Trattandosi di un contributo piuttosto corposo e dotato di un corpo di note abbondante anche per consentire un'agevole stampa, da qui sarà possibile effettuare il download in formato pdf.
Praelegendum.
Alla fine della Quaresima del 2014, mi trovavo a ultimare una traduzione della celebre conferenza di monsignor Léon Gromier sulla riforma, avvenuta in epoca pacelliana, dei riti della settimana santa. Il mio lavoro non si limitò a una mera traduzione ma allora decisi di formulare alcune considerazioni ed alcuni auspici in una introduzione, nonché di corredare di un apparato di note il testo della citata conferenza. Pubblicai il tutto sul sito del Collegium Divi Marci. A distanza di quattro anni qualcosa è cambiato: la Pontificia Commissione Ecclesia Dei ha permesso - a certe condizioni e "ad experimentum"- la forma precedente la riforma piana. Allora come oggi ritengo utilissimo il testo di Gromier. Per cause di natura tecnica il sito sul quale pubblicai il lavoro nel 2014 non è accessibile. Questo motivo, unitamente a varie richieste che mi sono giunte per mezzo di amici o con i social, mi suggeriscono di renderlo nuovamente fruibile (anche se si riusciva a reperire nella rete una versione stampabile integrale ed era anche leggibile su alcuni siti web che lo avevano ripreso). Lascio immutato il tutto: sono stati corretti solo dei riferimenti temporali e aggiornato il titolo di Giovanni XXIII allora beato ed oggi santo. Il recente permesso - che non ha mancato di suscitare polemiche sulle quali intendo a breve proporre qualche riflessione - andrebbe in parte ad obbligarmi a una revisione dell'Introduzione che però lascio intatta anche perché testimonia che alcuni semplici voti di allora sono stati, almeno in parte, esauditi.
Introduzione.
Nel
luglio del 1960, a Parigi, monsignor Léon Gromier - canonico della basilica
vaticana e consultore della Sacra Congregazione dei Riti – teneva una
conferenza laddove esponeva con nitore le sue perplessità circa la settimana
santa “restaurata” a un lustro dalla sua
entrata in vigore [1].
Già pochi anni prima Gromier si era fatto conoscere per il suo modo schietto e
preciso, per la sua ricerca di principi causa-effetto nelle cerimonie del rito
romano, con la pubblicazione della sua opera più corposa dedicata al commento
del Caeremoniale episcoporum [2]. Probabilmente è proprio
nell’introduzione di quest’opera che sono da ricercarsi alcuni tratti
caratteristici che riteniamo utili per
meglio inquadrare e comprendere la serrata critica dell’Autore alla settimana
santa pacelliana:
- L’esistenza di una intensa pressione esercitata da una scuola di
pensiero che, sotto il pretesto della comprensione e partecipazione, consente e
promuove riforme che trascendono i princìpi;
- La consapevolezza che il rito romano è frutto di un lento processo
di stratificazione che ha portato anche la necessaria selezione di quanto
“tradito”;
- La ferma sicurezza che vi siano principi logici intrinseci sottesi
alle cerimonie del rito romano che vanno a costituire un complicato ingranaggio
il quale consente al meccanismo di funzionare, un meccanismo che Gromier cerca
sempre di mettere nella dovuta evidenza;
- Le riforme sono spesso tappe di una riforma più incisiva e pegno
per riforme ulteriori.
Che
la settimana santa del 1955 muova da criteri squisitamente pastorali è
dichiarato nello stesso decreto generale Maxima
Redemptionis [3]
del 1955 che promulga il nuovo Ordo, e – ancora con maggiore enfasi e
conseguente nitore – nell’istruzione per la sua attuazione pratica [4]. Eminenti commentatori,
come il cardinale Giacomo Lercaro, confermano detta impostazione, affermando -
senza mezzi termini - che “La preoccupazione pastorale determinò dunque la
riforma e ne fu il criterio fondamentale […]” [5] ciò in modo da rendere i
riti, in cui si commemorano e si celebrano le più importanti verità della fede,
più fruibili (orario) e partecipabili (semplicità). Purtroppo un atteggiamento
autoreferenziale comportò, senza dubbio, una certa indifferente trascuratezza
verso i principi e la coerenza, attentando (come vedremo) anche a usi
antichissimi e venerabili, formulando in modo malfermo, impreciso e talvolta
contraddittorio le rubriche, spesso riformando per il mero gusto di riformare e
porre premesse per riforme a venire. Questa è la “pastorale” che Gromier
stigmatizza, una pastorale che inverte il principio per la quale essa deriva e
si impernia sui principi della liturgia e non pretende piuttosto di formarli [6].
Vedremo
come, il prelato francese, non manchi di chiamare in causa gli autori di queste
riforme – che chiama i pastoraux [7]– evidenziando le loro
lacune e mostrando come spesso si sono posti in imbarazzanti situazioni di
autocontraddizione. Tale situazione si inquadra in una precisa fase del “movimento
liturgico” che - formalizzata la sua
costituzione nel 1909 al congresso di Malines - passa dall’anelito di favorire
la “pietà liturgica” imperniando la devozione alla liturgia, al voler prendere
le redini e porsi alla testa di un moto riformistico [8].
La
settimana santa nella sua forma “tradizionale” è senza dubbio uno scrigno che
serba i tratti più arcaici – e se vogliamo caratteristici - del rito romano,
che mostra, a chi si sofferma con sguardo attento, rispettoso e scevro di
pregiudizio, testimonianze di un’antichità particolarmente remota e il lento
stratificarsi dei secoli. Questo è il portato della Tradizione; i pastorali,
secondo Gromier, non hanno prestato il dovuto ossequio a questa realtà finendo
per ritenerla sacrificabile. La tradizione aveva portato inevitabilmente allo
stratificarsi e contestualmente a una selezione e conseguente decadimento di
determinati usi; nella riforma si denota, invece, uno zelo connotato da
filologismo archeologicizzante votato al recupero di elementi il più possibile
arcaici il tutto teso a una elaborazione astratta che supporti l’indirizzo
pastoralistico della liturgia.
I
riti nella loro vulgata che qui
abbiamo già chiamato “tradizionale” hanno dei procedimenti logici interni.
Questa logica costituisce un paradigma che è sotteso al funzionamento globale e ne costituisce la
garanzia. A un’azione corrisponde un’altra: ad esempio se il giovedì santo –
una volta terminata la messa – si reca con una solenne processione il
Santissimo Sacramento all’altare della reposizione, una criteriata logica così
strutturata vorrebbe che il venerdì fosse riportato con altrettanta solennità
all’altare maggiore e non con un breve tragitto, percorso quasi alla
chetichella dal diacono come vedremo.
Parecchi
dettagli della settimana santa restaurata cozzano con l’impianto rubricale del
messale in vigore all’epoca della sua promulgazione [9]. Questi dettagli
confliggenti spesso sono appunto premessa di riforme successive. Sempre a
titolo di esempio non potremo fare a meno di notare – a questo proposito - la
proibizione, rivolta al celebrante, di leggere le parti proclamate dai
ministri; esso confligge con la prassi normata per il resto dell’anno liturgico
dal messale: la conflittualità viene risolta solo dalle rubriche del Missale Romanum nella sua edizione (VII typica) promulgata da san Giovanni XXIII [10].
Proprio per fare maggiore chiarezza abbiamo ritenuto di segnalare tali
differenze in nota.
Gromier,
seguendo un principio enunciato sempre nel suo Commentaire, non correda di proposito i suoi scritti con note: con
una disinvoltura figlia di una robusta e rigorosa formazione alla “scienza
liturgica” egli si destreggia tra norme e usi romani, autori, costumi della
cappella papale restituendo, ai suoi lettori, riflessioni a tutto tondo e
decisamente fuori dal comune; chi vorrà confutarlo dovrà adoperarsi da par suo
a raccogliere argomentazione scientifica di segno contrario [11]. Lungi dal voler
confutare questo erudito, brillante e facondo prelato, ho cercato di
corredare il suo commento di note e riferimenti bibliografici: un tanto – oltre
la comodità per il lettore di avere i riferimenti agevolmente sott’occhio
- al precipuo scopo di stimolare
ulteriori approfondite ricerche di cui
mai si dirà abbastanza circa l’utilità.
Più di cinquant’anni sono trascorsi dall’introduzione della settimana santa
“restaurata”: grazie a Gromier sarà più facile capire la reale portata di
queste riforme i cui esiti successivi sono sotto gli occhi di tutti, lo spirito
sotteso ci viene svelato e con esso una chiave di lettura saggia ed aderente
alla realtà ci viene fornita: indubbiamente – avendo sotto gli occhi lo stato
finale della riforma – non si potrà fare a meno di provare ammirazione per lo
sguardo lungimirante, lucido e profondamente realistico di questo prelato che
verga i suoi scritti in un periodo storico in cui già si intravedono le ombre
proiettate dal tramonto di un’epoca. Forse grazie a scritti come questo si
potrà scongiurare quella semplicistica ed estremamente fuorviante tentazione
per cui si ravvisa uno status quo
liturgico successivo il Concilio Ecumenico Vaticano II opposto a una situazione
precedente sovente idealizzata: la riforma veniva da lontano come Gromier aveva
ben compreso; la struttura portante di un complesso edificio era stata
compromessa ed esso iniziava a vacillare. Non è questa sicuramente la sede per
trattare esaustivamente la riforma della settimana santa degli anni Cinquanta
dello scorso secolo e questo non è nelle mie intenzioni; mi limito,
piuttosto, a individuare cronologicamente e schematizzare tre momenti “istituzionali“
che stimo essenziali, collocati
prossimamente alla riforma della settimana santa, mentre colloco questa in
una fase della storia liturgica della riforma che ha avuto inizio nel 1948 e si è
compiuta nel 1975. In questo non mi discosto dal pensiero di monsignor
Annibale Bugnini che sicuramente giocò un ruolo di primo piano nella
pianificazione e attuazione delle riforme [12] e che proprio quelle
della settimana santa ebbe a presentare,
sotto il profilo storico assieme a p. Carlo Braga [13].
- 1948. È l’anno dell’insediamento della commissione per la riforma
liturgica affiancata alla storica Sacra Congregazione dei Riti.
- 1951. Introduzione facultative
et ad experimentum del nuovo Ordo
del sabato santo [14]. Si fa strada il
principio della veritas horarum; la
veglia pasquale viene ridotta e rimaneggiata introducendo elementi che saranno
poi estesi al resto della settimana santa e quindi all’intero anno liturgico.
- 1953. Promulgazione della Costituzione Apostolica Christus Dominus [15]. Essa sancisce l’introduzione
delle messe vespertine, con conseguente modifica della legge sul digiuno
eucaristico dalla mezzanotte. È la modificazione di un costume millenario che
accomunava oriente ed occidente.
Durante
il pontificato di papa Benedetto XVI, per volontà diretta ed esplicita del
pontefice (in linea con il suo predecessore), si è inteso ridare cittadinanza
all’antica liturgia; certo il motu
proprio parla dell’edizione del 1962 del Missale romanum e degli altri libri liturgici (es. il breviario)
allora in vigore. È evidente trattarsi di una norma all’insegna del miglior
favore e liberalità; è sostenibile vi sia nella mens del legislatore l’intento di consentire libertà ed agio alla
liturgia tradizionale. Sarebbe auspicabile un fecondo dibattito mondato da
logiche pregiudiziali e fortemente limitate alla liceità o meno delle
celebrazioni tradizionali o peggio ancora gravate da ragioni estrinseche quali
l’ “opportunità politico-diplomatica” delle stesse.
Se
è vero che l’interesse per quella che spesso si denomina “liturgia tridentina”
ha avuto in questi anni un certo incremento, è proprio alla luce di questo che
la riflessione deve assumere contorni
seri e ci si deve interrogare su quale sia il “rito tradizionale”; il problema
non sono tanto le riforme ma la logica sottesa alle riforme e sicuramente quelle promosse dalla
Commissione insediata nel 1948 non rispondono a logiche “tradizionali”, laddove
qui con l’aggettivo “tradizionali” intendo fedeli al portato dei secoli e
sviluppatesi attraverso uno sviluppo organico e coerente e non piegato,
indirizzato e persino plasmato da istanze estrinseche (pastoralismo) [16]. Gromier ampiamente dimostra che la settimana santa restaurata è figlia di una nuova concezione
della liturgia, una concezione appunto pastorale: anche e soprattutto per
questo non è “tradizionale”. Davvero difficile poter dimostrare il contrario.
La settimana santa restaurata va quindi letta per quello che vuole essere,
ossia una tappa verso una riforma generale, una riforma nella quale essa si
presenta come sperimentale proprio perché superata da riforme successive nelle
quali non si può mancare di vedere passi indietro, riforme che ne evidenziano
determinati aspetti allora appena annunciati. È indiscutibile che essa fu il
laboratorio laddove si determinarono i criteri della riforma generale, o – se
vogliamo – una vera e propria palestra laddove ci si esercitava in vista di uno
sforzo più grande e totalizzante.
Un
sano dibattito dovrebbe essere naturale latore di approfondimenti: questo non
potrebbe che essere positivo per tutti coloro i quali, chierici e laici, si
sentono legati all’antica liturgia romana. Questo amore, che si traduce in un
così forte legame che è riuscito persino a muovere provvedimenti di favore da
parte della sede apostolica, non deve e non può limitarsi a una semplice
concezione estetica caricata dalla emozionalità derivante dall’opzione
linguistica o da suggestione che muove da una certa foggia di paramenti e
scelte musicali: ciò comporterebbe la fissazione di un canone estetico da
contrapporre alla modernità, sarebbe davvero poco. Questo amore deve tradursi
in piena consapevolezza che non può che raggiungersi se non attraverso un
cammino di ricerca e progressiva conoscenza, un cammino che certamente muove su
sentieri irti, ripidi e tortuosi, un cammino difficile, quindi, e non privo di
ostacoli ma nel quale il lungimirante Gromier può aiutarci come guida esperta e
sicura tenendoci robustamente per mano e suggerendoci gli stimoli migliori.
Francesco
G. Tolloi
La
Settimana Santa restaurata fu in primo luogo una questione di orario. Si
trattava di rimettere in uso la veglia pasquale fondata sul dogma pastorale
della Resurrezione a mezzanotte in punto. Questo dogma non si sostiene
facilmente; quindi perché sottostarvi quando le messe vespertine – nella
pratica – consentono la celebrazione a tutte le ore del giorno e della notte,
anche dopo il canto dei vesperi; quando la messa conventuale si celebra
indifferentemente dopo terza o sesta o nona? Altra opposizione, le regole del
culto hanno per fondamento, oltre il corso del sole, la disciplina del digiuno
la quale si è fortemente mitigata; da questo ne consegue che l’edificio
restaurato ha l’aspetto di un castello di carte. Lo zelo pastorale si è
spiegato, muovendo dal sabato, punto culminante, a tutta la settimana a partire
dalle palme.
Domenica delle Palme tradizionale: distribuzione dei rami al trono. |
L’anticipazione
progressiva dei tre ultimi giorni, quindi la destinazione alla sera originaria
apre un dibattito. Il decreto generale in preambolo afferma che, verso la fine
del medioevo, si anticipò al mattino le solennità summenzionate. La bolla di
san Pio V – Ad cujus notitiam del 29
marzo 1566 - dunque 113 anni dopo la fine del medioevo, proibisce lo si faccia
ancora, per indulto o per consuetudine, nelle chiese cattedrali, collegiate,
conventuali e altre, ossia [si vieta di] celebrare, la sera o verso il
tramonto, il sabato santo o le altre solennità [17]. Il fine è evidente, la
pastorale deve restaurare, riparare i danni; più gravi sono maggiormente ben
venuto sarà il restauro; Dio sa se il restauro da fare prima di tutto il resto
non era l’abolizione della bolla di san Pio V, lasciando ai vescovi la libertà
tanto auspicata, di scegliere l’ora pomeridiana più proficua per gli uffici
della Settimana Santa: permettendo pure - a chi lo volesse - di fare la comunione
la quale era stata abolita per il timore non si fosse più digiuni alle ore
pomeridiane ove il celebrante la facesse ancora.
La
sua terminologia merita attenzione; poiché un apologeta, patentato per il
resto, qui ci lascia nell’oscurità. Fino ad oggi si conosceva la domenica di
Passione, la domenica delle Palme, il lunedì, martedì e mercoledì della
Settimana Santa, il Giovedì Santo – in Coena
Domini in latino – il Venerdì Santo, in
Parasceve in latino e il Sabato Santo. Poiché si vuole amplificare la
solennità della processione delle Palme, perché mettere questa domenica in
dipendenza della Passione; e non lasciare il suo vecchio nome di “domenica
delle Palme” che tutti capiscono e non confonde nessuno? Se il Sabato Santo si
chiama così, il venerdì può ben chiamarsi allo stesso modo, presso tutti i
cristiani del mondo. Saranno presto 2000 anni che lo chiamiamo in Parasceve; basta il nome a
significarne l’antichità. Allora perché sostituirlo con “Passione e Morte del
Signore”; locuzione inutile, non tradizionale e sconosciuta al canone della
messa? Secondo lo stile ecclesiastico “passione” significa sofferenza sino alla
morte inclusa. Se il sostantivo “morte”
fosse così necessario, il buon senso avrebbe voluto fosse aggiunto alla parola
“passione” nel titolo del vangelo: Passio
D.N.J.C. chiamata ora “narrazione della Passione”.
L’occasione
permette di esaminare la capacità giuridica della pastorale. Non è sufficiente
parlare di una cosa per crearla. Ufficio in
choro vuol dire un luogo liturgico ove degli ecclesiastici si comportano
seguendo delle regole liturgiche. Ufficio in
communi non designa né luogo né persone; è un gruppo di persone riunite
senza mandato, senza entità giuridica i quali gradiscono dire collettivamente
l’ufficio privato. Il breviario distingue in
choro ed extra chorum; non ci
sono mezzi termini [18].
Che
i vesperi del giovedì e del venerdì santo siano omessi, soppressi, fa
raggiungere il colmo dell’arbitrio, soprattutto quando si dà questo motivo: la
messa prende il posto del vespro perché questa è la principale [19]. Ora, tra messa e vesperi
non c’è alcuna rivalità; i vesperi hanno la stessa importanza delle altre
funzioni liturgiche. Secondo i tempi e i luoghi, i vesperi sono stati
accorciati dopo la messa del sabato; essi lo furono anche dopo la messa del
giovedì e del venerdì; mai si pensò di abolirli. L’orario ristabilito dai
pastorali si accorda pienamente con l’evento storico, ossia digiuno sino ai
vesperi che sono preceduti dalla messa e dalla comunione. I vesperi del sabato
sono nel pomeriggio, prima della messa che è notturna; ma quale ragione per
vietare i vesperi del giovedì e del venerdì dopo la messa che non è notturna
per definizione? Il sabato santo senza compieta è inspiegabile [20]; il giovedì e venerdì
santo, con compieta ma senza vesperi sfida l’argomentazione, poiché se ci si
corica tardi non di meno tale momento esige la sua preghiera.
Per
qualificare la processione delle Palme, la funzione del venerdì santo e la
veglia pasquale, i pastorali
impiegano l’aggettivo “solenne” [21], mentre nel frattempo lo
privano per il resto. Ora, la solennità delle funzioni liturgiche non è una
decorazione facoltativa; essa segue la natura delle funzioni; risulta di tutti
gli elementi costitutivi, non solo di alcuno di questi. Tutti i manuali spiegano
quali sono le funzioni solenni e le non solenni. Fuori di questo una sedicente
solennità non è che un apparato amplificatore per impressionare e colpire. È
necessario sapere che, per abitudine piuttosto recente, si fa un uso prodigioso
della parola “solenne” anche per degli atti necessariamente solenni,
inseparabili dalla solennità. Si spendono delle parole credendo di conferire
maggiore solennità alla processione delle Palme rispetto quella della
Candelora, più di solennità alla processione del giovedì santo rispetto a
quella del venerdì (abolita, come vedremo). Sempre di questa stessa tendenza
apprendiamo che la Passione del venerdì santo è cantata “solennemente”
come se potesse essere in altro modo.
Degna
di ammirazione è la potenza dei pastorali
che si manifesta mediante l’annullamento dello sfortunato e triste canone 1252
§ 4 relativo al digiuno del sabato santo[22].
In
questo giorno asseriscono che, sotto il simbolo del cero pasquale, è
rappresentato il nostro Redentore, luce del mondo, che – per mezzo della sua
luce – ha disperso le tenebre dei nostri peccati ecc.[23] Questo è stato circondato
da un alone di mistero senza rischiare la spiegazione. Oggi si vuole mettere i
puntini sulle “i” suscitando non poca incertezza. I differenti tempi e luoghi
riportano un coacervo caotico di riti per cui si rende necessario cercare il
filo conduttore. Come seguito del primitivo lucernario, il fuoco prodotto, sia
serbato in un nascondiglio, sia scaturito dai raggi del sole per mezzo di una
lente, sia trasmesso mediante un accendino, accende un mezzo di illuminazione
per la notte pasquale; è il cero pasquale, accompagnato dalla proclamazione del
mistero pasquale. La presenza simultanea e storica di due ceri pasquali non
quadra assolutamente con le tesi dei pastorali.
L’accensione del cero è un atto primario di necessità contro l’oscurità;
ugualmente, se deve evocare il Cristo vivente, è fortemente in anticipo, supera
troppo l’annuncio della Resurrezione. L’enfasi profusa dai pastorali per il
cero lo fa assomigliare più a un fine che a un mezzo. Un tempo ritenuto
benedetto ed anche consacrato secondo gli autori, oggi benedetto, il cero
pasquale diviene un oggetto che si situa in uno stato mediano tra una croce, un
evangeliario e una reliquia. Tutto questo lo vedremo meglio quando giungeremo
al giorno del sabato santo.
Durante
tutta la settimana santa, tutti i testi cantati dal diacono, il suddiacono e i
cantori sono omessi dal celebrante che non deve leggerli [24]. Poco importa di come
cantino gli officianti (spesso male), se essi si facciano udire e comprendere,
se i diffusori acustici sono chiari. Si deve ascoltare! Ecco una vittoria. Ci
si delizia quasi di un ritorno all’antichità, un pegno per il futuro, una
pregustazione delle riforme che ci saranno. Questo può essere d’interesse per i
fedeli abituati a servirsi di un libro, con il naso nel loro messalino, che si
isolano dalla comunità, sic! Si
distingue la lettura solamente oculare e la lettura labiale. La lettura labale
di ciò che un altro canta non è sostenibile. Ma la lettura oculare, invece, è
sostenibile; essa ha una età rispettabile; ebbe inizio per necessità, continuò
per utilità, resa degna di onore; essa fa parte dell’assistenza pontificale del
Papa e del Vescovo [25].
Per
nulla dimenticare, apprendiamo che è “solenne” anche l’altare della reposizione
del giovedì santo; ciò non è mai stato detto nel messale meglio redatto di
certe rubriche.. Costoro esprimono due desideri e una proibizione: il clero
terrà in mano le candele accese durante il canto dell’Exultet e, in seguito, durante un dialogo tra celebrante e fedeli
che precede la messa [26]. Un divieto di tenere i
rami durante il canto del passio. [27] In totale essi prentedono
di creare due obblighi per due novità, aboliscono una prassi antica che fonda
la sua spiegazione in sant’Agostino (omelia al Mattutino prima delle Palme [28]): “ le palme sono inni di
lode che significano la vittoria poiché il Signore era sul punto di vincere la
morte morendo e di riportare un trionfo sul diavolo attraverso il trofeo della
sua croce”.
La
vigilia di Pentecoste non ha più nulla di battesimale, è diventata un giorno
come un altro, facendo mentire il messale nel canone [29]. Questa viglia era un
vicino imbarazzante, un rivale temibile [30]. La posterità istruita
sarà probabilmente più severa di quanto non lo sia l’opinione attuale a
riguardo dei pastorali.
Volenti
o nolenti, la comunione del clero, auspicata alla messa del giovedì santo, sarà
sempre in conflitto con il permessi dati di celebrare la messa privata.
I
pastorali invocano il Cristo Re in rinforzo della loro solenne processione
delle Palme; come se si attendesse loro per perfezionare una situazione alla
quale l’autore del Gloria laus et honor
aveva provveduto a sufficienza, ma non a loro modo. Certi ritocchi alla
tradizione che invocano anche altrove, sono tanto piccoli quanto audaci.
L’aspersione
con l’acqua benedetta è un rito pasquale diventato domenicale. La Domenica
delle Palme non è meno “domenicale” delle altre. Quando la Candelora cade una
Domenica essa non impedisce l’aspersione. Quest’ultima non è mai costituita
nello schizzare dell’acqua su una tavola situata in un luogo e recante i rami e
altri oggetti. Essa consiste nell’aspergere l’altare, il celebrante, il clero,
la chiesa e i fedeli. Fatta eccezione per il vescovo, e salvo impossibilità, il
luogo proprio delle benedizioni – come della consacrazione – è l’altare o se il
caso le sue vicinanze, come ad esempio la credenza.
Nel
corso dei secoli la consacrazione degli olii si faceva all’altare, prima di
farla su di un tavolo come oggi, e non in
conspectu populi. Che hanno qui i pastorali
da mostrare al popolo, proprio loro che da sovrabbondante che era la
benedizione delle palme l’hanno ridotta all’osso? Un’orazione, un segno di
croce, uno schizzo di acqua benedetta e un’incensazione; spettacolo poco
attraente [31].
Essi che sopprimono l’aspersione domenicale [32], vero danno liturgico,
volentieri ammettono che il celebrante percorra la chiesa per aspergere i rami
sorretti dai fedeli e quindi rifaccia lo stesso percorso per incensarli [33].
Un
pastorale, professore presso un seminario elvetico, affermò un giorno che il
rosso è il colore del trionfo. Si dovrebbe rispondergli che si sbaglia di
grosso visto che il bianco sarà il colore della Pasqua, dell’Ascensione, del Corpus Domini. Ma non appena dirsi che a
farsi, il colore per le palme sarà il rosso, restando il viola per la messa.
Non tutti pensano come il professore. Il rito romano usa il viola da quando lo
si adopera. Il rito parigino e quello di numerose diocesi adoperavano il nero
fino alla metà del XIX secolo [34]. Qualche rito fa uso del
rosso per le palme [benedizione e processione] e per la messa [35]. Gli uni insistono sul
lutto gli altri sul sacrificio cruento. Ma ciascuno conserva il suo colore: a
nessuno è venuta l’idea di cambiare [36]. Tutto l’ufficio della
domenica delle palme è un insieme di brani di trionfo e di passione. Da
mattutino a vespero e ricomprendendo la messa si constata che il numero
dei brani di passione sorpassano di poco
quello dei brani di trionfo. Quando due cose sono così mescolate, non è opportuna nessuna separazione. Il
professore svizzero ha ritenuto di chiarirsi imitando il ragionevole
cambiamento di colori che si fa alla candelora [37]; ma la sua imitazione non
è che una infelice succursale della moderna festa di Cristo Re. Leggiamo che la
distribuzione dei rami si fa secondo gli usi [38]. Non spiaccia ai
pastorali che, prima degli usi, ci sono delle regole da osservare. Come il
celebrante – se non è l’unico sacerdote – riceve le ceneri e la sua candela dalle
mani del più degno del clero, così deve ricevere il suo ramo [39]. Da questo dei rubricisti
si sono chiesti se i pastorali non volessero che il celebrante non porti il
ramo in processione dal momento che rappresenta Cristo che appunto non lo
porta. L’ipotesi, del tutto logica, avrebbe portato a far salire il celebrante
sul dorso di un’asina. Fortunatamente la pastorale si è fermata consentendo il
ramo dimenticato.
Essa
[la pastorale] che ha ridotto ai minimi termini la benedizione dei rami [40], non ha mancato di
prolungare la distribuzione, considerata la sovrabbondanza di canti destinata a
questa azione. Mentre la lunghezza della benedizione sembra enorme, questa
pletora aggiunta sembra non soddisfare i bisogni.
Il
portatore ordinario della croce in processione è il suddiacono, tutte le volte
che il celebrante non ha bisogno di lui, portando il Santissimo Sacramento o
per i fonti battesimali [la benedizione dei fonti]. Un suddiacono supplementare
che funge da crocifero non ha ragione d’essere se non quando il suddiacono è
impedito come sopra [41].
Per
due settimane, la croce dell’altare resta velata [42]; anche se coperta dal
velo la si incensa e la si riverisce con la genuflessione o con l’inchino
profondo. È vietato rimuovere il velo per qualsiasi motivo. Per contro la croce
astile, succedanea della croce dell’altare, si porta scoperta in processione;
in questo modo alla partenza e al ritorno di questa si vedono due croci una
scoperta e l’altra velata. Che possiamo evincere da questo?
Domenica delle Palme tradizionale: il canto del Gloria laus |
Il
disordine aumenta al ritorno della processione. Andare incontro a una
personalità, accompagnarla alle porte della città che sono chiuse, fermarsi per
onorarla e acclamarla, infine aprire solennemente le porte in suo onore è stata
sempre una delle forme più grandi di omaggio possibili; ma essa non conviene al
genio creativo dei pastorali [43].
Non
possiamo che definire vandalico il fatto di strappare il Gloria laus et honor dal suo posto alla porta della chiesa [44], per mescolarlo a tutta
la messe musicale processionale pressoché triplicata di lunghezza; risparmio e
spreco di tempo vanno di pari passo.
Pertanto
non ci si ferma più innanzi alla porta, prima chiusa poi aperta, la croce
processionale scoperta per magnificarla, la si degrada privandola del potere di
far aprire la porta. Tutto ciò a dispetto del cerimoniale antico e moderno, ma
con quale vantaggio? Le rubriche pastorali prediligono la formulazione: “nulla
impedisce che”, “nihil impedidit quonimus”. Qui servono per sciogliere la
briglia ai fedeli che potranno cantare l’inno Christus vincit o altro canto in onore di Cristo Re [45]. Una tolleranza che avrà
le sue conseguenze; i fedeli muovono le pedine del clero, hanno la scelta dei
canti e della lingua; se cantano a Cristo Re desidereranno cantare a sua madre
che è regina. Altrettanti desideri, degli auspici eminentemente pastorali.
La
rubrica romana diceva: quando la processione entra nella chiesa si canta Ingrediente Domino [46], la rubrica pastorale dice:
quando la processione entre nella chiesa, al momento in cui il celebrante varca
la soglia, si canta Ingrediente Domino [47]. Non si tiene in alcuna
considerazione la porta al ritorno della processione, ora si vigila il
passaggio della porta da parte del celebrante che sembra identificarsi con
Cristo che entra in Gerusalemme.
Domenica delle Palme tradizionale: processione (S. Anselmo, Roma). |
Domenica delle Palme tradizionale: il card. Bourne alla processione (Westminster) |
Domenica delle Palme tradizionale: apertura della porta dopo il Gloria Laus (Roma, Basilica Vaticana). |
Tra
la processione e la messa ci si arricchisce di un’ orazione finale e
riepilogativa, con modalità difettose; il celebrante non ha bisogno di salire
l’altare, per di più voltandogli la schiena, per cantare un’orazione e scendere
immediatamente [48].
Abbiamo visto questo dopo la processione delle rogazioni [49]? Infine in questo caso,
tenere il libro innanzi al celebrante compete al diacono e al suddiacono, non a
un chierico.
Un
tempo si chiamava Passio il canto
evangelico della Passione e vangelo la fine della Passione cantata al modo del
Vangelo. Oggi le due parti riunite si chiamano “narrazione della Passione” o
anche “Vangelo della Passione e della morte”. Un simile progresso pastorale
vale la pena! Le pianete piegate sono una delle caratteristiche tra le più
antiche del rito romano; esse risalgono all’epoca in cui tutto il clero portava
la pianeta, furono serbate per i giorni di più austera penitenza. Il loro
abbandono fa mentire i dipinti delle catacombe; è una perdita immensa, un
oltraggio alla storia e all’economia liturgica. Un sotto relatore dei pastorali, ha dato questa spiegazione
proporzionata al danno: non si trovano facilmente le pianete piegate. Semmai è
vero il contrario; ovunque si reperiscono delle pianete viola che posso essere
piegate, viceversa le dalmatiche viola sono meno diffuse. Inoltre si ha sempre
la possibilità di ministrare con il camice [50].
Domenica delle Palme restaurata: benedizione dei diaconi prima del Passio. |
I
pastorali amano sopprimere qualcosa all’inizio o alla fine della messa. I loro
tagli, oltre quei pochi istanti che fanno guadagnare, sono piuttosto
insignificanti; ma essi servono loro da trampolini per nuovi balzi in avanti
nel loro percorso riformatore. Così quindi né il salmo Judica me né la confessione prima della messa delle Palme [51] e del sabato santo [52] perché preceduti da altra
cerimonia; ma si vorrà altrettanto alla messa della Candelora, delle Ceneri [53], una messa di matrimonio,
di funerale, una messa preceduta dalla comunione. Dall’inizio passiamo alla
fine. Alle Palme, al giovedì e al sabato santo, l’indesiderabile ultimo vangelo
è omesso [54];
perfetto, ma in forza di quale principio? Al giovedì santo la benedizione è
omessa perché la cerimonia non è ancora terminata [55]; si vorrà altrettanto per
il Corpus Domini, e ogni messa cui fa
seguito una processione con il Santissimo Sacramento [56].
Quando
si introdusse l’uso di far cantare la Passione dialogata da tre diaconi
supplementari, piuttosto in forma di lezione che in forma di vangelo, si è
riservata la fine della Passione per essere cantata, sotto forma di vangelo,
dal diacono del celebrante al fine di non cadere nell’assurdità del diacono che
non canta il vangelo. I tre diaconi cominciavano e terminavano la Passione
senza cerimonie, come alle lezioni; per contro, il solo diacono, faceva le
cerimonie abituali del vangelo. Ciò è logico e trae origine dalla cappella
papale [57]. Così il diacono è
esautorato dai tre della Passione; quello che si fa per il vangelo, il Munda cor meum e la benedizione prima del vangelo, passa prima del Passio; [58] incensazione del libro,
bacio del libro e incensazione del celebrante spariscono. Questi tre atti
soccombono alla mentalità pastorale; poiché per essa non c’è il vangelo, c’è
solamente una narrazione, la narrazione della Passione; quindi in mancanza di
vangelo, non c’è evangeliario; conseguentemente non si incensa il libro della
narrazione, non lo si fa baciare, quindi non si incensa chi non lo ha baciato
[il celebrante] [59].
Continuiamo
a discettare. I libri della passione-vangelo giungono come possono; non se ne
parlerà che il venerdì santo [60]. I pastorali ignorano come
si porti l’evangelario; perché si debbano aver tre accoliti che accompagnano
invece che due; che il diacono inginocchiato per dire il Munda cor meum non deve chinarsi [61]; ci ripetono a sazietà
che la passione-vangelo è cantata o letta [62]. D’altra parte tutte le
loro rubriche sono redatte in modo da far credere che, a piacimento, si possa
leggere in un ufficio cantato e cantare in un ufficio letto, si può scegliere
ciò che si vuole cantare e tralasciare ciò che non si vuole farlo, si possono
fare degli uffici per metà cantati e per metà letti, si può amalgamare canto e
lettura. Questo è uno dei flagelli temibili di questo momento, assieme a quello
della lingua vernacola. Non è poi tanto una novità e riceve anche un appoggio
nella decisione presa in questi ultimi anni che, nelle ordinazioni cantate, il
vescovo ordinante interrompe il canto dei prefazi per dire senza cantare le
parole essenziali; perché, sembrerebbe, il canto nuocia all’attenzione
richiesta [63].
La
Passione secondo i quattro evangelisti ricomprendeva l’istituizione
dell’Eucarestia, sia perché essa serve da introduzione, sia perché essa non può
trovare migliore posto che nella messa. I pastorali la pensano diversamente ed
espungono l’istituzione dell’Eucarestia. Di conseguenza questa è del tutto
esclusa dalla liturgia delle Chiesa romana, senza dubbio per maggiore
istruzione dei fedeli [64].
L’omissione
dei salmo Miserere alla fine delle
ore allevia il povero clero e gli sfortunati fedeli. Questo salmo poteva
restare solamente dopo le lodi e i vesperi o anche solamente in coro o anche
solo facoltativo. I pastorali avranno letto con profitto ciò che il cardinale
Wiseman, primo arcivescovo di Westminster, scrisse a proposito del canto di
questo salmo all’ufficio delle tenebre nella cappella papale [65].
Mercoledì Santo tradizionale in cattedrale: ufficio delle tenebre |
La
Missa Chrismatis - messa pontificale
celebrata con ventisei ministri parati che richiama la concelebrazione [66]- celebrata senza alcun
rapporto con il digiuno, nella quale non è permesso distribuire la comunione [67], costituisce un curioso
problema di difficile soluzione. Il suo prefazio proprio, sul tono feriale, si
colloca tra le altre curiosità.
Nel
rito romano l’impiego della stola è limitato da regole; nessuno può portarla
senza motivo; essa si mette solo al momento in cui è prevista, né prima né dopo;
essa è un paramento sacro, non ha relazione alcuna con l’abito corale, sia per
un individuo che che per un corpo di clero [68]. I sacerdoti non hanno
diritto di portarla durante una messa nella quale si comunicano e durante la messa d’ordinazione ove impongono
le mani [la si mette solo nei precisi momenti della comunione e
dell’imposizione delle mani]. Affermando il contrario, i pastorali, abusano
della loro immeritata libertà.
Alla
messa del giovedì santo il celebrante principia solennemente il Gloria in excelsis; come potrebbe
iniziarlo diversamente [69]? Qui troviamo una
trasposizione, se non di grande importanza, almeno di grande significato
pastorale. Sino ad oggi, dopo il canto della Passione del venerdì santo, la
liturgia dava spazio a un’omelia sulla Passione; ci si muoveva a compassione
per il Cristo morto in croce, prima di adorare e l’uno e l’altra [70]. Ora questo non è più in
questione, non se ne parla più. Per contro è fortemente raccomandata un’omelia
dopo il vangelo del giovedì santo poiché ci si meraviglia di Cristo che lava i
piedi [71].
Giovedì santo tradizionale: comunione. |
Dai
documenti antichi appare che la messa non fu mai né luogo né momento per il Mandatum. Questo era separato,
generalmente seguito da un pasto per il clero. Il re o l’imperatore
partecipavano al Mandatum e non alla
messa [72]. Il Caeremoniale episcoporum colloca il Mandatum in opportuno ambiente, o nella sala capitolare, o in
chiesa ma non in coro [73]. Il Messale non precisa
alcun luogo e non prevede né coro né altare [74]. Dal momento che la
riconciliazione dei penitenti si teneva nella navata [75], il buon senso non poteva
ammettere nel coro degli uomini del laicato. I pastorali vogliono il Mandatum nella messa e solamente lo
tollerano al di fuori di essa [76]; realizzano la difficoltà
che si possa lavare dei piedi a dei chierici effettivi o che li suppliscono.
Giovedì santo tradizionale: lavanda dei piedi (Mandatum). |
Giovedì santo tradizionale in Cattedrale: lavanda dei piedi (Mandatum). |
Giovedì santo: l'imperatore compie il Mandatum. |
Un’osservazione
circa la distribuzione dei ruoli è opportuna. Il diacono e il suddiacono sono
incaricati di introdurre in coro i dodici uomini scelti [77] (non più tredici[78]) quindi di
riaccompagnarli al posto che avevano in precedenza. Tale servizio è proprio di
un addetto della chiesa o un sacrestano; ma esprime bene la mentalità pastorale
pregna di una demagogia poco confacente al clero. Ci fu un tempo in cui i
candidati alla lavanda dei piedi erano portati da uomini idonei a forza di
braccia al cospetto del papa seduto per lavar loro i piedi. I pastorali, non
osando a spinegere a questo punto la “carità fraterna“, si accontentano
d’impiegare il diacono e il suddiacono a introdurre i candidati laici nel coro
per poi accompagnarli fuori. Certi rimpiangeranno l’antico uso segnalato
mediante il quale non solamente lo sport, ma anche l’attività sociale e
pastorale del clero ne trarrebbe giovamento.
Incontriamo
un grosso ostacolo senza possibilità di dissimulazione. A mezzo del decreto del
4 dicembre 1952 la Sacra Congregazione dei Riti censurò come sconveniente che
il vescovo si calzi e si scalzi, indossando e togliendo calzari e scarpe
pontificali, in chiesa; per conseguenza proibì un tale utilizzo delle calzature
liturgiche, che oggi devono essere messe al di fuori della chiesa, malgrado le
regole fino ad ora in vigore [79]. Questo decreto è
eccessivamente discutibibile poiché si basa sull’inesattezza, attribuendo al Caeremoniale episcoporum delle cose che
questo non ha mai riportato [80]. Non lo discutiamo e ci
limitiamo alla proibizione che ne deriva. Il vescovo, fuori dalla messa,
indossa i calzari e le scarpe pontificali su gambe e piedi non denudati dal
momento che sono ricoperti dalle calze [le calze “ordinarie” prelatizie]. Queste
calzature sono indumenti sacri, tanto quanto una mitria e delle chiroteche,
benedetti, ricevuti allo stesso momento dell’episcopato, accompagnati dalla
preghiera, adoperati con tutta la possibile decenza; una prassi esistente da
secoli. Al contrario dodici uomini nel coro, durante la messa, si scalzano,
mettono a nudo il loro piede destro e si calzano prima di ritirarsi; la prassi
è una moderna invenzione. In sintesi dodici piedi nudi sono meno sconvenienti
dei due del vescovo calzati, senza tenere conto delle altre differenze.
Costume dei poveri per la lavanda dei piedi papale. |
Giovedì santo tradizionale: lavanda dei piedi (Roma, S. Paolo fuori le mura) |
La
preoccupazione di eliminare la parola pax
dalla messa del giovedì santo, perché non si dà il bacio di pace [81], si stende a una
orazione, al Confiteor, [82] ecc…al bacio della mano
del vescovo [83],
all’Ite Missa est, alla benedizione e
all’ultimo vangelo [84]. Ma non si sa se essi [i
pastorali] tollerano gli altri baci - della mano e dell’oggetto - dal momento
che potevano proscriverli così meccanicamente. La scienza dei pastorali non è
ancora al punto di distinguere il bacio
della mano per il bacio dell’anello.
Il
risparmio di un Confiteor alla
comunione del giovedì santo, ossia uno scambio che prende il Confiteor celato detto privatamente dal
celebrante all’inizio della messa, che prende il luogo del Confiteor collettivo, cantato dal diacono prima della comunione,
possiamo dire che è tirato per i capelli. La sottigliezza dello scambio non
basta a mascherare l’enorme diversità dei due impieghi del Confiteor. Troppa finezza può nuocere [85].
La
partenza e l’arrivo della processione all’altare della reposizione danno una
prova patente dell’abilità cerimoniale dei pastorali. Partendo, il celebrante,
prende la pisside con l’aiuto del diacono [86] e, maldestramente,
all’arrivo la depone con o senza l’aiuto del diacono [87]e male ugualmente. Le
riforme esigono da parte di quelli che le fanno una preparazione che molti non
hanno. Dalla domenica delle Palme si è senza notizie circa la croce
processionale e quella dell’altare. Saranno scoperte o velate, e di che colore?
Nessuno sa nulla.
Giovedì santo tradizionale: san Pio da Pietralcina porta il calice con l'ostia consacrata al sepolcro. |
Il
culto del venerdì santo comporta comunione senza messa, tutto aveva
esteriormente le grandi linee della messa. Questo culto, chiamato messa dei
presantificati, fu anticamente mutuato dal rito romano presso gli orientali tra
i quali è ancora in vigore e ne fanno ampio uso [88]. La messa dei
presantificati aveva così da chi legittimarsi e da cosa, tanto più se si
osserva che il rito romano ebbe, nel corso dei secoli, una vera e propria
parodia, la messa secca [89]. Nonostante questo, un
grido d’allarme rieccheggiò tra i pastorali; si trattava di una condanna a
morte. L’allarme fu lanciato da un abate benedettino belga che scrisse: “La
cerimonia del venerdì santo ha assunto delle sembianze con la messa
insopportabili”. C’era abbastanza per i pastorali. Con un accanimento degno di
miglior fine hanno completato questo programma: escludere degli elementi
profondamente romani, adottarne altri estranei, riprendere degli elementi
romani minori e desueti, escludere tutto ciò che può – da vicino o da lontano –
far pensare a una messa… Su questo punto la loro idea fissa arieggiava sul
detto Delenda est Carthago. La messa
dei presantificati ha dovuto soccombere tra l’incomprensione, è stata vittima
di una congiura. Il dizionario liturgico del 1844 edito da Migne diceva: “Il
rito romano, per quanto concerne l’adorazione della croce, ci appare ben più
grave ed edificante dei riti delle diverse diocesi di Francia” [90]. Stando alle indicazioni
dei pastorali tutta intera la loro costruzione diventa un esercizio di pietà
denominata “Singolare e solenne azione liturgica per la passione e morte del
Signore”; azione che, malgrado le definizioni, non risulta nobilitata.
Venerdì santo tradizionale: la prostrazione. |
Il
Pontificale romano ci insegna che non si saluta un nuovo altare prima di aver
collocato la sua croce [91]. Poiché non si saluta
l’altare di per sé stesso, ma per la croce che lo sovrasta e alla quale si
indirizzano tutte le orazioni. Ci fu un tempo in cui si portavano la croce e i
candelieri arrivando all’altare e si riportavano ritirandosi. Questo, al
momento attuale, non è consentito; altrettanto
tenerlo permanentemente scoperto. È per questo che mi rivolgo ai pastorali: “La
domenica delle Palme avete tolto il velo alla croce processionale con il
pretesto di magnificarla; il venerdì santo è velata, la togliete dall’altare e
la situate in sacrestia [92] per andare in seguito a
prenderla; come spiegate tale contraddizione?”. Nega qualsiasi genio creativo
ed organizzatore. Infine notiamo che la croce sull’altare richiama una messa.
I
pastorali dividono la solenne azione in quattro parti sottotitolate, delle
quali la seconda e la terza sono solenni, mentre la prima e la quarta no [93]. Questi dosaggi sono
tanto sapienti ed ammirabili che i loro autori.
Le
pianete non sono in discussione, conferirebbero un senso di messa. Il povero
celebrante deve allora accontentarsi di stare in camice, come in una chiesa di
campagna, nonostante la solennità tanto proclamata; è un affronto che il rito
romano gli avrebbe risparmiato.
L’altare
senza croce, se gli spetta sempre di essere baciato, di per sé stesso non ha il
diritto di essere salutato e ancora meno di essere pregato, poiché non è
l’altare che si invoca. Nel rito romano quando ci si trova in ginocchio, o
quando si fa la genuflessione doppia e ci si deve inchinare, l’inchino è
mediocre e non profondo. Questa regola antica è stata confermata anche circa
mezzo secolo fa. Ci si spaventa nel vedere la liturgia influenzata da due
poteri, o solamente due diversi indirizzi che si ignorano reciprocamente.
I
pastorali arricchiscono il venerdì santo di un’orazione d’introduzione e tre
orazioni di conclusione; accorciano con una mano e con l’altra allungano,
detenendo il monopolio del giusto mezzo; vedremo che essi sono presi tra due
fuochi, o, se vogliamo, sono presi nella loro stessa rete. Il celebrante canta
l’orazione d’introduzione ai piedi dell’altare perché non sale che per le
grandi orazioni [94].
All’altare il celebrante non tiene le mani allargate se non quando è in pianeta
durante la messa, e che, Delenda est
Carthago, le mani allargate devono lasciare il posto alle mani giunte, ma
la pastorale abdica. Ci si chiede perché la seconda lezione che sta al posto
dell’epistola è cantata dal suddiacono [95], visto che il nome di
messa è rigettato e che il diacono non canta il vangelo.
Con
i pastorali i tre diaconi dicono il Munda
cor meum e chiedono la benedizione, questo alle Palme; il venerdì santo i
tre non dicono il Munda cor meum, e
non domandano la benedizione ma vanno innanzi il celebrante che indirizza loro,
a voce alta, un augurio. Fino ad ora il Munda
cor meum ha sempre preceduto il vangelo, alle quattro passioni. Gli stessi
pastorali l’hanno conservato prima del loro vangelo-narrazione della Passione;
ma lo hanno escluso il venerdì, perché? Può darsi che in quel giorno, per loro,
la Passione è meno un vangelo che una narrazione. La perdita del Munda cor meum è supplita da
un’acquisizione: una formula benaugurale laddove il vangelo non è menzionato [96]. Per di più, il
celebrante quando dà la benedizione parla a media
voce, ma dicendo la formula parla clara
voce; [97]
la nuova formula è senza dubbio migliore dell’antica. Infine i tre diaconi
della Passione che si inginocchiano per chiedere e ricevere la benedizione, non
hanno motivo di chinarsi per udire l’augurio del celebrante [98]; non ci si china per
rispondere al Dominus vobiscum.
Qui
cominicia il secondo momento della vestizione, seguita da altre due, quattro in
tutto. È la punizione dei puritani che incolpano il rito romano di cambiare
troppo spesso i paramenti. I pastorali mitigano il loro pregiudizio contro la
messa facendo parare il celebrante e facendolo salire all’altare. Tuttavia,
senza capitolare, gli fanno indossare un piviale; lo collocano nel mezzo
dell’altare, non dal lato dell’epistola; con i ministri ai suoi lati, non
dietro a lui, gli fanno tenere le mani allargate nonostante il piviale [99].
Venerdì santo restaurato: le orazioni solenni. |
Ci
si occupa di più delle dimensioni della croce che delle sue caratteristiche;
una croce-reliquiario, il legno della vera croce non gli interessa; a dispetto
dell’origine del rito [100]. Si conosce male il rito
romano e non lo si comprende. È stato copiato altrove il trasporto della croce
dalla sacrestia all’altare ove manca , ove essa ha il suo posto fisso, che ci
sia o non ci sia la messa. Tenere la croce velata non significa nasconderla,
relegarla nella sacrestia, privando l’altare dove essa deve troneggiare, più di
sempre, questo venerdì. Sappia la pastorale che il velo deve coprire tutta la
croce e non solamente il crocifisso; poiché si ostende la croce principalmente.
Altre
novità ci attendono. Nozione dei pastorali sulle processioni: il diacono tra
due candelieri riporta la croce esiliata in sacrestia, è una processione; i
fedeli sfilano per adorare la croce, è una processione; il diacono tra due
candelieri porta dall’altare della reposizione il Santissimo Sacramento, non è
una processione. Capisca chi può. Non si sono usate le candele prima [il
giovedì santo alla reposizione] per il trasporto del Santissimo Sacramento, del
quale la croce non è gelosa; ora i pastorali usano le candele per la croce [101]. Risulta, tra le altre
cose, che il celebrante, scoprendo la croce, si trova in mezzo a quattro
persone; molte per poco spazio [102]! La croce portata dal
diacono quindi scoperta dal celebrante, è ormai lasciata alle mani di due
accoliti [103], ai quali non compete,
specie all’altare laddove non hanno mai posto.
Giustamente
da secoli, si è voluto, più che la croce, adorare il corpo di Cristo, giacente
sulla sua croce distesa. Ecco perché veniva distesa su un tappeto, un cuscino,
un velo bianco e viola che fungeva da sudario [104]. Questo è superato
dall’intuizione dei pastorali che fanno tenere in piedi un morto sorreggendolo
per le braccia [105]. Essi hanno ugualmente
scartato l’ostensione-adorazione della croce, che non è una esaltazione,
mettendola a disposizione di adoratori che si prostrano. Non meno miscompresa
l’adorazione della croce, essa si faceva come quella dovuta al papa, mediante
tre genuflessioni distanziate, prima di baciare la croce o il piede; fatto
salvo che - questo venerdì - le tre genuflessioni furono cambiate in tre
inginocchiamenti di adorazione. È proprio passando per il papa che la
genuflessione è entrata nel rito romano.
Allo
scoprimento della croce, dopo ciascuno dei tre Ecce lignum crucis, si legava l’azione all’invito, ci si
inginocchiava, e si adorava rispondendo Venite
adoremus. L’orazione silenziosa aveva luogo durante i tre inginocchiamenti
che precedevano il bacio. Il genio pastorale trasferisce l’adorazione
silenziosa dei tre inginocchiamenti distrutti, spostandola dopo ciascun Venite adoremus. [106] In tale modo si fa
perdere tempo piuttosto che guadagnarlo; ciò si ripete mandando gli adoratori
uno ad uno anziché a coppie [107]. Probabilmente credono,
e non è il solo caso, che il canto nuoccia all’adorazione, all’attenzione, al
raccoglimento.
Il
problema dell’adorazione collettiva della croce era da lungo tempo stato
risolto attraverso l’impiego di più croci, sia presentate al bacio dei fedeli,
sia esposte alla loro adorazione in più luoghi [108]. Dopo la sua adorazione
la croce dell’altare riprende il suo posto normale, visto che era stata portata
dalla sacrestia. Il suo ritorno dà luogo ad una strana rubrica [109].
Venerdì santo tradizionale: adorazione della croce. |
Venerdì santo tradizionale in cattedrale: adorazione della croce. |
Venerdì santo tradizionale in cattedrale: adorazione della croce. |
Venerdì santo: San Giovanni XXIII adora la croce nel modo tradizionale. |
Quindi
si cambia colore [110]. Il bianco e il nero
sono i due colori originari del rito romano, ma i pastorali preferiscono al
nero il viola, colore più recente. Essi che rinforzano il lutto del venerdì
santo chiamandolo giorno della morte del Signore, rifiutano il nero colore
della morte. Loro che distrussero la messa dei presantificati, che fino ad ora
hanno messo un piviale nero al celebrante, gli mettono una pianeta viola, non
mettono nulla ai ministri e ora li parano con le dalmatiche, ci si può
contraddire più grossolanamente? Se i pastorali ravvisano un disaccordo tra la
comunione e il colore nero avrebbero dovuto tenere conto che la messa dei morti
si dice in nero, si dà la comunione, anche con ostie consacrate
precedentemente, si dà la comunone in nero sia prima che dopo la messa in nero.
Chiedo
ai pastorali: perché ritenete opportuno e sentite il bisogno di mettere una
pianeta al celebrante solo per dare la comunione? La sua distribuzione non ha
mai previsto la pianeta fuori dalla messa. Voi sterminate la messa dei
presantificati [111], eliminate con
ostinazione ogni dettaglio che possa ricordarla e voi vi permettete di fare
indossare una pianeta al celebrante, quando voi stessi la rifiutate ai suoi ministri. Nulla
giustifica il celebrante a essere parato per il quarto atto della vostra
rappresentazione altrettanto è da voi lasciato spogliato, solo in camice, per
il vostro primo atto. I vostri poteri discrezionali sono vasti; non di meno lo
è l’abuso.
La
processione del giovedì santo, istituita definitivamente da Sisto IV (+ 1484),
e quella del venerdì santo, istituita da Giovanni XXII (+ 1334), quindi dalla
stessa autorità, hanno stesso oggetto, stesso scopo, stessa solennità, salvo
che la prima ha una caratterizzazione festiva, la seconda una connotazione
luttuosa. Dunque perché abolirne una e serbare l’altra? [112] L’arrivo del Santissimo
Sacramento è accompagnato dal canto di tre antifone in onore della croce [113], al posto del Vexilla regis d’identico tema, ma senza
dubbio non pastorale.
Dappertutto
nel rito romano il celebrante canta da solo il Pater noster, sia intero, sia il suo principio e la sua fine, con la parte in mezzo a voce bassa. La miglior prova è che -
coloro che assistono - non avendo detto nulla, rispondono sed libera nos. Tuttavia la pastorale deve riformare, ed ecco il
bilancio dei suoi risultati: il Pater
noster recitato invece che cantato; recitato in un ufficio cantato; funesta
mescolanza di rito latino e orientale; recitato solennemente (sic) ma spogliato dalla solennità del
canto; recitato a mani giunte mentre il Libera
nos è recitato a mani allargate [114]. Spiegazione patetica
seguendo la quale si fa così essendo il Pater
preghiera di comunione da recitare tutti assieme. Scaturiscono due domande:
durante questo venerdì il Pater è più
adatto alla comunione che gli altri giorni dell’anno? Il Pater è più adatto alla comunione delle altre orazioni che la
precedono?
Allo
stesso livello si trova naturalmente la redazione delle rubriche. Così leggiamo
che il celebrante prende un’ostia con la mano destra [115]; quindi si percuoterà il
petto con la mano sinistra? Non si sa se la mano sinistra sia da appoggiare sul
corporale o sulla pisside. Leggiamo che, battendosi il petto, sta - in luogo di
stare mediocremente chinato – parum
iniclinatus, il celebrante si china profondamente [116]; postura impedita
dall’altezza dell’altare.
È
mancanza di rispetto alla liturgia e al celebrante sopprimere il calice con la
grande ostia [117];
una piccola lo sminuisce. Un tempo il calice serviva da pisside e può
continuare a farlo. Ci furono dei tempi e dei luoghi ove la comunione del
venerdì si faceva con le due specie conservate, quindi con il calice; prezioso
ricordo da conservare [118]. Il calice serviva alla
purificazione del celebrante e apriva la via a quella del clero; rito
venerabile non abolito; non si mangia senza bere [119]. Tutto ciò imitava la
messa, non ingannava nessuno, non si opponeva alla comunione generale; poco
importa.
La
pastorale introduce tre postcommunii, che il celebrante canta a mani giunte, in mezzo all’altare, tra i
suoi ministri, durante i quali si sta in piedi [120]. Altra curiosità: a
compieta i ceri sono spenti [121]; quindi la croce, dopo
il suo scoprimento, può fare a meno dei lumi; perché allora si portano prima
che che essa sia scoperta e durante l’adorazione? Gioco di compensazione; si dà
alla croce dei lumi che non aveva; si toglie l’incensazione che spettava al
Santissimo Sacramento, alla Croce e all’altare [122].
La
Chiesa geme e piange durante i tre giorni che il Signore giace nel sepolcro;
durante questi tre giorni di funerali del Cristo morto, tutte le ore
dell’ufficio terminavano con l’orazione Respice
quaesumus, che è giustamente l’orazione super
populum del mercoledì santo. I pastorali
spezzano questa continuità e unità con un rimpiazzo; alla fine delle ore del
sabato mettono un’orazione che dà l’aspetto di una banale vigilia, che cozza
con il resto, specie con l’antifona Christus
factus est. Se la pastorale fosse logica vedrebbe che la sua orazione non è
dello stesso tenore di quella impiegata negli altri giorni, non ha più motivo
di essere recitata in ginocchio e con la conclusione silenziosa [123]. Il suo modo di
terminare i vesperi non è meno strano [124].
Come la messa, terminando
tardi la sera, fu motivo per il quale si accorciarono i vesperi, così in
un’altra epoca, la messa, finendo tardi nella notte, fece abbreviare il
mattutino di Pasqua, riducendo i tre notturni a uno solo; questo si estese per
tutta l’ottava. Con molte meno ragioni i pastorali sopprimono il mattutino
pasquale [125];
ma non osano estendere [l’abolizione] agli altri giorni dell’ottava. Così il
sabato di Pentecoste, massacrato nei suoi aspetti battesimali, mentre l’ottava
continua ad avere un unico notturno [126].
Come
già visto, i pastorali continuano la sepoltura delle pianete piegate assieme a
quella di Cristo; viceversa, con la stessa disinvoltura, resuscitano qualche
piccola cerimonia meno antica e abbandonata. Inoltre troncano una questione mai
risolta. Poiché il celebrante benediva il fuoco nuovo per avere della luce
benedetta mediante la quale il diacono accendeva il cero pasquale del quale
cantava le lodi; questa accensione e il canto hanno finito per essere la
benedizione del cero pasquale, senza che ci sia in questo molto di sbagliato.
Ora non c’è il minimo dubbio, tutto è chiaro come il fuoco stesso, il
celebrante benedice fuoco e cero, il diacono non ha che da portarlo e cantare.
Il cero, portato non si sa da dove, sotto gli occhi attenti del pubblico, è
sottoposto a incisioni e iscrizioni, con formule esplicative, e in più vengono
conficcati i cinque grani di incenso in cinque fori del cero, che sarebbero le
piaghe di Cristo. Ecco che veniamo riportati al simbolismo di Guglielmo Durando,
che ebbe il suo tempo di moda prima di cadere in desuetudine. I grani d’incenso
ebbero migliore sorte a causa del quiproquo
tra qualcosa di acceso e la resina d’incenso. Del resto le iscrizioni erano
degenerate in un’ingombrante targa che veniva appesa al cero o al suo
candeliere, potrebbe essere ad imitazione della targa INRI della croce poiché
il cero doveva simboleggiare il Cristo [127].
Qui,
una volta acceso e benedetto il cero pasquale, i pastorali fanno spegnere le
luci della chiesa [128]. Il Breviario l’aveva
già fatto fare al termine delle lodi del giovedì santo [129]; ma si trattava delle
lampade, delle luminarie liturgiche, spente fino al sabato. Probabilmente si
vuole - ma senza dirlo chiaramente - spegnere tutte le luci, immergere la
chiesa nell’oscurità, che sarà dispersa dalle candele del clero e del popolo,
arrivate non si sa come; ciò fa spiccare il cero pasquale; ha un aspetto
orientaleggiante, l’ aspetto di una Candelora attorno a un cero principale.
Sabato santo tradizionale in cattedrale: processione dei Lumen Christi. |
Mentre
un tempo si trasportava la fiamma per accendere il cero già collocato al suo
posto, ora si trasporta il cero acceso per collocarlo al suo luogo [130]. Uno dei promotori della
veglia pasquale si entusiasmava delle proporzioni imponenti e massicce del cero
e della maestosità dei candelieri pasquali, sostegno del cero; non immaginava
che i suoi seguaci avrebbero ridotto il tutto alle proporzioni di una chiesa di
campagna. Quando cero e candeliere presero uno sviluppo monumentale e che il
primo divenne intrasportabile, sparì dalla processione; si è dovuto recargli la
fiamma a mezzo di una canna con tre candele [arundine]. Così accadde che l’eroe
del corteo trionfale non fosse più portato. Notiamo che, anche allora, con
l’arundine, la luce di Cristo non era meno acclamata, il Cristo luce non era
meno adorato.
Passando
attraverso le mani dei pastorali, la
loro solenne processione per il trasporto del cero è diventata la negazione dei
principi razionali, un mostro liturgico. Il loro capriccio di far incedere, in
una sedicente processione, il diacono e il celebrante immediatamente dietro la
croce - ossia in testa al clero - equivale a mettere il carro innanzi ai buoi [131]. Uno dei loro portavoce
ha tentato di giustificare i loro difetti con due goffe motivazioni. La prima:
incedendo come si deve, il clero si troverebbe a voltare la schiena al cero
portato dietro. Risposta: in tutte le processioni ove si porti una reliquia o
il Santissimo, gli si volgono le schiene cantando le sue lodi. La seconda: se
si incede come si deve, il clero canterebbe Lumen
Christi voltando la schiena al cero. Risposta: nessun male in questo,
poiché la genuflessione non la si fa al cero portato dietro ma a Cristo che è
ovunque [132].
Bisogna distinguere Cristo luce e la luce di Cristo. Lumen Christi significa che la luce di Cristo è nel cero acceso,
non che Cristo luce sia lì.
Leggendo
le rubriche pastorali, si sarebbe portati a credere che tutti, clero e popolo,
si precipitano sul cero pasquale per accendere la propria candela [133], ugualmente ciascuno
terrebbe la sua candela accesa durante il canto dell’Exultet. Stupiti ci si rammenterà il divieto di tenere il proprio
ramo durante il canto della Passione.
Sabato santo tradizionale: benedizione del diacono prima del Preconio. |
Sabato santo tradizionale: Preconio. |
Sabato santo restaurato: Preconio. |
Il
luogo idoneo per cantare l’Exsultet e
collocare il cero pasquale è sempre stato quello ove si canta il vangelo, ossia
un luogo acconcio in coro, oppure all’ambone o sul tramezzo [134] ove si trovava abitualmente il cero pasquale.
La posizione di questo in mezzo al coro, su un piccolo supporto, è puramente
arbitraria; fa cedere il maestoso candeliere pasquale.
Ambone e candeliere del cero pasquale (Roma, S. Clemente). |
Il
diacono, sostenendo il libro, domanda la benedizione, quindi incensa il libro
come al vangelo [135]. Questo perché? La prima
ragione è che l’Exultet è sempre
stato messo nell’evangelario; l’altra che il diacono incensa il libro
contenente l’elogio del cero che sta per cantare. Il fine diretto non è
d’incensare il cero che vale meno dell’evangelario. Attraverso l’incensazione
del libro il diacono incensa, per modum
unius, il cero collocato contro il leggio. La pastorale può dispensare
un’altra incensazione [136], fatta soprattutto
volgendo la schiena al cero.
I
pastorali hanno officiato davanti a un altare senza croce il venerdì; ma il
sabato, l’altare con la sua croce non sono loro bastevoli, vogliono un centro
verso il quale volgersi, questo è il cero pasquale in concorrenza con l’altare.
Il luogo per il canto del vangelo ha il suo simbolismo, già molto discusso; il
loro luogo per il cero pasquale, nel mezzo del coro, gli manca assolutamente.
Il modo in cui è rivolto il leggio - e per conseguenza il diacono che canta l’Exultet e il lettore che canta le
lezioni [137]-
con l’altare alla destra e la navata a sinistra, mostra il fascino esercitato
dalla posizione di profilo sui pastorali.
Stando
ai pastorali il celebrante si para in quattro modi il venerdì, ma il sabato una
vestizione gli viene risparmiata; lo si lascia in piviale al posto di fargli
indossare una pianeta [138]. Sfugge loro che
profezie, tratti ed orazioni fanno parte della messa e che anticamente il papa
battezzava in pianeta.
Sabato santo tradizionale: Orationem juxta fontem. |
Sabato santo tradizionale: benedizione del fonte, immersione del cero |
Il
battistero era un edificio annesso alla chiesa, una sorta di vestibolo, di
territorio neutro, laddove si entrava pagani e dal quale si usciva cristiani.
Di utilizzo peculiare, non era fatto per accogliere tutta l’assemblea dei
fedeli. Ai battisteri hanno fatto seguito i fonti battesimali, spesso collocati
male e pure costruiti male; ma di chi è la colpa? Che l’autorità provveda! Le
loro colpe non possono costituire una ragione per smantellare. Fonti
battesimali, acqua battesimale e battesimo costituiscono un tutt’uno; una
innovazione spettacolare li separa in modo deliberato, colloca nel coro un
fonte posticcio ed ivi fa battezzare, trasporta ai fonte battesimale l’acqua
benedetta altrove e già servita altrove [139]; è un’offesa alla
storia, alla disciplina, alla liturgia, al buon senso. Così si battezzerà nel
coro - circondato dal clero - un pagano giunto con i suoi accompagnatori. Così
l’acqua battesimale assomiglia a una persona accompagnata sontuosamente a casa
sua dopo esser stata cacciata. Proprio per l’acqua batttesimale e per la sua
quantita che deve durare per tutto l’anno, furono edificati sontuosi battisteri
e fonti battesimali artistici e maestosi. Oggi la pastorale fa l’acqua
battesimale e battezza in un recipiente, una tinozza, quindi, in questa
cornice, porta l’acqua al fonte, cantando il cantico di un cervo assetato [140], che ha già bevuto, e
che si dirige verso una sorgente vuota [141].
Le
litanie, un tempo ripetute in abbondanza, sono una supplica per i catecumeni,
sia prima che dopo il loro battesimo; si cantano normalmente andando al fonte e
facendo ritorno[142] . Come la pastorale
introduce in coro una controfigura dei fonti battesimali, essa fa cantare una
prima metà delle litanie, in seguito alla benedizione dell’acqua, sempre sotto
la protezione del cero pasquale; ma questa volta il celebrante mostra il suo
volto al popolo, non più il suo profilo [143]. Che sottigliezza! Non
il ritorno, ma il trasporto dell’acqua alla sua sede solleva una spinosa
questione: a chi spetta il ruolo di serbatoio ambulante, al diacono, a degli
accoliti e come [144]? Nobile compito del
quale essere gelosi specie durante il canto obsoleto del Sicut cervus. Supponendo che la chiesa abbia il suo battistero
separato, i pastorali anno ancora l’audacia di offrire la scelta tra il solo
metodo liturgico e la loro triste invenzione [145].
Il
rinnovamento delle promesse battesimali - mutuato dalla prima comunione dei
bambini è il più grosso atto di paraliturgia, creazione tanto più pastorale che
non liturgica, eccellente occasione – tanto cercata – di inserire la lingua
vernacola nella liturgia [146]; è una ripetizione
oziosa di quello che si è appena fatto se si è battezzato; essa potrà portare
al rinnovamento delle promesse coniugali tra le persone riunite per un
matrimonio. Infine causa un vuoto tra il trasporto dell’acqua e la seconda metà
delle litanie; dunque perdita di tempo per un ritorno in silenzio[147].
Il
cero pasquale finisce per lasciare il suo piccolo sostegno provvisorio e per
raggiungere il suo candeliere al lato del vangelo, ignorato fino ad ora. I
fiori non furono mai prescritti sull’altare; ora la pastorale ne ha bisogno per
rendersi più gradevole [148].
_______________________
Note:
[1] Questa
conferenza fu ripresa e pubblicata: L. GROMIER, La Semaine Sainte Restaurée, in Opus
Dei, 1962, 2, pp. 76 e ss. (uso per la traduzione italiana il testo
pubblicato).
[2] ID. Commentaire du Caeremoniale Episcoporum,
Paris, La colombe, 1959.
[3] SACRA
CONGREGAZIONE DEI RITI, Decreto generale, Maxima
redemptionis, 30 novembre 1955, in Acta
Apostolicae Sedis (di seguito AAS), XXII, 1955, pp. 838 e ss.. Ricordiamo
che la nuova settimana santa in rito romano fu celebrata dall’anno 1956; agli
orari dovevano attenersi anche gli altri riti latini. Solamente presso la
custodia francescana della Terra Santa si seguitò a celebrare con le forme tradizionali
nei loro abituali orari. Ciò era dovuto al fatto che non era stato possibile
raggiungere accordi con le altre confessioni cristiane che andassero a
modificare il protocollo ratificato nel 1852 indicato come “status quo”, che
era stato un tentativo di porre fine a secolari controversie circa il possesso
e l’uso del Santo Sepolcro, della basilica della Natività a Betlemme e della
tomba della Madonna a Gerusalemme. Solo nell’anno giubilare 2000 fu promulagato
un rito con adeguamenti ad hoc per
luoghi e orari. (Cfr. E. BERMEJO CABRERA, La
settimana santa al Santo Sepolcro di Gerusalemme, in Rivista Liturgica,
LXXXVIII, 2001, pp. 227 e ss.).
[4] ID., Instructio de ordine hebdomadae sanctae
instaurato rite peragendo, 16 novembre 1955, ibid. 1955, p. 842 e ss..
[5] G. LERCARO, I giorni dell’amarezza, Bologna, Ufficio
tecnico organizzativo arcivescovile, 19562, pp. 9.
[6] L. GROMIER, Commentaire…, cit., p. 13.
[7] Ho ritenuto di tradurre “pastoraux”
semplicemente come “pastorali” quando usato dall’autore in forma
sostantivata.
[8] B. BOTTE, Il movimento liturgico, testimonianze e
ricordi, Torino, Effatà, 2009, pp. 121 e ss..
[9] All’epoca era
in vigore la VIa edizione dopo la tipica: Missale Romanum, Editio sexta post typicam, Romae, Typis
Polyglottis Vaticanis, 1954. (di seguito: MR 52). Il messale era stato
approvato l’8 settembre 1952.
[10] Utilizzo: Missale Romanum, Ratisbonae, Pustet,
1963. (di seguito MR 62)
[11] Cfr: L. GROMIER, Commentaire…,
cit., p. 10.
[12] A. BUGNINI, La riforma liturgica 1948-19752,
Roma, C.L.V. Edizioni Liturgiche, 1997.
[13] A. BUGNINI-C.
BRAGA, Ordo hebdomadae sanctae
instauratus commentarium ad S.R.C. decretum Maxima Redemptionis Mysteria,
Bibliotheca «Ephemerides Liturgicae» Sectio Historica 25, Roma, Edizioni
Liturgiche, 1956.
[14] SACRA CONGREGAZIONE
DEI RITI, Decreto De solemni vigilia
paschali instauranda, 9 febbraio 1951, in AAS 43, 1951, p. 128 e s..
[15] PIO XII,
Costituzione apostolica Christus Dominus,
6 gennaio 1953, in AAS 45, 1953, pp. 15 e ss..
[16]
Sull’argomento del divenire organico della liturgia si veda l’opera con
prefazione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger: A. REID, The organic Development of the Liturgy,
San Francisco, Ignatius, 2005, traduzione italiana: Lo sviluppo organico della liturgia, Siena, Cantagalli, 2013.
[17] SAN PIO V,
Bolla, Adcuius notitiam, in Bullarium Romanum, VII, Augustae
Taurinorum, Dalmazzo, 1862, pp. 433 e s..
[18] Le
distinzioni riguardano – ad esempio – il modo di chiedere la benedizione prima
delle lezioni a mattutino (cfr. Breviarium
Romanum, editio typica, Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1915, p. 5)
oppure l’impossibilità di separare lodi da mattutino nella pubblica recitazione
(Ibidem. p. 8) ecc. Le distinzioni
appunto prevedono sempre la recita corale (con eventuali indicazioni per i cori
moniali) o la recita privata (con indicazioni rivolte a chi non è ancora
ordinato diacono).
[19] I vesperi non
sono detti da coloro i quali sono intervenuti alla messa vespertina, cfr. Rubr.
Feria quinta in Cena Domini, in Officium
Hebdomadae Sanctae et Octavae Paschae, Ratisbonae, Pustet, 1957, p.247.
[20] L’omissione
di compieta riguarda sempre chi non è intervenuto alla funzione della sera
(veglia): rubr. sabbato sancto in ibidem.
p. 319.
[21] Cfr. Ordo Hebdomadae Sanctae Instauratus,
Editio Typica, Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1956 (di seguito OHS), p. 3,
p. 77, p. 136. (In moltissime occasioni è utilizzato l’aggettivo “solenne”).
[22] Secondo
questo canone appunto il digiuno cessa il “Sabbato Sancto post meridiem”, cfr.
Can. 1253, in Codex Iuris Canonici,
Romae, Typis Polyglottis Vaticaniis, 1919, p. 346.
[23] SACRA
CONGREGAZIONE DEI RITI, Instructio de
Ordine…cit. p. 845.
[24] Cfr. Ibidem Scritta in quegli anni la norma confligge con
la prassi del resto dell’anno liturgico laddove vige l’obbligo – da parte del
celebrante – di leggere le parti che i ministri cantano (cfr. Ritus servandus in celebratione Missae,
VI, 4. e 5, in MR52, p. XLIX). Detto divario fu risolto con il nuovo codice
delle rubriche giovanneo: cfr Ritus
servandus in celebratione Missae, VI, 4, in MR 62, p. (98) laddove il
celebrante omette la lettura privata. Ricordo che l’ ordo sperimentale promulgato nel 1951 prevede il semplice ascolto
del celebrante delle lezioni; cfr. rubr. 15, in Ordo Sabbati Sancti, editio altera, Romae, Typis Polyglottis
Vaticanis, 1952.
[25] Cfr. L.
GROMIER, Commentaire…cit., p. 184.
[26] Cfr. SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Instructio de ordine
hebdomadae sanctae…cit., p.844 (Adnotationes, d, 12).
[27] Cfr. Rubr. in
Dom. II Pass. seu in palmis 24, in OHS,
p. 10.
[28] Cfr. Lectio
II in sabbato infra Hebd. Pass. in Breviarium
romanum…cit., p. 438.
[29] Il
riferimento dell’Autore qui va con ogni evidenza al fatto che, depauperata la
vigilia di pentecoste dei suoi contenuti battesimali, viene mantenuto (anche
nel messale del 1962) per tutta l’ottava di Pentecoste, lo stesso Hanc igitur che si recita dalla veglia
pasquale al sabato “in albis” i cui riferimenti al battesimo sono più che mai
espliciti. (cfr. Canon Missae, in MR
62, p. 447).
[30] Già dove ci
si era avvalsi del sabato santo restaurato sperimentale non si faceva la
tradizionale viglia di Pentecoste con la benedizione del fonte: cfr
Ordinationes (IV, 12), in Ordo Sabbati
Sancti…cit., p. 5. La tradizionale vigilia di Pentecoste si compiva, dopo
nona, con la lettura di sei profezie e quindi con la benedizione del fonte.
(cfr. rubr. in Vigilia Pentecostes in MR 52 p. 367 e ss.). Solamente alle messe
private (idem, p. 373) si iniziava
come avviene normalmente alla messa (Introito: Cum sanctificatus fuero): ora questo – con la riforma – diviene
norma comune.
[31] La
benedizione dei rami nella forma tradizionale ha fortissime analogie con la
benedizione dei ceri alla Candelora e con la benedizione delle ceneri. Il luogo
ove il sacerdote la compie è il “cornu epistolae” che rappresenta l’antica
forma di “presidenza” presbiterale che invece nel rito restaurato viene
stravolta; cfr. Ordo II, in M.
ANDRIEU, Les Ordines Romani du hau moyen age, II, Les textes,
Louvain, Spicilegium Sacrum Lovaniense, 1971, p. 115 e s..
[32] Cfr. Rubr. in
Dom. II Pass. seu in Palmis 1, in OHS, p. 3.
[33] Cfr. Rubr. in Dom. II Pass. seu in palmis 8, in OHS,
p. 4.
[34] Cfr. Rubr. in
dom. in Palmis, in Missale Parisiense,
Parisiis, Bibiliopolarum usuum Parisiensium, 1738, p. 168.
[35] Ad esempio il
rito ambrosiano cfr. Rubricae generales, de coloribus paramentorum § 40, in Missale Ambrosianum, editio quinta post
typicam, Mediolani, Daverio, p. XXXVIII.
[36] Citiamo
l’eccezione rappresentata dal rito domenicano giusta il quale la benedizione
degli olivi si compie in bianco e si assumono i paramenti viola per la messa.
Cfr. Rubr. in dom. in ramis palm. in Missale
S. Ordinis Praedicatorum, Romae, In Hospititio Magistri Ordinis, 1933, p.
211.
[37] Nel messale
del 1962, la benedizione dei ceri e la processione della “Candelora” si compie
con i paramenti di colore bianco, cfr
rubr. in die 2 febr. in MR 62, p. 503. A proposito si potrebbe avanzare
l’ipotesi secondo la quale il messale del 1962 sgombera le antiche connotazioni
penitenziali della festa della Purificazione. Essa, come testimoniano gli
antichi ordines, prevedeva i
“vestimentis nigris coloris” (cfr. ad es. Ordo
XX, in M. ANDRIEU, Les Ordines Romani du hau moyen age …cit,
III, p. 235 ma anche il relativamente più recente ordo L , in idem, V, pp. 90 e ss.) nonché una processione litanica
di cui il retaggio opino essere la presenza dell’antifona Exurge Domine con il salmo 2 (Deus auribus nostris audivimus) mantenuta fino alla VI tipica del
messale (cfr. die 2 Febr. in MR 52, p.496).
[38] Cfr. Rubr. in
Dom. II Pass. seu in palmis 10, in OHS, p. 10.
[39] Cfr. Rubr. in Dom. in Palmis, in MR 52, p. 148. Il “dignior ex
Clero” consegna al celebrante il ramo. Di stesso tenore la rubrica della
Candelora (cfr. Rubr, in die 2 Febr., in idem,
p. 496) e del mercoledì delle ceneri (cfr. Rubr. in Feria IV Cinerum, in idem, p. 66). Nessun riferimento al ramo
del celebrante nella forma restaurata, per la quale, una volta compiuta la
benedizione, il celebrante, procede alla distribuzione (cfr. Rubr. in Dom. II
Pass. seu in Palmis 10, in OHS, p. 4).
[40] La forma
tradizionale di benedizione dei rami è
un tipo di sinassi aliturgica, la cui compilazione, probabilmente, fu avulsa
dalla messa del giorno (cfr. M. RIGHETTI, Manuale di storia liturgica,
Milano, Ancora, 1955, vol. II, p.149). Richiamo qui brevemente la struttura
del rito. Una volta compiuta l’aspersione, il celebrante sale all’altare e si
porta in “cornu epistolae”; i cantori cantano l’antifona Hosanna Filio David che costituisce, in un certo senso, l’introito
di questa sinassi. Segue un’orazione. Il suddiacono proclama la lezione tratta
dal libro dell’Esodo (15, 27 e 16, 1-7) cui fa seguito “pro graduali” un
responsorio scelto fra Collegerunt
Pontifices e In monte Oliveti.
Durante il canto, si compiono le stesse cerimonie con le quali, abitualmente,
il diacono si prepara a cantare il vangelo. Una volta proclamata la pericope
evangelica tratta da san Matteo (21, 1-9), inizia la benedizione propriamente
detta con un’orazione (Auge fide) che
si conclude in un prefazio modulato sul tono feriale. Ad esso segue il Sanctus (proprio come alla messa).
Seguono cinque orazioni, quindi i rami, sui quali più volte durante le orazioni
il celebrante ha tracciato il segno di croce, vengono aspersi ed incensati.
Questi rami si trovano su un tavolino posto in “cornu epistolae”. Cantata
un’altra orazione e ricevuto il suo ramo, il celebrante, procede alla
distribuzione dei rami benedetti. Un’altra orazione – seguita dall’invito
diaconale Procedamus in pace –
prelude alla processione che inizia a
muoversi fuori dalla chiesa. Il corteo processionale, al suo ritorno, trova la
porta della chiesa chiusa. All’interno della chiesa vi sono due o quattro
cantori, i quali danno inizio all’inno Gloria
laus; il ritornello viene ripetuto da fuori, i cantori eseguono alcuni o
tutti i versi dell’inno. Il suddiacono percuote l’uscio con la croce, le porte
vengono spalancate ed entra il corteo processionale al canto dell’Ingrediente Domino. Ha quindi inizio la
messa, durante la quale, si tengono in mano i rami benedetti al canto della
Passione e del vangelo che segue.
[41] Nella forma
tradizionale in questo giorno è appunto il suddiacono che ministra alla
benedizione e alla messa a recare la croce in processione (cfr. Rubr. Dom. in
Palmis, Ad Processionem, in MR 52, p.148); la forma restaurata prevede – invece
– un altro suddiacono parato (di tunicella) o un accolito (cfr Rubr. in Dom. II
Pass. seu in Palmis 16, in OHS, p. 7).
[42] Il sabato
dopo la IV domenica di quaresima, prima dei vesperi, si coprono tutte le croci
e tutte le immagini della chiesa. Le croci resteranno coperte fino
all’adorazione della croce il venerdì santo, mentre le immagini dovranno
attendere l’intonazione del Gloria il
sabato santo (cfr. rubr. in Sabbato post Dom. IV in Quadr. in MR 52, p. 128; di
stesso tenore la rubrica dello stesso giorno in MR 62, p. 139).
[43] Ipotizzo
che qui Gromier si riferisca agli usi, codificati nel Pontificale romanum, relativi all’accoglienza tributata
all’imperatore o al re (cfr. Pontificale
Romanum, Mechlinae, Dessain, 1958, pp. 876 e ss.).
[44] Cfr. rubr. in Dom. in Palmis (Ad Processionem), in MR
52 pp. 149 e s..
[45] Cfr. Rubr. in dom. II Passionis seu Palmis 20, in OHS,
p. 9.
[46] Cfr. Rubr. in dom. in palmis in MR 52, p. 150.
[47] Cfr. Cfr. Rubr. in dom. II Passionis seu Palmis 21 in
OHS, p. 9.
[48] Cfr. Rubr. in dom. II Passionis seu Palmis 21 in ibidem.
[49] Cfr. Rituale romanum, Romae-Tornaci-Parisiis,
Desclée, 1934, pp. 374 e s. (Tit. IX cap. IV)
e 136 e ss. (Tit. V cap. III).
[50] Sulle pianete
piegate v. F. TOLLOI, Levant planetas in
scapulas. Pianete plicate e stolone. Genesi-utilizzo-abolizione. http://rerumliturgicarum.blogspot.it/2017/12/levant-planetas-in-scapulas-pianete.html
[51] Cfr. Rubr. in
dom. II Passionis seu Palmis, De Missa 2, in OHS, p. 10.
[52] Cfr. Rubr. in
Sabbato sancto, de missa solemnis 1, in idem,
p. 136.
[53]
Effettivamente nel messale del 1962 sia la candelora (se prima c’è stata la
benedizione delle candele e processione che il mercoledì delle ceneri (se
preceduta dalla benedizione e imposizione delle ceneri), le preghiere ai piedi
dell’altare sono omesse. Cfr. Rubr. in die 2 febr. MR 62, p. 506 e rubr. in feria IV cinerum p.
63.
[54] OHS: rubr. in dom. II Passionis seu Palmis 18, p.
17; rubr. Feria V in Cena Dom. 36, p. 74 e rubr. in Sabb. Sancto 10, p. 141.
[55]
Rubr. Feria V in Cena Dom. 36, in OHS, p. 74.
[56]
Nel messale del 1962 la conclusione delle messe effettivamente viene così
regolata: quando segue una benedizione si sostituisce il Benedicamus Domino all’Ite
Missa est. Ne consegue l’omissione – dopo il Placeat - della benedizione e dell’ultimo vangelo. (v. Rubricae
generales Missalis romani (Cap. VIII, 507, De conclusione Missae) in MR 62, pp.
(57) e s.. Se dunque la prassi tradizionale era quella di concludere la messa a
prescindere da quello che poteva seguire, qui viene stabilita una novità che
tra l’altro comporta la sostituzione con il Benedicamus,
prima regolato “pro temporis ratione”.
[57] Cfr.: A. PATRIZI
PICCOLOMINI, Rituum ecclesiasticorum sive
sacrarum cerimoniarum Ss. Romanae ecclesiae, Venetiis, De Gregoriis, 1516,
c. LXXXXV e ss. ; i tre diaconi cantano
la passione quando il papa assiste, se, invece, il papa celebra, il cardinale
diacono può scegliere se cantarla lui secondo l’uso antico o lasciare che lo
facciano i tre cantori. In questo ultimo caso egli si riserva la parte finale
della stessa. Secondo Gromier (cfr. L. GROMIER, Commentaire…p. 381), l’uso della passione “dialogata” rimonta al
gusto tipicamente medievale per la
“drammatizzazione”. È opportuno anche ricordare gli sviluppi successivi con gli
interventi polifonici delle “turbae” (es. quelle di T.L. Da Victoria). Per
descrizioni ricche di minuti particolari rimandiamo a: G.
MORONI, Le Cappelle Pontificie
Cardinalizie e Prelatizie, Venezia, Emiliana, 1841, pp. 202 e ss. e F.
CANCELLIERI, Descrizione della Settimana
Santa nella Cappella Pontificia, Roma, Bourliè, 1818, pp. 25 e ss. Dal
Moroni (cit.) apprendiamo che talvolta il papa – ipotizziamo per infermità o
senescenza – si ritirava durante il canto del Passio per poi far ritorno al
vangelo. Ricordiamo che le edizioni dei libri di canto della passione
restituite “ad codicum fidei” e che soppiantarono la versione del Guidetti,
riportano per il canto del vangelo successivo la passione una ornata melodia
“ad libitum”: cfr. Cantus Passionis
Domini Nostri Jesu Christi, Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1917, pp.
31 e s., pp. 53 e s., pp. 75 e s. e p. 93 e s..
[58] Cfr. Rubr. in
Dom. II Pass. seu in palmis, de Missa, 8, in OHS, p. 11. Il sacerdote
benedicendo i diaconi declina al plurale la consueta formula che si usa per il
vangelo.
[59] Cfr. Rubr. in
Dom. II Pass. seu in palmis, de Missa 10 in idem, p. 16.
[60] Cfr. Rubr. in
Feria VI in Pass. et Morte Dom. 10, in OHS, p. 80. In questa rubrica si parla
anche dei due accoliti. La prassi tradizionale si trova descritta nel Caeremoniale episcoporum il quale
riferisce di “tribus cappellanis cum cottis sine candelabris” che si collocano
di faccia ai tre diaconi che fungono da cantori della passione. Interessante
notare che il testo del Caeremoniale
supponga l’uso di un solo libro che i tre chierici si passano tra loro a
seconda del diacono cui tocca la parte da cantare. (cfr. Lib. II,
Cap. XXI, 15 in Caeremoniale episcoporum,
Taurini-Romae, Marietti, 1935, p.176 e s.)
[61] Cfr. Rubr. in Dom. II Pass. seu in palmis, de Missa 8
in OHS, p. 11.
[62] Cfr. Rubr. in Dom. II Pass. seu in palmis, de Missa 9, in idem, p. 12.
[63] Cfr. PIO XII,
Costituzione apostolica Sacramentum
Ordinis, 30 novembre 1947 in AAS XV, 1948, pp. 5 e ss. Ivi – tra altre
questioni riferite al conferimento dell’ordine sacro- viene chiarito quali
parole costituiscono la forma dell’ordinazione; il vescovo quindi cessa di
cantare, sul tono del prefazio, e recita sugli ordinandi le parole della
“forma”.
[64] Fornisco qui i
riferimenti dei brani del Passio
proclamati nella forma tradizionale e nella forma restaurata. Domenica delle
Palme: tradizionale Matt. 26, 1-75 e 27, 1-66; restaurata Matt. 26, 36-75 e 27,
1-60. Martedì santo: tradizionale Marco 14, 1-72 e 15, I-46; restaurata Marco
14, 32-72 e 15, 1-46. Mercoledì santo: tradizionale Luca 22, 1-71 e 23, 1-53;
restaurata Luca 22, 39-71 e 23, 1-53. Venerdì santo: tradizionale Giov. 18,
1-40 e 19, 1-42; nella restaurata resta identica; la narrazione inizia sempre
dal momento in cui i soldati si presentano a catturare Gesù.
[65] Qui il
riferimento va al celebre “Miserere” di Gregorio Allegri eseguito alla cappella
sistina in chiusa degli uffici delle tenebre e alle suggestioni che certamente
esso era in grado di suscitare, specie per la particolarità delle prassi
esecutive tramandate dai cantori pontifici. Nell’opera menzionata qui dall’A.,
il cardinale descrive e commenta, in conferenze tenute nel 1837, le cerimonie
della settimana santa alla cappella papale ; cfr. N. WIESEMAN, Four lectures on offices and ceremonies of
the holy week as performed in the papal chapel, London, Dolman, 1839, p. 12
e pp.86 e ss..
[66] Fino alla
riforma piana, la mattina, durante la celebrazione in cattedrale della messa
“in Caena Domini” il vescovo procedeva alla consacrazione degli olii. Il
Righetti ci riporta l’ipotesi secondo la quale sarebbe stato san Gregorio a
incorporare la benedizione degli olii alla messa “in Coena Domini” anticipata
al mattino (Cfr. M. RIGHETTI, Manuale di
Storia Liturgica…cit. vol. II, p. 153). Riferendosi alla prassi
tradizionale, Gromier nel Commentaire
annota di come il Caeremoniale
episcoporum taccia – di fatto – sull’argomento della consacrazione degli
olii del giovedì santo. Secondo l’Autore, tale lacuna potrebbe essere
ricondotta al fatto che il Caeremoniale
episcoporum è debitore delle opere di Agostino Patrizi Piccolomini (Rituum ecclesiasticorum…cit.) e di
Paride Grassi (P. GRASSI, De caeremoniis Cardinalium et Episcoporum in
eorum Diocesibus, Romae, Donangelum, 1587) che appunto tacciono
dell’argomento. Per tale motivo la rubricazione del Pontificale romanum sarebbe rimasta a uno stadio precedente, in un
certo senso “arretrata”, rispetto le citate codificazioni. A questa “arcaicità”
andrebbe ricondotta la presenza di ventisei ministri - tra sacerdoti, diaconi e
suddiaconi mutuati dal clero secolare o regolare - completamente parati che
richiamano l’idea delle antiche concelebrazioni (cfr. L. GROMIER, Commentaire…, cit., p. 315).
[67] Cfr. Rubr. in
Feria V in Cena Dom. , de Missa Chrismatis 14, in OHS, p.66.
[68] La
celebrazione restaurata prevede che i sacerdoti presenti indossino la stola:
cfr rubr, . in Feria V in Cena Dom. De
missa solemni vespertina 4, in OHS, p. 66.
[69] Cfr rubr. in
Feria V in Cena Dom. De missa solemni
vespertina 7, in OHS, p. 67.
[70] Di questa
omelia si parla al Lib. II, cap. XXV al n. 20 del Caeremoniale Episcoporum…, cit. p. 190.
[71] Cfr rubr. in
Feria V in Cena Dom. De missa solemni
vespertina 13, in OHS, p. 68.
[72] Un
interessante excursus sul Mandatum ci viene offerto da F.
CANCELLIERI, Descrizione delle Funzioni…cit.
p. 74 e ss..
[73] Cfr. Caeremoniale Episcoporum… (Lib II, cap.
XXIV, 39), cit., p. 185.
[74] Cfr. rubr. in
Feria V in Cena Domini (ad mandatum faciendum), in MR 52, p. 172. Ivi la
rubrica si riferisce semplicemente ad un luogo “”ad id deputato”. Do succinta descrizione della cerimonia: il celebrante è parato del piviale viola,
mentre diacono e suddiacono portano i paramenti bianchi. Il rito ha inizio con
la proclamazione (con le consuete cerimonie della messa) del vangelo (Giov. 13,
1-15 ossia lo stesso della messa). Il celebrante, ricevuta more solito l’incensazione, toglie il piviale e, coadiuvato dai
sacri ministri, cinge il gremiale. Procede quindi alla lavanda dei piedi, il
piede destro di ciascuno dei candidati -
innanzi i quali genuflette - è sostenuto dal suddiacono, il diacono porge
l’asciugatoio. Durante il mandatum si
cantano varie antifone indicate nel messale tra le quali il celebre Ubi caritas. Il Pater noster in segreto, alcuni versetti e un’orazione chiudono la
funzione.
[75] Cfr. De reconciliatione poenitentium, in Pontificale
Romanum…cit., p. 630 e ss..
[76] Cfr. rubr. in
Feria V in Cena Dom. De missa solemni vespertina 21, in OHS, p. 71.
[77] Cfr rubr. in
Feria V in Cena Dom. De missa solemni
vespertina 17, in idem, p. 68.
[78] Il numero di
tredici è indicato nel Lib. II, cap. XXIV, 2 in Caeremoniale episcoporum …, cit. p. 185. Si veda il commento che ne
fa: L. GROMIER, Commentaire…, cit.,
p. 400 e ss..
[79] SACRA
CONGREGAZIONE DEI RITI, Decreto 4 dicembre 1952, in AAS, XIX, 1952, pp. 887 e
s..
[80] Il Caeremoniale episcoporum auspica la
presenza nella chiesa cattedrale del “secretarium” laddove il vescovo compie la
preparazione alla messa e, tra le altre cose, indossa calzari e sandali
pontificali. Le modalità sono attentamente descritte (cfr. Lib. II. Cap. VIII,
in Caeremoniale Episcoporum,
Taurini-Romae, Marietti, 1935, p. 123). È al suddiacono che spetta far
indossare questi al vescovo, la cui cappa è accomodata in modo da coprire il
gesto e la discreta pudicizia è più che mai garantita da un certo numero di
chierici genuflessi in cotta che circondano il vescovo.
[81] In questa
occasione al triplice Agnus Dei – nella forma restaurata - si
risponde sempre miserere nobis, così
come si omette l’orazione Domine Iesu
Christe, qui dixisti. (cfr rubr. in Feria V in Cena Dom. De missa solemni
vespertina 28, in OHS, p. 73. La forma tradizionale manteneva l’ Agnus Dei al solito modo, prevedeva
l’omissione della pace e manteneva le tre orazioni (cfr. Rubr. in Feria V in
Cena Dom. in MR 52, p. 172).
[82] Rubr. in
Feria V in Cena Dom. De missa solemni vespertina 29 in OHS, p. 73. L’esito
successivo è verificabile nella omissione del Confiteor prima della comunione nell’edizione del messale del beato
Giovanni XXIII (Cfr Ritus servandus in celebratione Missae, X, 6, in MR 62, p.
109).
[83] Rubr. in
Feria V in Cena Dom. De missa solemni vespertina 29 in OHS, p. 73.
[84] Rubr. in
Feria V in Cena Dom. De missa solemni vespertina 35 e 36 in OHS, p. 74.
[85] Come già
ricordato alla nota 82, nel messale del 1962
il Confiteor prima della comunione
non ha più luogo.
[86] Rubr. in
Feria V in Cena Dom. De solemni translatione 3, in OHS, p. 75.
[87] “si opus
sit”, cfr. Rubr. in Feria V in Cena Dom. De solemni translatione 3, in idem, p. 75.
[88] Il
riferimento va alla liturgia che i greci attribuiscono a san Gregorio papa.
[89] Con “messa
secca” si intende una messa senza consacrazione, cfr. G. BURCARDO, Ordo missae, Romae, de Besicken, 1502,
f. 39 e ss..
[90] J. P. MIGNE, Encyclopédie
Theologique, VIII. Liturgie, Paris, Au Petit-Montorgue, 1844.
coll. 1139 e s..
[91] Cfr. De
altaris consacratione, in Pontificale
Romanum…, cit. pp. 360 e ss..
[92] Cfr. Rubr. in
Feria VI in Pass. et Morte Dom. 15, in OHS, p. 92.
[93] La liturgia
pomeridiana restaurata del venerdì santo risulta ripartita in quattro momenti
nell’ OHS. I: “De prima parte actionis liturgicae seu de lectionibus” (pp. 77 e
ss.); II “De secunda parte actionis liturgicae seu de orationibus solemnibus,
quae etiam «oratio fidelis» dicuntur” (pp. 84 e ss.); “De tertia parte actionis
liturgicae seu de solemni sanctae crucis adoratione” (pp. 92 e ss.); “De quarta
parte actionis liturgicae seu de communione” (pp. 97 e ss.).
[94] Il celebrante
canta l’orazione Deus, qui peccati
veteris (OHS, p. 78) per poi recarsi a “ad sedilia”ove rimane per tutta la
prima parte dell’ “actio liturgica”. (Cfr. Rubr. in Feria VI in Pass. et Morte
Dom. 6 e 7 in OHS, p. 78)
[95] Qui il
riferimento va a quelle messe che hanno più lezioni (es. alle Tempora) che sono
proclamate dai lettori mentre il suddiacono si riserva l’epistola.
[96] La formula
laconicamente dice: “Dominus sit in cordibus vestris, et in labiis vestris” cui
i diaconi rispondono “Amen”. (cfr Feria VI in Pass. et Morte Dom., in OHS, p.
80). La cosa diventa ancor di più
anomala e incomprensibile se si considera che anche nelle messe da morto il
diacono recita il Munda cor meum e
semmai è la benedizione ad essere omessa (cfr. Ritus servandus in celebratione Missae, XIII (De his quae
omittuntur in Missa pro defunctis) in MR 52, p. LVI. La norma resta uguale nel
messale del 1962 (cfr Ritus servandus in
celebratione Missae, XIII (De his quae omittuntur in Missa defunctorum) in
MR 62, p. (112).
[97] Cfr. Rubr. in
Feria VI in Pass. et Morte Dom. 10, in OHS, p. 80.
[98] Cfr. Ibidem.
[99] Cfr. Rubr. in
Feria VI in Pass. et Morte Dom. 12 e 13, in OHS, p. 84. La prima parte della
funzione del venerdì santo (che qui per praticità fisso dall’inizio allo
scoprimento della croce escluso) prevedeva un ingresso silenzioso del
celebrante in pianeta nera – accompagnato dai sacri ministri con la pianeta
piegata - e una prostrazione effettuata innanzi all’altare la cui croce velata era collocata nel mezzo
(come di consueto) e c’erano gli usuali candelieri con i ceri spenti. In questo
spazio di tempo gli accoliti andavano a porre una tovaglia che restava piegata
nella direzione dei candelieri. Al
termine della prostrazione il celebrante si recava in cornu epistolae: un lettore principiava la prima lezione (Osea 6,
1-6). Seguiva il tratto e quindi l’orazione preceduta dal Flectamus genua/levate; a questo punto il suddiacono proclamava la
seconda lezione (Esodo 12, 1-11). Un altro tratto precedeva il canto del Passio di san Giovanni. Conclusasi la
proclamazione della passione, il diacono cantava il vangelo - costituito dalla
parte finale del Passio - con le
cerimonie abituali previste e caratteristiche della messa dei defunti (Munda cor meum senza benedizione,
mancato utilizzo di lumi e incenso, e omissione del bacio del testo da parte
del celebrante alla fine). Dal corno dell’epistola il celebrante, avendo dietro
di sé in colonna diacono e suddiacono), cantava le orazioni.
[100] Il rito
dell’ostensione e adorazione della croce ebbe origine in Gerusalemme a seguito
del rinvenimento della croce stessa da parte di sant’Elena; l’uso romano –
introdotto parrebbe nella prima metà del VII secolo – è debitore degli usi
gerosolimitani. (cfr. A.KING, Liturgy of the Roman Church, London , Longmans, 1957,
p. 193.). Anche
Righetti ritiene che gli usi gerosolimitani abbiano innescato dei processi
imitativi, lo stesso ci riporta una sintesi dei resoconti di Etheria riferiti
agli usi agiopoliti laddove vigeva il costume di mostrare, in questo giorno, le
reliquie che vengono venerate da clero e popolo. (cfr. M. RIGHETTI, Manuale di Storia Liturgica…cit. II, p.
175.) È interessante notare che alla cappella papale si faceva uso di una croce
particolarmente ricca in oro la quale era innestata su un supporto - imitante il Calvario - in argento smaltato e dorato; essa era di
fatto un reliquiario tant’è che all’interno serbava un frammento della santa
Croce (notizie dettagliate si possono trovare in F. CANCELLIERI, Descrizione delle funzioni della settimana
santa…, cit. p. 133 e ss.). L’uso previsto nel rito “restaurato” insiste
piuttosto – come qui rilevato da Gromier - sulle dimensioni della croce:
“adhibeatur Crux satis magna, cum Crucifixo […]” (cfr rubr. in Feria VI in
Pass. et Morte Dom. 14 in OHS, p. 92).
[101] Qui si intendono
le candele dei candelieri degli accoliti cfr. Rubr. in Pass. et Morte Dom. 15,
in OHS, p. 92).
[102] Il celebrante
– nella forma restaurata – si trova tra diacono e suddiacono (che lo coadiuvano
nel canto dell’ Ecce lignum) ai cui
lati stanno gli accoliti con i candelieri. (Cfr Rubr. in Pass. et Morte Dom. 16, in OHS, p. 93). Nella forma
tradizionale, il celebrante, ha solo il diacono e il suddiacono che si uniscono
al canto dell’Ecce lignum. (cfr.
rubr. in Feria VI in Parasceve, in MR 52, p. 186)
[103] Cfr. Rubr. in
Feria VI in Pass. et Morte Dom. 17, in OHS, p. 93. Nella forma tradizionale – come più sotto
descriveremo - il sacerdote da solo portava la croce nel luogo per questo
preparato innanzi l’altare (cfr. Rubr in Feria VI in Parasceve, in MR 52, p.
187).
[104] Riferendosi al
luogo ove poggiare la croce appena scoperta, il messale indica semplicemente un “locum ante altare
preparatum” (cfr. Rubr. in Feria VI in Parasceve, in MR 52, p. 187). Il Caeremoniale episcoporum parla di un
tappeto o un panno di ampie dimensioni e di colore viola, da stendere sui
gradini dell’altare o del presbiterio. Sopra di esso andrà posto un cuscino di
ampie dimensioni e quindi un velo di seta su cui porre la croce. (cfr. Lib. II,
cap. XXV, 22, in Caeremoniale Episcoporum…cit.,
p. 191). Che questo velo sia bianco e viola, lo troviamo codificato nel Memoriale Rituum laddove è indicato tra
gli oggetti da prepararsi per la funzione del venerdì santo. (cfr. Tit. V, cap.
I, in Memoriale Rituum , editio I
post typicam, Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1950, p. 53).
[105] Cfr. Rubr. in
Feria VI in Pass. et Morte Dom. 17, in OHS, p. 93.
[106]
Sostanzialmente mentre nella forma tradizionale ci si inginocchia
contestualmente alla risposta Venite
adoremus, (Rubr. Feria VI in Parasceve, in MR 52, p. 186) nella forma
restaurata l’azione di inginocchiarsi è rinviata a dopo la risposta (Rubr. in
Feria VI in Pass. et Morte Dom. 16, in OHS, p. 93). Profitto per ricordare che la novità qui
ravvisata si manifesta anche nella parte precedente, ossia quella dedicata all’
Oratio fidelium quando, dopo l’invito
diaconale Flectamus genua, si
inserisce uno spazio temporale dedicato alla preghiera silenziosa (cfr, Rubr.
in Feria VI in Pass. et Morte Dom. 13, in OHS, p. 84). L’introduzione di questo
spazio era una novità che già aveva fatto capolino nell’ Ordo del sabato santo del 1951, segnatamente alle collette che
seguono le profezie (cfr. Rubr. 16, in Ordo
Sabbati sancti…cit., p.23). Contestualmente a questa si era introdotta la
novità di riservare nuovamente al diacono l’invito Levate. Questo secondo invito era, nella forma tradizionale, di
spettanza del suddiacono ed era anzi concepito, rispetto all’antichità in cui
manteneva la sua caratterizzazione di monizione diaconale, come una vera e
propria risposta all’invito Flectamus
genua. A conforto di questo, si veda come "tipograficamente" esso era reso ossia con la lettera
“R” barrata che da sempre indica la risposta. Nonostante queste riforme lo
trasformino in un invito riservato al diacono si mantennero, almeno nelle
edizioni che qui abbiamo usato e citato, gli espedienti grafici menzionati,
probabilmente per la fretta che contrassegnava le riforme. A sostegno del fatto
che il Levate venisse considerato
alla stregua di una risposta, aggiungo che - in assenza del diacono - era il
celebrante a pronunziare il Flectamus
genua (anche nelle altre occasioni dell’anno liturgico in cui occorreva),
mentre il servente rispondeva Levate
(cfr. Tit. V, Cap. II, 13, Memoriale
Rituum…cit., p. 55). La definitiva destinazione al diacono del Levate si ebbe solo con l’edizione
giovannea del messale (cfr. Rubricae generales Missalis romani, Cap. VIII, 440,
in MR 62, p. (51).).
[107] Cfr. Rubr. in
Feria VI in Pass.et Morte Dom. 17, in OHS, p. 93 e s..Nella prassi tradizionale
si andava – anche i laici - appunto “bini et bini” (Rubr. in Feria VI in
Parasceve, in MR 52, p. 187). Più sotto descriveremo scoprimento e adorazione.
[108] Si usava
esporre un'altra croce fuori dai cancelli oppure anche si dava da baciare una
più piccola ai fedeli inginocchiati alla balaustra. Do qui qualche
ragguaglio di come si svolgeva questa seconda parte della funzione nella forma
tradizionale. Terminate le solenne orazioni, il sacerdote, toltosi la pianeta,
riceveva dalle mani del diacono la croce velata. Stando nell’angolo posteriore
dell’altare dal lato dell’epistola, scopriva, stando verso il popolo, la parte
superiore della croce e, coi sacri ministri, cantava l’ Ecce lignum. Proseguiva lo scoprimento recandosi presso la parte
anteriore dell’altare sempre dal lato dell’epistola. Ivi, con le stesse
modalità, procedeva al secondo scoprimento (braccio destro). Si recava, infine,
in mezzo dell’altare e scopriva la croce completamente. Il celebrante si recava
a poggiare la croce e quindi, recatosi allo scanno, deponeva le calzature; iniziava
quindi l’adorazione della croce al canto degli Improperia. Verso la fine dell’adorazione veniva completata la
preparazione dell’altare per la messa dei presantificati mediante l’accensione
dei ceri, lo spiegamento completo della tovaglia, e il posizionamento del
corporale nel mezzo. Una volta che tutti avevano compiuto l’adorazione della
croce, la stessa – per mezzo del diacono - veniva collocata al suo posto usuale.
[109] Cfr Rubr. in
Feria VI in Pass. et Morte Dom. 20, in OHS, p. 97: La croce, una volta compiuta
l’adorazione, va portata dai due accoliti che la sostennero all’altare, essi
sono accompagnati dagli altri due che fungono da ceroferari. La croce va posta
in modo che sia ben visibile ai fedeli ma, nel contempo, non sia d’impiccio al
celebrante nelle cerimonie che seguiranno. È una rubrica indubbiamente assai
articolata latrice di diverse esigenze; essa cozza e stride con la semplicità
della rubrica tradizionale (cfr. Rubr. in Feria VI in Parasceve, in MR 52) per
la quale la croce, come abbiamo visto sopra, riprende il suo normale posto
sull’altare.
[110] Cfr. Rubr. in
Feria VI in Pass. et Morte Dom. 21, in OHS p. 97.
[111] Richiamo
brevemente le modalità con le quali si compiva la messa dei presantificati
propriamente detta, ossia quella che qui convenzionalmente definiamo terza e
ultima parte della liturgia del venerdì santo. Compiuta, come si è visto,
l’adorazione e ricollocata la croce – per mano del diacono – al suo posto
abituale, si formava la processione per riportare il calice con l’ostia consacrata
al sepolcro. Il sacerdote al sepolcro indossava sulle sue spalle il velo
omerale; il Santissimo veniva riportato all’altare con la stessa solennità con
cui fu portato via il giorno precedente (lumi, baldacchino e due turiboli).
All’altare l’ostia veniva posta sul corporale, il calice era riempito di vino
ed acqua e si effettuava l’incensazione come si costuma fare all’offertorio.
Lavatesi le mani e detto l’ Orate fratres,
il celebrante cantava la consueta orazione che precede il Pater noster e quindi l’orazione dominica stessa, quindi elevava
l’ostia, per poi spezzarla e mettere nel calice un frammento. Seguiva la
comunione del celebrante (preceduta dal solo Perceptio Corporis tui e dal Panem
caelestem) e, infine, l’abluzione.
[112] Per notizie
storiche a questo rigurado si veda G. MORONI, Le Cappelle Pontificie…cit, p. 218 e ss. e 231 e ss. e F.
CANCELLIERI, Descrizione delle funzioni…cit.
p. 69 e ss. e 136 e ss..
[113] Esse sono: Adoramus te Christe, Per lignum servi facti sumus, Salvator mundi (OHS, p. 98). Riportiamo
l’interessante dato storico di cui abbiamo testimonianza da parte del cardinale
Domenico Bartolucci, intervistato, per il blog “Disputationes Theologicae” da
don Stefano Carusi e Pucci Cipriani per il quale, san Giovanni
XXIII, per mezzo del cerimoniere Enrico Dante chiese l’esecuzione del Vexilla
Regis al venerdì santo (cfr: http://disputationes-theologicae.blogspot.it/2009/08/mons-bartolucci-interviene-sulla.html),
si hanno altresì testimonianze fotografiche del Santo che adora la croce nelle
forme tradizionali (cfr. http://disputationes-theologicae.blogspot.it/2010/03/la-riforma-della-settimana-santa-negli.html).
[114] Cfr. Rubr, in
Feria VI in Pass. et Morte Dom. 26 e 27, in OHS, p. 99.
[115] Cfr. Rubr. in
Feria VI in Pass. et Morte Dom. 29, in OHS, p. 99. Nella forma restaurata
sparisce l’elevazione – effettuata dopo il Libera
nos (nell’occasione cantato in tono di orazione feriale)- mediante la quale
l’ostia, consacrata il giorno precedente e serbata nel calice, veniva mostrata
agli astanti (cfr. Rubr. in Feria VI in Parasceve, in MR 52, p. 192).
[116] Cfr. Rubr. in
Feria VI in Pass. et Morte Dom. 29, in OHS, p. 99. Di norma quando si comunica
il celebrante sta “parum inclinatus” (cfr Rubr. in Canon Missae, in MR 52, p.
330); stessa indicazione nel messale del beato Giovanni XXIII (cfr. Rubr. in
Ordo Missae, in MR 62, p. 457).
[117] Ricordo
che appunto il giovedì santo era consacrata una seconda ostia. Questa, prima
della consueta abluzione delle dita, veniva posta dentro un calice, coperto – a
sua volta - da una palla, una patena
capovolta e un velo. (Cfr. Rubr. in Feria V in Cena Domini, in MR 52, p. 172).
Si nota il costume di legare il calice così composto con un laccio di seta;
tale uso si trova codificato nel Memoriale
Rituum…cit., (Tit. IV, Cap. II, 5 De Feria V in Coena Dom.), p. 44:
verrebbe da supporre si tratti di un’attenzione aggiuntiva motivata dal fatto
che nella forma semplice il celebrante non è aiutato dal diacono poi
diventata di uso comune e prevista dagli autori.
[118] A titolo
esclusivamente esemplare, senza poter qui esaurire l’argomento, ricordo che
l’ Ordo XXXII (redatto a Corbie nel
IX secolo) riferisce che nella messa del giovedì santo “reservanti de ipso
corpore et sanguine” e ciò, come dice l’Andrieu, in accordo col sacramentario
gelasiano. (cfr. M. ANDRIEU, Les Ordines Romani du hau
moyen age …cit, III, p. 517).
[119] Cfr. Lib. II, Cap. XXIX, 3-4, in Caeremoniale episcoporum…cit., pp. 212 e
s..
[120] Cfr. Rubr. in
Feria VI in Pass. et Morte Dom. 35, in OHS, p. 100.
[121] Cfr. Rubr. in
Feria VI in Pass. et Morte Dom. 37, in idem,
p. 100.
[122] Si noti come la forma restaurata comporti – probabilmente proprio per scongiurare una
somiglianza con la messa - l’omissione delle incensazioni, della preparazione
del calice, dell’incensazione delle oblate, la lavanda delle mani e l’ Orate fratres. (cfr. Rubr. in Feria VI
in Parasceve, in MR 52, p. 190).
[123] Riporto
qui il testo: Concede, quaesumus, omnipotens Deus: ut, qui Filii tui
resurrectionem devota exspectatione praevenimus: eiusdem resurrectionis gloriam
consequamur (cfr. Sabbato sancto ad Laudes, in Officium Hebdomadae Sanctae…cit., p. 302; ivi anche la rubrica che
prescrive la conclusione silenziosa).
[124] I vesperi
sono terminati con la conclusione silenziosa dell’orazione citata senza nulla
altro. (Cfr. idem, p. 319)
[125] La rubrica
indica che la veglia tiene il posto del mattutino, cfr Rubr. in Dom. Resurr. in
idem, p. 323.
[126] Così anche
nell’edizione giovannea del breviario. (cfr. Breviarium Romanum, Tomus Prior, Mechliniae, Dessain, 1961, pp. 686
e ss..
[127] Su questa
targa, che spesso conteneva la data della Pasqua e delle altre feste mobili, M.
RIGHETTI, Manuale di Storia Liturgica…cit.
II, p. 195.
[128] Cfr Rubr. in
Sabb. Sancto, de Vigilia Paschali, 9, in OHS, p. 104.
[129] Rubr. Feria V
in Coena Dom. ad Laudes, in Breviarium romanun…cit.,
p. 458.
[130] Nel
rito restaurato, il cero, è anzitutto recato da un accolito al cospetto del
celebrante fuori dalla chiesa, egli, una volta benedetto il fuoco, lo incide
(con uno stilo) tracciando una croce, traccia le lettere greche “A” ed “Ω” e
quindi le cifre dell’anno corrente, conficca i cinque grani di incenso, lo
accenda e quindi lo benedica (cfr. rubr. in Sabbato sancto, de Vigilia Paschali
5, 6, 7, 8 in OHS, pp. 103-104).
[131] Cfr Rubr. in
Sabbato sancto, de Vigilia paschali 10, in OHS, p. 104.
[132] Secondo la
forma tradizionale si procede con questo ordine: precede il turiferario con
l’accolito che sorregge il vassoio con i cinque grani di incenso (che saranno
infissi successivamente dal diacono durante il preconio, dopo le parole curvat imperia), il suddiacono con la
croce, il clero per ordine e quindi, finalmente, il diacono con l’arundine e il
celebrante. Il diacono ha accanto a sé un chierico che porta una candela accesa
al fuoco nuovo con il quale saranno accesi i tre ceri dell’arundine alle tre
invocazioni Lumen Christi effettuate dal diacono. (cfr. Rubr. in Sabb. Sancto,
in MR 52, p. 194).
[133] Cfr. Rubr. in
Sabbato Sancto, de Vigilia Paschali 11, in OHS, p.105.
[134] Qui l’Autore
usa la parola jubé, esso era
caratterizzato dalla presenza degli amboni in luogo rialzato laddove trovava
altresì collocazione naturale il cero pasquale.
[135] La
benedizione è strutturata e modellata proprio come quella che si adopera per il
vangelo della quale questa sembra quasi un adattamento. Le stesse rubriche –
per di più- fanno cenno alla
similitudine con la proclamazione del vangelo. Questo di certo non fa
meraviglia, considerando che sia la proclamazione della pericope evangelica,
sia quella del precondio sono due tipiche incombenze diaconali. Il diacono, una
volta ricevuta la benedizione, posto il libro sul leggio e incensatolo, inizia
il canto dell’Exultet. Egli ha alla
sua destra il suddiacono che tiene la croce astile, alla sua sinistra un
accolito che sorregge l’arundine, questi ha il compito molto pratico di
rischiararlo durante il canto; alla sinistra dell’accolito con l’arundine un
altro accolito reca il bacile con i cinque grani d’incenso da inserire nel
cero. (cfr. Rubr. in Sabbato Sancto, in MR 52, p. 194).
[136] Secondo la
modalità restaurata, il cero, viene posto in mezzo al coro su un piccolo
sostegno provvisorio. Il diacono riceve la benedizione dal celebrante che sta
“ad locum suum in choro, in latere epistolae”e che prima ha imposto e benedetto
l’incenso. Ricevuta la benedizione si reca al leggio situato innanzi al cero.
Incensa il libro e va ad incensare il cero; tornato al leggio egli inizia la
proclamazione del preconio. Ha innanzi a sé il cero acceso, a destra l’altare e
a sinistra l’aula della chiesa. (cfr. Rubr. in Sabbato Sancto, De vigilia
paschali, 12 e 13, in OHS, p. 105.).
[137] Le lezioni
vengono lette nello stesso identico luogo dell’ Exultet: (cfr Rubr. in Sabbato Sancto, De vigilia paschali, 15 in
OHS, p. 105.).
[138] Nella forma
tradizionale, una volta finito l’ Exultet,
nello stesso momento in cui il diacono si toglieva il manipolo e la dalmatica
bianca per riprendere i paramenti viola, il celebrante, toglieva il piviale e
indossava la pianeta. (cfr. Rubr. in Sabbato Sancto, in MR 52, p. 204). È
interessante notare come questa rubrica inizi con le parole “Completa
benedictione Cerei […]” alludendo che il preconio consista nella benedizione
diaconale del cero pasquale. È la stessa rubrica nella quale si dà mandato ai
presbiteri di preparare – durante la proclamazione delle dodici lezioni – i
catecumeni al battesimo. Ciò ci fa ritenere trattarsi di una rubrica molto
antica o scritta con la chiara memoria di usi particolarmente vetusti.
[139] Nella forma
restaurata, mentre si cantano le litanie fino all’invocazione “Omnes Santi et Sanctae
Dei”, si prepara in coro, verso il lato dell’epistola, un fonte, qui il
celebrante compirà, stando “coram populo” il rito di benedizione con
l’alitazione, l’immersione del cero, l’infusione degli olii ecc. A questo
punto, se vi sono sono catecumeni da battezzare, impartirà loro il lavacro
battesimale. A questo punto si snoda una processione per recare l’acqua al
fonte. Una volta che questa è stata versata, il celebrante canta un’orazione e
incensa il fonte(cfr. Rubr. in Sabbato Sancto, De vigilia paschali 20, 21 e 22
in OHS, pp. 122 e ss.).
[140] La forma
restaurata assegna a questo momento il canto, le cui parole sono mutuate dal
salmo 41, del Sicut cervus. Nella
forma tradizionale, una volta che le dodici lezioni e l’ultima colletta cono
state lette, il celebrante e i sacri ministri muovevano in processione verso il
fonte al canto summenzionato. Giunti all’ingresso il sacerdote canta l’orazione
“juxta fontem” quindi, una volta entrato inzia il rito della benedizione e
quindi impartisce gli eventuali battesimi (cfr. Rubr. in Sabbato Sancto, in MR
52, p. 216.). Righetti non manca di notare il tutt’uno costituito dalla copiosa
(e sicuramente di origine arcaica) mole di letture veterotestamentarie (di cui
abbiamo già detto) e il rito di benedizione del fonte con i battesimi, nella
quale si staglia questa processione alla quale anticamente partecipavano i
catecumeni coi loro padrini: l’analogia con il loro bramare l’acqua rigenerante
del battesimo con l’immagine del cervo assetato che ricerca il fonte, produce
un’assonanza logica e facilmente intuibile. (cfr. M. RIGHETTI, Manuale di Storia Liturgica…cit. II,
p.198).
[141] Come si è
visto nella forma restaurata il Sicut
Cervus diventa un mero canto processionale che accompagna il corteo che
porta l’acqua appena benedetta e con la quale si sono già fatti dei battesimi,
al suo luogo naturale.
[142] Nella forma
tradizionale ciascuna invocazione litanica, in questa occasione, era ripetuta.
(cfr. Rubr. in Sabbato Sancto, in MR 52, p. 224). Il Righetti fornisce
un’interessante ipotesi per motivare storicamente tale prolissità nel canto: le
ltanie probabilmente costituivano preghiera e invocazione di coloro i quali
restavano nell’aula della chiesa mentre il celebrante e i suoi ministri stavano
al fonte (di spazi decisamente più angusti e poco approrpriati ad accogliere il
gran numero di persone che assistevano all’intera funzione), ecco perché le
invocazioni erano ripetute con ridondanza: “A Roma si cantavano tre volte le
litanie, in modo però che dapprima ogni invocazione veniva ripetuta sette
volte, quindi cinque e da ultimo tre.” (cfr. M. RIGHETTI, Manuale di Storia Liturgica…cit. II, p. 198 e s.)
[143] Cfr. Rubr, in
Sabbato sancto, de Vigilia Paschali 20 e 21, in OHS, p. 122: queste due
rubriche insistono su questa “visibilità” del celebrante e del fonte
“posticcio”.
[144] Cfr. Rubr. in
Sabbato sancto, de Vigilia Paschali 22, in idem,
p. 131.
[145] Cfr. Rubr. in
Sabbato sancto, de Vigilia Paschali 23, in idem,
p. 132. In tal caso si accede al battistero al canto delle litanie, essendo
ovviamente superflua la preparazione di un fonte provvisorio in presbiterio.
[146] La
rinnovazione delle promesse battesimali viene effettuata dal celebrante in
stola e piviale bianco. Egli incensa il cero e, voltandosi al popolo (oppure stando all’ambone o al pulpito),
inizia il rito che può essere effettuato in lingua volgare, ad esso segue
un’aspersione con l’acqua benedetta estratta prima dell’infusione degli olii.
(cfr. Rubr. in Sabbato sancto, de Vigilia Paschali, 24, 25, 26 in idem, pp. 132 e s.)
[147] Il ritorno in
presbiterio (dopo aver recato l’acqua al fonte o, essendoci il battistero
separato dalla chiesa, dopo la benedizione e battesimi) avviene in silenzio.
(Cfr. Rubr. in Sabbato sancto, de Vigilia Paschali 22 e 23, in idem, p. 131 e s.). Esaurita la rinnovazione delle promesse,
inizia la seconda parte delle litanie (dall’invocazione “Propitus esto”). Siamo
ben lungi dal recuperare un utilizzo processionale delle litanie, che pareva
proporsi nella rubr. 23, che coerentemente avrebbe riservato al ritorno la
seconda parte delle invocazioni. Ricordiamo che prima della forma restaurata le
litanie erano cantate mentre i ministri erano prostrati sui gradini
dell’altare. All’invocazione “Peccatores” si alzavano per recarsi in sacrestia
a indossare i paramenti bianchi della messa. (cfr. Rubr. in Sabbato Sancto, in
MR 52, p. 224)
[148] Cfr. Rubr. in
Sabbato sancto, de Vigilia Paschali, 29, in OHS, p. 133; qui si parla sia dello
spostamento del cero dal suo supporto provvisorio verso il “candelabrum suum”
situato al lato del vangelo, che dei fiori. Le rubriche del messale mai
parlavano dei fiori. Questo potrebbe essere un retaggio dell’ uso
marcatamente romano di non collocare
fiori sull’altare. Viceversa si parla di fiori nel Caeremoniale episcoporum, e tale introduzione – secondo Gromier -
potrebbe essere dovuta alla partecipazione di diversi milanesi (san Carlo
Borromeo, Pietro Gelasini suo rappresentante, Giovanni Paolo Clerici cerimoniere della cattedrale milanese) alla
redazione di tale libro liturgico e dal loro essere influenzati dai costumi
ambrosiani. (cfr. L. GROMIER, Commentaire…cit., p. 119).
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