Prælegendum.
Nel marzo del 2022, nell'ambito della collaborazione con il settimanale della diocesi di Trieste, scrissi qualche annotazione storica sulla presenza del monachesimo benedettino a Trieste soffermandomi soprattutto sul monastero femminile di San Cipriano (potete scaricare l'articolo da qui). L'antica struttura monastica, come evidenzio nell'articolo, è stata abbandonata dalle monache nel 2012 ed oggi i locali sono stati parzialmente trasformati e ridotti ad altri utilizzi. La chiesa è da allora chiusa. Va ricordato che essa ben si presta a triste esempio dello scempio liturgico postconciliare: già il coro, un tempo pensile e situato sopra l'ingresso, fu trasferito negli anni Ottanta del Novecento ai lati del presbiterio con conseguente spostamento della sacrestia in un ambiente collocato a sinistra nel fondo dell'edificio, ma ciò che colpisce è la bruttura inflitta a quello che era un tempo un armonioso e ben strutturato presbiterio. Qui la mensa dell'altare maggiore è stata tagliata ed asportata con conseguente applicazione dell'esuberante fastigio marmoreo sulla parete della struttura. Nel centro del presbiterio, su una struttura metallica, è stato eretto il monumento alla pochezza del pensiero dei riformatori ossia l' "altare" (?) per la celebrazione del culto riformato. Ciò che mi auguro di cuore è che prima o poi la crisi economica porti a vendere questa chiesa a qualche realtà tradizionale (anche se verosimilmente piuttosto la demolirebbero a suon di esplosivo) e che possa essere riportata ai pristini splendori a beneficio dei triestini e dei visitatori.
Francesco G. Tolloi
francesco.tolloi@gmail.com
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Interno della chiesa di San Cipriano prima dei maldestri ed infelici interventi degli anni Ottanta del Novecento. (a parte quei due leggii mobili tutto va ancora bene...) |
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Il tentativo di delineare un
quadro storico dei primi e più antichi insediamenti monastici nella nostra
città, come ricorda Giuseppe Cuscito, risente pesantemente della penuria di
fonti, non di meno si riescono ad individuare alcune tracce della presenza
monastica benedettina nel contesto della diocesi di Trieste .
Come attestano gli atti del Sinodo di Cividale del 796, San Paolino, patriarca
di Aquileia, si era prodigato nell’organizzazione della vita monastica in seno
alla sua provincia ecclesiastica, avendo potuto personalmente rendersi conto,
alla corte di Carlo Magno, della fervida vitalità e versatile potenzialità del
monachesimo benedettino. Questo dinamismo fu indirizzato nell’evangelizzazione
delle genti slave geograficamente più vicine: cenobi come quello che esisteva a
San Giovanni del Timavo (Duino, arcidiocesi di Gorizia), «insigne
per reliquie di santi e martiri, per fama dell’Abbazia dei Benedettini» , verosimilmente
furono centri in cui si formarono religiosi destinati a tale azione missionaria.
Ma il periodo delle invasioni ungare della prima metà del X secolo turbò intimamente
e segnò profondamente anche le comunità benedettine. Dopo le concitate
circostanze, la presenza monastica rifiorì tra molte difficoltà e ridefinì i
suoi connotati e con essi la sua funzione socio economica. Da allora si privilegiarono
aspetti come la ricolonizzazione delle campagne e la rivitalizzazione delle
realtà rurali sotto il profilo dell’assistenza spirituale e pastorale, legando
spesso le realtà plebanali alle fondazioni monastiche. Ciò lo si avvertì in
modo più netto nel vicino Friuli e tale impronta fu destinata a diventare un
tratto caratteristico, mantenutosi per lunghi secoli, in un sistema di rapporti
e di immunità accettato e garantito
dall’autorità centrale. Per fare un esempio la badessa del Monastero,
nell’omonima località nei pressi di Aquileia, anticamente nominava il parroco
della vicina Cervignano, consegnandogli l’anello parrocale. Se in Istria si
attesta l’antica presenza benedettina a Pola (abbazie del Canneto e di San
Michele in Monte), a Orsera con San Michele di Leme, fondata dallo stesso San
Romualdo (che diede origine al ramo dei camaldolesi), San Lorenzo in Daila, a
Capodistria (monastero di San Nicolò), nella città di Trieste il vescovo
Artuico nel 1115 dona ai monaci benedettini di San Giorgio Maggiore (Venezia) la
già esistente chiesa dei Santi Martiri all’ omonima via. È la prima
testimonianza di una presenza benedettina nella città di Trieste. Il monastero
si mantenne fino al 1736, quando i benedettini, mercè soprattutto le infelici condizioni
economiche, lo cedettero all’Imperatore. In seguito la chiesa del monastero fu
soppressa, dunque trasformata in magazzino ed infine, nel 1839, abbattuta .
Proprio nell’ambito del complesso dei Santi Martiri, già variamente
distribuito, poco più di quarant’anni dopo la vendita, giunsero i monaci
Mechitaristi armeni che provenivano da Venezia, mossi da recenti attriti con il
governo veneto. Essi, fondati nei primi anni del Settecento da Mechitar
(Mxithar) Pietro di Sïvas, con l’approvazione ottenuta da papa Clemente XI,
avevano adottato proprio la regola di San Benedetto. Tali religiosi celebravano
la liturgia con il rito armeno e costituivano il riferimento anche per altri
cattolici appartenenti ad altre realtà orientali, come alcuni greci e maroniti,
che allora dimoravano a Trieste attirati dalle prospettive del Porto Franco .
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Facciata ed interno della chiesa del monastero di San Cipriano |
L’unica presenza benedettina rimasta in diocesi sino ai nostri giorni è quella delle
monache che attualmente sono insediate nella località di Prosecco, alle spalle
di Trieste, nel monastero di San Cipriano inaugurato nel 2012. Esse sono giunte
sull’altopiano dal monastero omonimo spiccato sulle pendici del Colle di San
Giusto, tra la Cattedrale ed il Santuario di Santa Maria Maggiore. In questa
sede – mantenuta poi per sei lunghi secoli (salvo brevissimi periodi) - erano
giunte, dopo un complesso peregrinare, nel 1426: vari guasti derivanti da
avverse congiunture economiche, guerre e terremoti, avevano compromesso il
cenobio originario situato nel Caboro (tra la Cattedrale e il bastione
rotondo del castello). Nell’area sorgevano alcune abitazioni, appartenenti alla
nobile famiglia dei Bonomo, nonché due chiese, una dedicata a San Martino (non
più riconoscibile) e l’altra, consacrata i primi anni del XIV secolo, intitolata
a San Cipriano, destinata a dare il titolo al monastero. Questa chiesa, di
proprietà del Capitolo della Cattedrale, utilizzata per alcune celebrazioni
corali, fu poi ceduta alle monache attorno la metà del Quattrocento. Papa Pio
II, Enea Silvio Piccolomini già vescovo di Trieste, la incorporò al monastero
esentandola da qualsiasi imposizione .
Non è certo quando le benedettine, prima insediate nel Caboro e poi nel
complesso di San Cipriano, siano giunte a Trieste: in particolare non è chiaro
se esse derivino dalle clarisse, già presenti dal 1282 (Santa Maria della
Cella), che poi avrebbero abbracciato la regola di San Benedetto, oppure se si
trattava di due realtà monastiche femminili distinte, una delle quali destinata
poi, nel tempo, a scomparire .
Anche se si tratta di un monastero urbano, quel legame con le realtà rurali, di
cui si era fatto cenno, si evidenzia e concretizza nel diritto di nominare, dal
1475, il curato di San Giovanni nella località di Lonche (Loka, Slovenia), alle
sorgenti del Risano, il quale, a sua volta, era tenuto a corrispondere alle
monache di San Cipriano un contributo annuo. Ancora all’insegna dei rapporti
tra urbanità e ruralità, è interessante e significativo il legame del monastero
con la località di Santa Croce. Negli anni Sessanta del XV secolo il monastero
divenne l’unico proprietario della villa di Santa Croce: una metà la
ricevettero per il lascito testamentario del vicario generale della diocesi il
canonico Pietro da Vrem, l’altra metà la acquistarono da Pietro Pellegrini,
cittadino di Trieste. Innanzi alla situazione declinatasi e alle obiezioni
mosse dal Comune di Trieste, l’Imperatore Federico III, nel 1478, riconobbe
alle monache il diritto temporale di nomina del supano (borgomastro) della
villa. Altri furono i possedimenti del monastero sia sul colle di San Giusto
che sul Monte Berze, in questo caso si trattava di poderi situati tra
Sant’Antonio in Bosco e San Giuseppe della Chiusa (comune di Dolina) e ancora a
Draga, la chiesetta di Santa Maria in Siaris, così come avevano contratti di
affittanza presso le saline di Zaule ecc. ed altri rapporti enfiteutici. Nel
1510, l’Imperatore Massimiliano I affidò il patrocinio e la difesa del
monastero al Capitano civico. Alcuni disordini interni alla comunità acuitisi
fino alla contestazione della badessa portarono, alla metà del Cinquecento, ad
un inasprimento della clausura, nel 1569 il monastero venne ascritto alla
Congregazione Cassinense, ulteriori provvedimenti per perfezionare la clausura ad
mentem dei dettami del Concilio tridentino e per regolare i rapporti
economici furono presi durante la visita canonica del vescovo Ursino de’Bertis
nel 1599 .
Il monastero di San Cipriano potè
scampare alle riforme e soppressioni giuseppine: per volontà del sovrano solo
le realtà religiose dedite alla carità e alla cura degli infermi potevano,
sotto l’egida statale, restare attive. Le monache triestine, dallo scioglimento
ed allontanamento dei gesuiti, avevano affiancato la loro vita contemplativa con
l’educazione scolastica. Già alcuni anni prima dell’inizio delle soppressioni
dei conventi avevano istituito un educandato, di carattere privato, per le
fanciulle. Al fine di garantirsi l’esistenza nel 1783, le benedettine
accettarono di aprire una scuola femminile sotto il controllo statale. Per
provvedere alla copertura economica l’Imperatore Giuseppe II assegnò loro beni
e rendite del monastero delle consorelle d’abito di Aquileia che era stato
chiuso l’anno precedente e l’anno successivo si recò personalmente in visita al
convento e alla scuola, sistemata mediante l’adattamento di alcuni spazi del
monastero e della chiesa di San Martino del complesso conventuale. La scuola
del monastero, affiancata da un preparandio femminile, proseguirà le sue
attività sino al 1969, nonostante nel 1872, nel tentativo di “laicizzare”
l’istruzione della gioventù, la municipalità le sottrasse il patrocinio
pubblico. I lunghi secoli di vita del monastero di San Cipriano mostrano dunque
un pieno inserimento nel tessuto socio religioso triestino ed un grande
prestigio civico che emerge anche dalla cronotassi delle badesse e dalla lista
delle professe in cui spesso si distinguono i nomi più prestigiosi della città (Petazzi,
Bonomo, Burlo, Rapicio ecc.) ma anche dei territori limitrofi dell’Istria e del
goriziano storico (Strassoldo, Frangipane, Altan, Dornberg, Torriani, Edling
ecc.). Durante la storica visita di San Giovanni Paolo II nella Regione Friuli
Venezia Giulia del 1992, il Santo Padre alloggiò proprio nella foresteria del
monastero di San Cipriano.
La chiesa di San Cipriano,
rimaneggiata più volte nel corso dei secoli, si affaccia su un cortiletto nel
quale si staglia la facciata a capanna dell’edificio. Essa è ritmata da lesene
nella parte superiore, ove si aprono due finestre, al di sotto delle quali sono
situate due nicchie con statue dei Santi Benedetto e Cipriano, mentre nella
parte centrale si trova un affresco (l’Immacolata tra le Sante Patrone
benedettine). La parte sottostante è dominata da un portico a tre arcate chiuso
da cancellata in ferro battuto. L’interno è strutturato ad unica navata e
racchiude tre altari di gusto nettamente rococò. L’altare di sinistra è
dedicato al Crocifisso, la mensa bombata è sovrastata da una pala attribuita al
pennello del capodistriano Giorgio Vincenti che raffigura Cristo in croce tra
Maria e Giovanni venerato da San Cipriano. L’opera fu donata al monastero dal
vescovo Pietro Bonomo nel 1525.
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Altare del Crocifisso con la pala di Giorgio Vincenti (foto aTrieste) |
L’altare di destra è dedicato alla Madonna del
Rosario. L’altare maggiore è chiuso, ai suoi estremi laterali dalle statue di
due angeli, la mensa presenta un elaborato cartiglio centrale con spighe e
grappoli, con un insieme particolarmente efficace giuocato su felici
accostamenti di marmi policromi. La parte sovrastante appare dominata dall’agile
esuberanza del tabernacolo foggiato a cipolla, fatto ricostruire totalmente a
fine Settecento dalla baronessa Marenzi. Sul fondo dell’abside è situata una
tela di Palma il Giovane che raffigura l’Incoronazione della Vergine al centro.
Nella parte superiore è dipinta la Trinità ed in quella inferiore i Santi
Benedetto, Cipriano e Scolastica. Sulle pareti laterali del presbiterio trovano
posto due tele di gusto barocco (Discesa dello Spirito Santo ed Ultima Cena).
Il soffitto è dominato dal dipinto della Risurrezione dipinto a metà Ottocento
da Luigi Castro e Giuseppe Zucco, i guasti di un bombardamento del 1944 lo
distrussero, ma venne rifatto dal triestino Mario Lannes quindici anni dopo .
Fedeli al precetto del fondatore,
sinteticamente riassunto nel celebre motto Ora et labora, una volta
dismessa l’attività scolastica, le monache benedettine si sono dedicate
all’attività di conservazione e restauro del libro antico, un ambito nel quale,
ancora oggi, sono estremamente rinomate ed apprezzate. Ma molti tra i triestini
hanno ancora scolpito indelebile nella memoria il ricordo della ruota
presso la portineria del monastero. Questa ruota, vero e proprio diaframma tra
il secolo e la clausura, mossa dalla mano invisibile di una monaca, serviva a
portare all’esterno del monastero una bevanda o del cibo caldo a chi, bisognoso
o in difficoltà, tirava la cordicella della campana che richiamava la religiosa
a questo gesto di carità.
Francesco G. Tolloi
francesco.tolloi@gmail.com
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