trionfo di
Cristo per mezzo della risurrezione, declamati sia in latino che in greco [51]. Si
cantava dunque il Magníficat ed un’orazione chiudeva questa prima parte
del rito. Ingrossata dalle fila dei neofiti rivestiti della loro candida tunica,
una processione muoveva dietro l’abside dell’arcibasilica, sotto il portico non
più esistente, alla volta del battistero (entrando dalla parte opposta
all’attuale entrata) al canto dell’antifona In die resurrectiónis meæ,
che abbiamo riscontrato essere attestata nell’uso cividalese e marciano. Presso
il battistero si cantava il salmo 112 (Laudáte puéri Dóminum) [52], dei
versetti in lingua greca, la reiterazione del Magníficat ed un’orazione
chiudevano questa fase dell’officiatura. La processione quindi si riformava per
volgersi, al canto del Vidi aquam,
in direzione del contiguo e non più esistente oratorio della Croce, detto
Sant’Andrea ad Crucem, ove i neofiti avevano ricevuto, nel corso dei
riti vigiliari, la consignatio. È interessante notare come la statio ad Crucem, sia ad Aquileia sia a San Pietro in Vaticano, precedesse
quella ad Fontem. Pur essendo
impossibile trarre conclusioni definitive sull’argomento, va comunque segnalata
la possibile rilevanza, nello sviluppo degli usi locali, della spazialità del
rito, intesa non solo come progettazione dello spazio sacro in funzione del
culto ma anche, in caso di accoglimento di nuove varianti cerimoniali su un
substrato preesistente, come adattamento dello svolgimento rituale alla
disposizione del luogo liturgico [53].
Alla Croce veniva cantato il salmo 113 (In éxitu Israël) [54], un
versetto alleluiatico (su testo del salmo 94, Veníte exultémus,
abitualmente impiegato come Invitatorium al Mattutino), l’ulteriore
ripetizione del Magníficat ed un’orazione concludeva il Vespero [55].
Come annota l’Ordo: «Hæc ratio per totam ebdomadam servabitur usque in
dominica alba» [56].
Ci
troviamo dunque di fronte a un Vespero “stazionale”, con delle peculiari visite
a luoghi che, come afferma il Righetti, «avevano lo scopo precipuo di
ricondurre i neofiti in pio pellegrinaggio ai luoghi memorandi dove la notte
precedente si era compiuta la loro rigenerazione cristiana [57]».
Apparirà perciò naturale inquadrare questi particolari riti proprio nel
contesto di “stazionalità”, come accennato di probabile derivazione
gerosolimitana, che caratterizzava in modo importante le celebrazioni romane dell’età
di mezzo. Così come nell’ambito di esse, ed assieme ad esse, ebbe a perdurare, parimenti
assieme ne condivise il declino che si situa nel XIV secolo, segnatamente nel
periodo della “cattività avignonese” che decretò il loro abbandono [58].
Con il ritorno del papa a Roma - complice anche lo stato di degrado in cui
versavano gli edifici ecclesiastici - le liturgie papali assunsero prevalentemente
una dimensione palatina e dunque una configurazione più “statica” rispetto alla
antica “stazionalità”, di cui poco più rimase che la mera menzione della chiesa
dove si faceva stazione nel Missale
Romanum in particolare nei “tempi forti”. A ciò si aggiunga, per quanto
concerne lo specifico caso dei Vesperi pasquali, che le cappelle non erano
dotate del fonte battesimale, tappa tra le principali di questa particolare
celebrazione. Per tale ordine di concause, nell’uso della curia romana, per
celebrare il Vespero pasquale, ci si accontentò di prendere le cinque antifone
delle Lodi da premettere e far seguire agli ordinari cinque salmi (dal 109 al
113) assegnati al Vespero delle domeniche. In questa nuova fase, le uniche
caratteristiche peculiari dei Vesperi pasquali romani furono l’assenza del Capitulum
(la breve lettura scritturale collocata dopo la salmodia), dell’inno (la cui
assenza è caratteristica del modo arcaico di ordinare l’Ufficio) ed il
versetto, sostituiti dall’Hæc dies, già adoperato come graduale nella
Messa e qui indicato come antifona. In tale forma lo ritroveremo
“cristallizzato” nel Breviarium tridentino [59].
Tuttavia la forma antica non fu abbandonata del tutto e conobbe delle locali sopravvivenze,
caratterizzate da una marcata diversità degli usi, come nel caso della
giurisdizione ecclesiastica aquileiense, ma anche in diocesi della Francia e
della Renania ed in seno agli usi propri di qualche Ordine religioso [60]. Appare
estremamente interessante che del “Vespero battesimale” si faccia menzione
nell’ Institutio Generalis della Liturgia Horarum – collegata alla
Costituzione Apostolica Laudis Canticum
del 1970 - laddove, al 213 se ne raccomanda la conservazione [61].
Ciò appare significativo quanto a testimonianza di questa singolare
sopravvivenza ma anche, come riteneva Armando Cuva [62],
una solida premessa alla prospettiva di restaurazione e recupero di quella che
il Beato Ildefonso Schuster definì essere «la cerimonia più caratteristica
della festa di Pasqua in Roma» [63].
Gianluca Gortan Cappellari - Francesco G. Tolloi
[1] I primi Vesperi erano inseriti nel corpo
della celebrazione della veglia pasquale, esattamente come nel Missale
Romanum di San Pio V prima delle riforme intervenute negli anni Cinquanta
del secolo scorso. Essi erano ridotti ad un solo salmo - il 116 (Laudáte
Dóminum omnes gentes) - preceduto e seguito da un’antifona costituita da un
triplice Allelúja, dal Magníficat, preceduto e seguito
dall’antifona Véspere autem sábbati. Durante il cantico evangelico si
compiva l’incensazione e l’orazione di postcommunio costituiva la conclusione
sia della Messa che del Vespero. Cfr. Missale Aquileyensis Ecclesie,
Venezia, De Gregoris, 1519, ristampa anastatica di Culture et Civilisation,
Bruxelles, 1963, fol. 98 v. (questa è l’ultima edizione a stampa del Messale
secondo l’uso aquileiense, per approfondimenti: cfr. F. G. Tolloi, Una
riflessione a margine dei cinquecento anni dall’ultima edizione del Messale di
Rito Aquileiense, in Borc San Roc,
31, novembre 2019, Gorizia, Centro per la conservazione e valorizzazione delle
tradizioni popolari, Gorizia, 2019, pagg. 17 e ss.) e Missale Romanum
(editio princeps), Roma, Faletti, Varisco, 1570, edizione anastatica a cura di
M. Sodi – A. M. Triacca, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1998,
pag. 233 (anast. 293). Su questa modalità, instauratasi nel X secolo, si veda: A. King, Liturgy of the Roman Rite,
Londra, Longmans, 1957, pagg. 423 e s. e R.
Amiet, La veillée Pascale dans l’Église latine, Parigi, Cerf,
1999, pagg. 127 e ss.
[2] Cfr. A.
King, Liturgies anciennes, (trad. francese di B. Poupard), Paris,
Mame, 1961, pagg. 48 e ss.
[3] I Sermones
di San Cromazio, vescovo di Aquileia tra il 388 ed il 407 ca., sono
caratterizzati dalla presenza di numerose informazioni che permettono di
identificare diversi elementi caratteristici del rito originario della Chiesa
di Aquileia. Cfr. Cromazio di Aquileia,
I sermoni, nuova edizione con
traduzione a fronte di Marianna Cerno, Udine - Roma, Istituto Pio Paschini per
la Storia della Chiesa in Friuli ed Istituto Storico Italiano per il Medio Evo,
2019.
[4] Breviarium romanum (editio
princeps), Roma, Manuzio, 1568, edizione anastatica a cura di M. Sodi – A.M.
Triacca, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1999.
[5] Per ragioni connesse con lo sviluppo del
potere temporale del Patriarcato di Aquileia, gran parte dei Patriarchi dei
secoli XI-XIII furono di origine germanica. A tali eventi storici va ascritto
un inteso documentato scambio librario, con l’arrivo nel patriarcato di
numerosi codici, anche liturgici, di origine germanica. cfr. I libri dei Patriarchi, a cura di C.
Scalon, Udine, Istituto Pio Paschini, 20182; G. Pressacco, Il
patriarca Poppone e la musica ad Aquileia e Grado nel secolo XI, in L’arc di San Marc, Parte Seconda, vol.
II, Udine, Forum editrice, 2013, pagg. 853 e ss.
[6] I principali codici liturgici che
testimoniano, ciascuno per le parti proprie di ciascun libro, il rito sono: per
le varianti più antiche, i breviari sandanielese (Biblioteca Guarneriana cod.
4, fol. 105r, con notazione musicale adiastematica) e cividalese (Museo
Archeologico Nazionale cod. XCI, fol. 210v-211r) e l’Antifonario
aquileiese-trevigiano (Udine, Biblioteca Arcivescovile cod.84, fol. 97v, con
notazione in campo aperto), un codice di area aquileiese del XII secolo,
proveniente dalla sede di Treviso, allora parte del Patriarcato. Sono poi ascrivibili
alla famiglia aquileiese due antifonari destinati all’uso liturgico nella
Basilica di Aquileia (Biblioteca del Seminario Teologico di Gorizia cod. A,
fol. 181r-182r ed il successivo e simile cod. B, fol. 145r-146r), il Breviario
tergestino (copie all’Archivio Capitolare, fol. 136v-137v e alla Biblioteca
Civica di Trieste, MS 1-22) ed i più tardivi processionale aquileiese (Udine,
Biblioteca capitolare cod. 7, sec. XV, fol. 43v-44v) ed antifonario di Kranj
(Biblioteca Vescovile di Lubiana, cod. 18, fol. 123r-124r, sec. XV). Infine,
l’uso di Cividale nei secoli XIII/XV è ben descritto in numerosi codici, tra i
quali i principali sono i processionali cividalesi CI, fol. 38r-40v e CII, fol.
41r-43r, entrambi del XV secolo e gli antifonari XLI, fol. 140r-140v del
XIII/XIV secolo e LXVII, fol. 129v-130r, del secolo XV, ora custoditi al Museo
Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli. Sui codici summenzionati vedasi
C. Scalon, La biblioteca arcivescovile di Udine, Padova, Editrice Antenore, 1979, pagg. 153 e s.; I codici della biblioteca capitolare di Cividale del Friuli, a cura
di C. Scalon e L. Pani, Firenze, SISMEL, 1998, pagg. 175 e s., 203 e ss., 298 e ss.,
320 e ss.; L. De Biasio, Il fondo codici dell’Archivio Capitolare di
Udine, in La miniatura in Friuli,
a cura di G.C. Menis e G. Bergamini, Milano, Electa, 1972, pag.193; G. Baroffio, Un importante libro liturgico: il breviario di San Daniele, in Antiqua habita consuetudine, a cura di
L. Cristante, Trieste, EUT Edizioni Università Trieste, 2004, pagg. 43 e ss.;
M. Fullin, Il manoscritto Guarneriano 4, breviario di rito aquileiese: una
indagine ancora aperta, in Salve
Sancta Parens, Quaderni della Civica Biblioteca Guarneriana, n.13,
2020, pagg. 75 e ss. R. Gherbaz, Il Capitolo della Chiesa tergestina e il
breviario quattrocentesco conservato nell’Archivio Capitolare di San Giusto:
storia di un antico legame, in Breviarium
secundum consuetudinem Aquilegensem ac Tergestinam Ecclesiam – Commentario al
Breviario e Saggi critici, Brescia, Marco Serra Tarantola Editore, 2011, pagg.
9 e ss.; R. Camilot-Oswald, Die Liturgische Musikhandschriften aus dem
mittelalterlichen Patriarchat Aquileia, Bërenreiter, Kassel, 1997, pagg. 3
e ss.; Antiphonarium Ecclesiæ parochialis
urbis Kranj, a cura di J.Snoj e G. Gilányi, 2 voll. con riproduzione integrale,
Budapest, Musicalia Danubiana, 2007, in particolare pagg.11 e ss.
[7] Già nell’Antifonario Udine Arc. 84, è
sostanzialmente presente, per la parte iniziale in choro del rito, la stessa struttura poi riportata nei codici in
uso ad Aquileia. L’Antifonario non riporta però la parte stazionale,
probabilmente contenuta in un Processionale perduto o non identificato.
[8]
cfr. Breviarium Aquileiense, Venezia, A. Torresanus, 1496, pagg. s.n.
[9] Gli aspetti rubricali della presente
ricostruzione sono largamente desunti dall’Antifonale Gorizia B fol. 145r-146r.
[10] È interessante notare come questa
peculiarità, così come la forma stazionale del Vespro e numerose altre caratteristiche
del rito proprie dell’uso aquileiense siano testimoniate già in alcune delle
fonti più antiche. In particolare gli Ordines
Romani XXXB e L (numerazione Andrieu); cfr. M. Andrieu, Les Ordines Romani du
haut Moyen Age; Leuven, Spicilegium Sacrum Lovaniense, 1951, vol. III, pagg.
475-477 e vol V, pagg. 308-310. Nel lavoro dell’Andrieu l’Ordo XXXB è edito dall’unico testimone superstite (Parigino
974) databile al secolo VIII. L’Ordo L è
il cosiddetto Pontificale Romano-Germanicum,
la cui redazione risale al X secolo, presso Magonza.
[11] cfr. Breviarium
Aquileiense, op. cit. pag. s.n.
[12] Citiamo, nel caso di brani riscontrabili
anche nei libri romani, sia la typica del Graduale Romanum di
papa San Pio X che il Graduale Triplex. Cfr. Graduale Sacrosanctæ
Romanæ Ecclesiæ, Roma, Tipografia Vaticana, 1908, pagg. 4* e s. e Graduale
Triplex, Solesmes, Desclée, 1979, pagg. 710 e s.
[13] Cfr. Breviarium
Romanum, op. cit. pagg. 361 e s. (anast. 391 e s.)
[14] Cfr. per
i testi: Missale Aquileyensis, op. cit. fol. 99 v e r; Missale
Romanum, fol. I. (anast. 353); per la melodia: Graduale Romanum,
op. cit. pag. 203 e Graduale Triplex, op. cit. pagg. 196 e s.
[15] I testimoni riferibili ad Aquileia non
riportano solo l’incipit melodico per il versus Confitémini, rimandando al graduale. I libri graduali di area
aquileiese che lo riportano (cfr. il cod. Biblioteca Apostolica Vaticana Ross.
76, fol. 101r-101v, databile al XIII secolo), in accordo, presentano il
medesimo incipit melodico. Il testo è lo stesso del Messale e dell’uso
romano, così come anche nel Breviarium
Aquileiense a stampa. (op. cit. pag. s.n.), suggerendo che la versione cividalese
sia stata introdotta localmente.
[16] Cfr. Graduale Sacrosanctæ Romanæ
Ecclesiæ, Roma, op. cit. pag. 203 e Graduale Triplex, op. cit. pagg.
196 e s.
[17] Si tratta in particolare degli Antifonari
Gorizia A e B, del Processionale Udine Arc. 84 e del Breviario dell’Archivio
Capitolare di Trieste; cfr. nota 5.
[18] Come si avrà modo di discutere più avanti
nel testo, i codici liturgici di area aquileiese sono particolarmente ricchi di
rubriche che suggeriscono un’impostazione drammatica di molte azioni
liturgiche, fino all’inclusione di vere e proprie azioni paraliturgiche
simil-teatrali, generalmente musicate, all’interno della liturgia dei “tempi
forti” e delle principali solennità. Cfr. M.I. Colantuono,
Elementi di drammi sacri in due
processionali tardomedievali di Cividale del Friuli, in I quaderni del M.Æ.S, I-1998, pagg. 7 e
ss.; N. Morandi, Liturgia e dramma nell’Officium Stellæ, Pavia,
Philomusica, 5 (1), 2006.
[19] G.
Vale, Un uso liturgico aquileiese dimenticato e i Vesperi di Pasqua a
Cividale, in Memorie storiche cividalesi, II, 1906, pag. 53.
Monsignor Giuseppe Vale fu probabilmente anche autore, tra le altre
pubblicazioni sugli usi liturgici locali, della piccola monografia: Gli
antichi usi liturgici della Chiesa d’Aquileia dalla Domenica delle Palme alla
Domenica di Pasqua, Padova, Tipografia del Seminario, ove le pagg. dalla 53
a 55 sono dedicate al Vespero pasquale.
[20] Cfr. F. Cabrol,
Dictionaire d’archeologie chrétienne et
de liturgie, Parigi, Lotouzey et Ane, 1905, fasc. VIII: Antiphone, cit. in G. Vale, Un uso liturgico aquileiese
dimenticato e i Vesperi di Pasqua a Cividale, op. cit., pagg. 53 e s.
[21] Hæc in Cividale XLI; Et in Cividale
LXVII.
[22] Cfr. database online https://cantus.uwaterloo.ca/(consultato
a marzo 2023).
[23] [Deus, qui hodiérna die, per Unigénitum
tuum, æternitátis nobis áditum, devícta morte, reserásti: vota nostra quæ
præveniéndo aspíras, étiam adjuvándo proséquere.] Cfr. Corpus orationum, tom. II, num. 1669A, a cura di B. Coppieters’t
Wallant. Turnholti 1992-1999; Sacramentario Gregoriano. Testo
latino-italiano e commento, a cura di M. Sodi e O.A. Bologna, Roma, Edizioni
Santa Croce, 2021, pag. 98 al 439; in Missale Aquileyensis, op. cit.
fol. 99 v e Missale Romanum, fol. I (anast. 353). Ricordiamo che nel
rito romano, così come nell’uso aquileiense, l’orazione usata nella
celebrazione delle Ore canoniche corrisponde sempre alla collecta della
Messa del giorno.
[24] Sulla topologia liturgica della Basilica
di Aquileia e soprattutto della Collegiata di Cividale permangono alcune
incertezze. Tuttavia, le rubriche del codice Gorizia B rendono certa
l’esistenza di un altare della Santa Croce ad Aquileia. Sulla scorta di
analoghe collocazioni in edifici di culto coevi dell’area e non, con
ragionevole certezza, esso può essere identificato con l’altare collocato ai
piedi della scalinata che conduce al coro. Esso si trovava quindi proprio in
prossimità del crocifisso che, nelle diverse fasi, era con ogni probabilità
collocato sulla pergula o sospeso
sotto l’arco trionfale della basilica poponiana. Simile era la collocazione
anche a Cividale. Cfr. M. Visintini
e G. Trevisan, Il Duomo di Cividale del Friuli nel XII-XIII
secolo con una nota sul contesto del grande Crocifisso ligneo, in Il Crocifisso di Cividale, a cura di L.
Mor, Torino, Allemandi & C., 2014, pagg. 65 e ss.
[25] Per i testimoni cividalesi e la loro
rilevanza nella storiografia del dramma sacro e del teatro in generale vedasi
M.S. De Vito, L’origine del dramma sacro, Milano, Società Anonima Editrice Dante
Alighieri, 1938; J.Drumbl, Quem Quæritis – Teatro sacro del’alto
medioevo, Roma, Bulzoni editore, 1981; G.C. Menis,
Il “Planctus Mariæ” cividalese del secolo
XIII, in Ce fastu?, a. 33-35 (1957-1959),
n.1-6, pagg. 138 e ss.; F. Doglio,
La nascita del dramma liturgico, in Teatro in Europa, 4 voll., Milano, Garzanti,
1992, I, pagg. 79 e ss.; S. Sinisi e
I. Innamorati, Storia del teatro. Lo spazio scenico dai
greci alle avanguardie, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pagg. 43 e ss.
[26] Cfr. G. Cattin,
Tra Padova e Cividale: nuova fonte
per la drammaturgia sacra nel medioevo, in Il Saggiatore musicale, Vol. 1(1), 1994, pagg. 7 e ss.; G. Pressacco, Il patriarca Poppone e la musica ad Aquileia e Grado nel secolo XI,
op. cit. pagg. 860 e s.; F. Doglio,
La nascita del dramma liturgico, op.
cit.;
[27] cfr. R. Salvarani,
La fortuna del Santo Sepolcro. Spazio,
liturgia, architettura, Milano, Jaca Book, 2008, pagg. 43 e ss.
[28] [Deus qui ad ætérnam vitam in Christi
resurrectióne nos réparas: érige nos ad consedéntem in déxtera tua nostræ
salútis auctórem, ut qui propter nos indicándus advénit, pro nobis judicatúrus
advéniat.] Cfr. Sacramentario
Gregoriano, op. cit. pag. 105 al 489. L’orazione, evidentemente antica, non
è però censita in Corpus orationum,
op. cit., e non è stata inclusa nel Missale Romanum.
[29] Il battistero di Aquileia è tuttora
presente. A Cividale, l’esistenza di un edificio con vasca in posizione analoga
a quella della Basilica di Aquileia, supposto esistente fino agli ampliamenti
del Duomo nel XV secolo su base documentale, è stata dimostrata tramite scavo
nel 1906, occasione nella quale i resti di tale struttura sono stati rinvenuti
sul sagrato della Collegiata, per metà coperti dalla attuale facciata costruita
nel 1458. Cfr. C. Cecchelli, Il Battistero di Callisto, in Memorie storiche forogiuliesi, v. 15,
1919, pagg. 55 e ss.; M. Mirabella
Roberti, Il battistero
paleocristiano di Cividale, in Antichità
Altoadriatiche, VII, 1975, pagg. 41 e ss.; M. Visintini e G.
Trevisan, Il Duomo di Cividale del
Friuli nel XII-XIII secolo con una nota sul contesto del grande Crocifisso
ligneo, op. cit.
[30] Il codice, che riporta la melodia in
notazione in campo aperto, è conservato alla Biblioteca Apostolica Vaticana:
Archivio Capitolare di San Pietro B79, fol. 104v.
[31] Cfr. Officium Hæbdomadæ Sanctæ secundum
consuetudinem Ducalis Basilicæ Sancti Marci Venetiarum, Venetiis,
Pinelliana, 1767, pagg. 364 e s. Qui per motivi di tempo e di spazio non
affrontiamo il tema delle specificità marciane riferite a questa particolare
circostanza. Tale antifona, in ogni caso, si riscontra anche nell’Ordo XXX B
(numerazione Andrieu); cfr. M.
Andrieu, Les Ordines Romani …, op. cit., vol. III, pag. 476.
[32] Cfr. Graduale Sacrosanctæ Romanæ
Ecclesiæ, Roma, op. cit. pag. 2* e Graduale Triplex, op. cit. pag.
708.
[33] [Deus
qui diversitátem gentium in confessióne tui nóminis adunásti, da ut renátis
fonte baptismátis una sit fides mentium et píetas actiónum.] Cfr. Corpus orationum, op. cit. tom. II num.
1537; Sacramentario Gregoriano, op. cit. pag. 104 al 464; in Missale
Aquileyensis, op. cit. fol. 102 r e Missale Romanum, fol. IIII v.
[34] Non risulta vi fosse analogo apparato
liturgico fisso a Cividale, i cui libri liturgici indicano per questa statio l’utilizzo della cappella di San
Donato, utilizzata anche come sepolcro (Cividale CI e CII). Tale cappella era
forse, almeno originariamente, un edificio indipendente, in ogni caso chiuso da
valvæ come attesta un documento del
1191. Cfr. M. Visintini e G. Trevisan, Il Duomo di Cividale del Friuli nel XII-XIII secolo con una nota sul
contesto del grande Crocifisso ligneo, op. cit. pag. 66.
[35] [Præsta
quǽsumus omnípotens Deus, ut, qui grátiam domínicæ resurrectiónis cognóvimus,
ipsi per amórem Spíritus a morte ánimæ resurgámus.] Cfr. Sacramentario Gregoriano, op. cit. pag. 99 al 447.
Come attesta il Sacramentarium
l’orazione si proclamava “Ad sanctum Andream”, una delle chiese cui faceva
tappa il Vespero pasquale stazionale della Roma medievale.
[36] Cfr. G.
Vale, Un uso liturgico aquileiese dimenticato e i Vesperi di Pasqua a
Cividale, op. cit. pag. 57. Qui l’Autore, alla nota 5, fa anche riferimento
ad un Glória ed un Credo monodici attribuibili al frater
Antonius, che costituiscono i fogli aggiuntivi del codice LXXIX del Museo
Archeologico di Cividale. Il codice riporta in apertura ed in appendice un
totale di una decina di fogli riconducibili a diverse differenti mani, con
melodie per l’ordinario della Messa, sequenze ed altri componimenti e
l’annotazione, ripetuta due volte, “Fr. Antonius de Civitate”.
[37] Cfr. G.
Vale, Un uso liturgico aquileiese dimenticato e i Vesperi di Pasqua a
Cividale, op. cit. pagg. 55 e s. e 58.
[38] La seconda voce, inizialmente aggiunta in
funzione di accompagnamento alla prima, aumentò progressivamente in autonomia, favorendo
lo sviluppo di composizioni con ricorso sempre più pronunciato a scambi ed
incroci ed anche, più tardivamente, il ricorso alla tecnica dello “Stimmtaush”.
Questo sviluppo, che produce sonorità armoniche anche peculiari, prende il nome
di discanto o prepolifonia. Sul tema, in generale e soprattutto in ambito
aquileiense, vedasi: Le polifonie
primitive in Friuli e in Europa, a cura di C. Corsi e P. Petrobelli, Roma, Torre
d’Orfeo, 1989, pagg. 13 e ss.; L. Lockwood,
Sources of renaissance polyphony from
Cividale del Friuli, in Il saggiatore
musicale, 1 (2), 1994, pagg. 249 e ss.; B. Gillingham,
Medieval polyphony in a Cividale
manuscipt, in Canadian University
Music Review, n. 6, 1985, pagg. 239 e ss.
[39] Cfr. R. della
Torre, Il “Submersus Iacet Pharao”, in Le polifonie primitive in
Friuli e in Europa, op. cit. pagg.
139-142; Cfr. P. Petrobelli, Le
polifonie primitive di Cividale, Cividale, Associazione per lo Sviluppo
degli Studi Storici ed Artistici di Cividale del Friuli, pag. 3-9 e 13. I
testimoni pervenuteci del Submérsus sono quattro, costituiti dai
seguenti codici, tutti in uso al Capitolo della Collegiata: Cividale LVI, fol.
246r-246v (Graduale, sec. XIII/XIV); Cividale LVIII, fol 134r-135v (Graduale,
sec. XIII); Cividale CI, fol. 38v-40r (Processionale, sec. XV) e Cividale CII,
fol. 41r-42r (Processionale, sec. XV). Per le caratteristiche codicologiche e
la datazione dei libri liturgici vedasi I
codici della biblioteca capitolare di Cividale del Friuli, a cura di C.
Scalon e L. Pani, op. cit. La prima trascrizione in epoca contemporanea, ai
fini di studio, si deve a padre P. Ernetti O.S.B in Tradizione Musicale Aquileiese – Patriarchina, a cura di P. Ernetti
O.S.B, Jocunda Laudatio 1-4, San
Giorgio Maggiore, Venezia, 1973, pagg. 54-55.
[40] F.A. Gallo, Cantus planus binatim Polifonia primitiva in fonti tardive,
in Quadrivium. Studi di filologia e musicologia medievale, n. VII, pagg.
79 e ss.
[41] Cfr. P.
Petrobelli, Le polifonie primitive di Cividale, op. cit. pagg. 8
e s. e 13.
[42] Cfr. E.
Papinutti, Il Processionale di Cividale, Gorizia, Int Furlane,
1972, pag. 105.
[43] Cfr. J.F.B.M.
De Rubeis, De vetustis liturgicis aliisque sacris ritibus qui
vigebant olim in aliquibus Forojuliensis Provinciae Ecclesiis, in Dissertationes
duae, Venetiis, Occhi, 1754, pagg. 341 e s. e S. Kociančič, Tractatus de liturgia ecclesiae
aquilejensis, in Folium Diœcesanum,
Tergesti, Curia Episcopalis, 1872-1875, pagg. 71 e ss. La melodia per l’antifona
Regína
Cœli utilizzata al termine di questo rito è individuabile con certezza
solo nel solo codice Cividale CI che la riporta in corrispondenza delle
rubriche finali. Non differisce in modo sostanziale da quella in VI modo (tonus
solemnis) nell’Antiphonale Romanum, Roma, Polyglottis Vaticanis, 1912, pag. 56.
[44] Cfr. G.
Vale, Un uso liturgico aquileiese dimenticato e i Vesperi di Pasqua a
Cividale, op. cit. pagg. 52 e 59.
[45] Sul Vespero Pasquale nella storia della
liturgia romana vedasi in particolare: [A. De
Santi], Il giorno di Pasqua negli
antichi riti papali – IV. I Vesperi, in La
Civiltà Cattolica, anno 71, n.2, 1920, pagg. 211 e ss.; S.J.P. Van Dijk, The medieval Easter Vespers of the roman clergy, in Sacris Erudiri, n.19, 1969, pagg.261 e
ss. e A. Cuva, I Vespri Pasquali Battesimali nella Liturgia
Romana, in Salesianum, XXXV, n. 1 [1973], pagg. 110 e ss.
[46] Cfr. S.
Amalarius, Liber de Ordine
Antiphonarii, Caput LII, in J.P. Migne, Patrologia
Latina, vol. 105, col. 1295 e s.
[47] Egeria,
Pellegrinaggio in Terra Santa, Roma,
Città Nuova, 20123, pagg. 173 e ss. e 192 e s. Il racconto di Egeria
della liturgia vespertina pasquale a Gerusalemme presenta già i principali
elementi dei Vesperi pasquali: il carattere battesimale con il coinvolgimento
dei neofiti, la preghiera in più stazioni, la prosecuzione di analoghe
cerimonie per tutta l’ottava di Pasqua.
[48] Informazioni sugli Ordines XXXB e L sono
stati riportati nella nota 8.
[49] Il codice è il San Pietro B.79 conservato nella
Biblioteca Apostolica Vaticana. Come ripreso più avanti, a San Pietro come ad
Aquileia la stazione ad Crucem
precedeva quella ad Fontem, a
differenza di quanto indicato negli Ordines.
[50] Cfr. A.
Cuva, I Vespri Pasquali
Battesimali nella Liturgia Romana, op.
cit. pag. 107.
[51] Ciò se da un lato sottolinea ed enfatizza
la vocazione universale della Chiesa, lascia intendere altresì l’arcaicità
dell’uso determinato dalla antica copresenza nell’Urbe delle due etnie e dunque
anche al fatto che, la notte precedente, avevano ricevuto il Battesimo anche
catecumeni ellenofoni.
[52] Nel XIII secolo, il Durando, in vigenza di
tale prassi, riteneva che, in tale circostanza, il salmo in questione suonasse
da montito ai neofiti che, nel giorno precedente, per mezzo del Battesimo
«facti sunt pueri, id est a vitiis puris»; cfr. G.
Durandus, Rationale Divinorum
Officiorum, Lione, Rosslet, 1612, Lib. VI, ad 11, pag. 381.
[53]
Cfr. E.
Papinutti, Il Processionale
di Cividale, op. cit. pagg. 17 e s.; M. Visintini
e G. Trevisan, Il Duomo di Cividale del Friuli nel XII-XIII
secolo con una nota sul contesto del grande Crocifisso ligneo, op. cit. pagg.
67, 70 e s.; Z. Murat, Spazio fisico, spazio sociale, spazio
liturgico. La Basilica di Aquileia secondo il processionale trecentesco della
Biblioteca Capitolare di Udine, in Gli
spazi del sacro nell'Italia medievale, a cura di F. Massaccesi e G.
Valenzano, Bologna, University Press, 2022, pagg. 307 e ss.
[54] Nel descrivere e glossare analoghi riti
presenti a Besançon, il benedettino Claude De Vert, nel Settecento, ritiene
siano proprio le parole dei salmi a suggerire gli spostamenti. In particolare
il salmo 112 fa riferimento ai pueri:
la Chiesa, asserisce l’Autore, vede sempre il neofita, anche se adulto, come un
bambino appena nato. Commentando l’uso di tale diocesi di portare il cero
pasquale acceso in questi spostamenti, annota di come il salmo 113 faccia
riferimento all’uscita degli israeliti dalla prigionia del faraone, il cero
simboleggerebbe dunque la colonna di fuoco che guidava il popolo eletto
(simbologia di cui è caricato il cero pasquale anche nel rito ambrosiano). Lo
spirito dell’Autore, pregno di un marcato razionalismo nell’individuare i
rapporti causali nei sacri riti, lo spinge ad asserire che l’uso di portare il
cero pasquale acceso, in tale occasione, nasca dalla necessità di rischiarare i
passi durante le prime ombre vespertine. Cfr. C. De Vert, Explication simple, litterale, et historique des cérémonies de l’Église, Parigi,
Florentin-Delaune, 1720, II, pagg. 54 e ss.
[55] A titolo di completezza e curiosità
riportiamo l’epilogo di questa funzione pasquale vespertina come ci viene
descritto dal Beato Ildefonso Schuster: «Dopo tanti salmi e collette, dietro
invito del notaio o del vicedomino,
l’alto clero romano si raccoglieva nel triclinio papale a gustare tre diverse
specie di vini notati nei documenti: il Greco, de Pactis, de Procoma,
dai luoghi forse donde essi provenivano. In seguito, ai tempi di Cencio
Camerario [XII secolo, n.d.a.], anche i chierici inferiori vennero ammessi e
questa compotatio pontificia; anzi,
l’arcidiacono, insieme con la schola
vi eseguiva un canto greco in onore della Pasqua, con un brindisi finale in
onore del Papa. L’assemblea si scioglieva quando già il sole volgeva al
tramonto; allora i cardinali, seguiti dai proprii chierici, tornavano a
celebrare i Vespri nei loro rispettivi titoli, ove, emulando la generosità
papale, invitavano nuovamente il clero a gustare il vino delle loro cantine.
Santa gioia e libertà cristiana, troppo naturale in un ambiente ove la fede era
il ritmo di tutta la vita sociale dei popoli; ove la liturgia dettava le norme,
ed era insieme l’espressione della gioia e del dolore di tutta la famiglia
cristiana.» Cfr. I. Schuster, Liber Sacramentorum, Torino, Marietti,
vol. IV, pagg. 21 e s.
[56] Cfr. M. Andrieu, Les Ordines Romani du
haut Moyen Age, op. cit. vol. III,
pag. 477 all’82. Sull’evoluzione di tale rito nell’Urbe rimandiamo a: A. Cuva, I Vespri Pasquali Battesimali nella Liturgia Romana, op. cit. pagg.
101 e ss.
[57] Cfr. M.
Righetti, Manuale di Storia Liturgica, Milano, Ancora, 19643,
vol. II, pag. 286.
[58] Cfr. Antiquissimi Vesperarum Paschalium
Ritus expositio, Roma, Palearini, 1780, pagg. LXI e ss. Sulle stationes
urbane medievali esiste una bibliografia vasta, qui ci limitiamo alla menzione
di alcuni titoli: C.B. Piazza, Eoterologio
ovvero le Sacre Stazioni Romane e Feste Mobili, Roma, Aureli, 1858; F.X. Barbier de Montault, Les
Stations et Dimanches de Carême a Rome, Roma, Spithoever, 1865; I.
Schuster, Le Sacre Stazioni Quaresimali secondo l’ordine del Messale
Romano, Roma, Poliglotta Vaticana, 1915; P. LUGANO, La visita alle Sacre
Stazioni Romane, Città del Vaticano, Libreria Vaticana, 19422;
H. SUCHOCKA, Le chiese stazionali di Roma, Città del Vaticano, Libreria
Editrice Vaticana, 2013.
[59] Cfr. Breviarium
Romanum, op. cit. pag. 362. La particolare conclusione del Vespero si
riscontra in tutta l’Ottava pasquale. A tale configurazione forse si giunse
anche per influsso dei francescani che adottarono ed adattarono il Breviario
della curia romana, così S. Bäumer,
Histoire du Bréviaire, trad. francese
R. Biron, Parigi, Leouzey et Ané, 1905, II, pag. 28. L’Autore considera il
Vespero anticamente in uso nella Mater
omnium Ecclesiarum come qualcosa di profondamente romano e gregoriano
(ivi).
[60] Elencare sopravvivenze e relative
peculiarità degli usi locali, oltre ad essere estremamente arduo, esula dagli
scopi di questo scritto, tuttavia sarà utile suggerire una sommaria e
certamente non esaustiva traccia bibliografica. Per quanto attiene la Francia,
connotata fino al XIX secolo dalla complessa varietà degli usi “neo gallicani”:
S. De Moleon [P. Le Brun des Marettes], Voyages
Liturgiques de France, Parigi, Delaune, 1718; p.e. a Vienne e Rouen (pag.
29), a Besançon (pag. 155), a Reims (pag. 177). Per altri riti locali: A. King, Liturgies of Primatial Sees, Bonn, Nova et Vetera, 2005 (anast.),
in particolare per l’uso della diocesi portoghese di Braga (pag. 98) e Lione
(pag. 105). Per la particolare importanza dell’uso lionese, spesso testimone
degli usi romani più arcaici (cfr. L.
Buenner, L’Ancienne Liturgie
Romaine. Le Rite Lyonnais, Parigi, Vitte, 1934) si veda lo sviluppo di tale
officiatura in Céremonial de la Sainte
Église de Lyon, Lione, Perisse, 1838, pagg. 500 e ss. Per la notazione dei
brani: Vesperal de Lyon, Lione,
Pélagaud, 1846, pagg. 256 e ss. L’uso di Parigi si trova in Breviarium
Parisiense, Parigi, Bibliopolæ, 1778, Pars Verna, pagg. 338 e ss. Nella
capitale francese l’uso sopravvisse anche successivamente all’abbandono dei
libri dell’uso parigino e si attesta anche nel Novecento, cfr. Offices
propres du Diocèse de Paris, Parigi, Desclée, 1926, pagg. 1* e ss. (il
volume contiene tutto il Vespero con notazione gregoriana). Per quanto riguarda
gli Ordini religiosi va notato che caratteristiche di “stazionalità” del
Vespero pasquale sono più rare anche perché, generalmente, le chiese
conventuali non erano dotate del fonte battesimale. Presso i canonici regolari
premostratensi, come attesta il loro Breviario, vi era il costume di iniziare i
Vesperi di Pasqua con il Kýrie e di
compiere una processione nella navata (cfr. Breviarium
Præmonstratense, Malines, Dessain,
1953, Pars Verna, pagg. 467 e ss. e, anche con la notazione, in Graduale ad usum Canonici Præmostratensis
Ordinis, Tournai, Desclée, 1910, pagg. 327 e ss. Il volume raccoglie, oltre
le Messe, anche l’Ufficio divino del triduo della Settimana Santa e di Pasqua,
come fa rimando anche l’antifonale dell’Ordine). Ancora sull’uso
premostratense: A. King, Liturgies of Religious Orders, Bonn,
Nova et Vetera, 2005 (anast.), pag. 191 e s. Qui l’Autore si sofferma anche su
analogo costume poi abbandonato, in età post tridentina, presso l’Ordine
domenicano (pagg. 351 e s.) e l’uso dell’Ordine carmelitano (pag. 250 e s.).
Ancora sui carmelitani cfr. Breviarium
Ordinis Fratrum Beatissimæ Virginis Mariæ de Monte Carmelo, Tournai,
Desclée, 1938, Pars Verna, pag. 484 e s. (qui intendiamo i carmelitani di
“antica osservanza”, vulgo “calzati”;
i carmelitani scalzi, invece, adottarono, dopo il Concilio di Trento, i libri
liturgici romani).
[61] «[…] Diligentissime, ubi viget, servetur
particularis traditio celebrandi, die Paschæ, eas Vesperas baptismales, in
quibus, dum cantantur psalmi fit processio ad fontes.» in Institutio Generalis de Liturgia Horarum, Caput IV (“De variis
celebrationibus per anni circulum”) al 213, in Liturgia Horarum (editio typica), Città del Vaticano, Polyglottis
Vaticanis, 1973 (quinta reimpressio), I, pag. 77.
[62] Cfr. A.
Cuva, I Vespri Pasquali
Battesimali nella Liturgia Romana, op. cit. pagg. 113 e ss.
[63] Cfr. I.
Schuster, Liber Sacramentorum,
vol. IV, op. cit. pag. 20.
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