Nel corso del 2019, la rivista di studi storici goriziani "Borc San Roc", ultima sopravvissuta di una tradizione di analoghe testate del Friuli Orientale, diretta dal mio Confratello d'abito teutonico Vanni Feresin fam. OT, mi volle affidare uno scritto volto a fissare il ricordo dei cinquecento anni trascorsi dall'ultima pubblicazione a stampa del Missale di rito aquileiense, avvenuta a Venezia per i tipi di De Gregoris. Com'è ai più noto, trascorso nemmeno un secolo, la vasta e scissa politicamente provincia ecclesiastica aquileiense adotto i libri liturgici romani riformati "ad mentem" del Tridentino. In questo scritto ho avuto modo di richiamare alcune particolarità dell'uso aquileiense che, sebbene discostino di poco dal rito romano, meritano di essere poste all'attenzione. Questo contributo vuole essere l'inizio di un percorso di riscoperta, anche per questo motivo ringrazio Vanni Feresin per avermi dato l'assenso che esso venga pubblicato anche in questo mio blog a beneficio dei potenziali interessati. Il contributo può essere scaricato qui, entro la fine dell'anno sarà scaricabile l'intero numero della rivista (dunque con le immagini ecc.) al sito della stessa.
Sancti Hermagora et Fortunate orate pro nobis!
F.G.T.
Correva
l’anno 1596, i vescovi – o i loro rappresentanti – della vastissima provincia
ecclesiastica aquileiense, si trovavano riuniti al castello di Udine: in
ottemperanza al dettato del Concilio di Trento si celebrava il primo Sinodo [1].
Sedeva allora, sulla cattedra che si vuole di sant’Ermagora, il patriarca
Francesco della famiglia patrizia veneziana dei Barbaro, ex officio chiamato
a presiedere l’assise sinodale. Egli, uomo di robusta esperienza diplomatica,
ma parimenti di sincera pietà e spiccato spirito ecclesiale, intendeva
promuovere ed attuare quella riforma della Chiesa, voluta e teorizzata a Trento,
concepita come risposta concreta, organizzata ed efficiente alla sfida
rappresentata dal protestantesimo, una sfida rivolta non solo all’ortodossia ma
anche all’equilibrio socio-politico di quella che allora ancora si poteva
chiamare Res publica christiana. Tra le delibere sinodali qui ci soffermeremo
su quella che riguarda l’ambito liturgico: il Sinodo ordinò la sostituzione del
rito aquileiense con quello romano. Risulta necessario uno sguardo
retrospettivo che ci consenta di cogliere, per lo meno, quali che furono i
motivi sottesi alla scelta e i fondamenti sui quali si volle fondarla. Tra i
motivi adotti a suffragio dell’abbandono dei costumi liturgici nostrani e in
favore dell’adozione di quelli romani, si addusse la penuria dei libri propri
di quel rito che si definisce come aquileiense che affliggeva le chiese delle
diocesi ricadenti nella sfera del patriarcato. La questione è tutt’altro che
irrilevante, come potrebbe apparire ad un primo fugace sguardo, essa non è
certo limitabile a una mera complicanza logistica: il libro liturgico è
strumento essenziale per un’ortoprassi intesa a tutela dell’ortodossia. Anche
per tale considerazione i Padri Conciliari, durante le sessioni tridentine,
avvertirono la necessità di poter disporre, e dunque provvedere la Chiesa, di
libri liturgici sicuri dottrinalmente, essi demandarono, pertanto, alla Sede
Apostolica il grave compito di redigere e promulgare dei testi con tale
essenziale caratteristica.
All’epoca
le diocesi suffraganee di Aquileia utilizzavano per la celebrazione della Messa,
delle Ufficiature, la somministrazione dei Sacramenti e Sacramentali, una
liturgia propria che dalla sede patriarcale mutuava il nome. Si registrava,
però, una certa disaffezione verso tali usi che trovava la sua espressione preferendo,
talvolta, far ricorso al rito romano, specie a motivo della più immediata
reperibilità dei testi. Va riscontrato che durante le visite pastorali,
disposte ad mentem del Tridentino, si era avvertita – ad esempio da
parte del visitatore Cesare De Nores – la necessità di una restaurazione
dell’uso locale. Ma tale espediente era diventato sistematico in alcuni
territori: ce lo ricorda, per fare degli esempi, il Kandler, per quanto attiene
il territorio istriano, laddove de facto si era addivenuti ad
un’adozione tout court del rito romano una decina di anni prima della
celebrazione del Sinodo udinese [2].
Il Guéranger riporta le testimonianze del cattarino Paolo Bisanti, che nel suo
ufficio di Vicario del Patriarca ricevette indicazione da Roma ove si
raccomandava come cosa santa ed opportuna la preservazione dei libri
aquileiensi: anzi, la celebrazione pubblica delle Ore canoniche, doveva avvenire
secondo i libri del patriarcato, viceversa si tollerava che la recitazione
privata potesse avvenire con il Breviarium romanum, ciò nelle more che
si fosse provveduto alla ristampa se del caso a carico dello stesso Patriarca [3].
È ancora il Bisanti a riferire che l’osservanza della liturgia propria del
Patriarcato si serbava più nelle periferie che altrove [4].
Ulteriore forma di complicazione è data dal fatto che intervenivano anche forme
di varietà all’interno del rito stesso: è il caso – per esempio - di Cividale, laddove, presso la Collegiata,
i chierici capitolari, canonici o mansionari che fossero, pretendevano – in
forza dell’antichità del costume – di far ricorso a testi ed usi locali diversi
tanto dall’uso romano quanto da quello aquileiense [5],
o ancora per l’uso - dettato dal privilegio della Sede Apostolica o dalla
consuetudine - in seno alle popolazioni
slavofone, del glagolitico per le ufficiature [6].
Una situazione liturgica caotica dunque, una pluralità rituale non regolata ed
anzi soggettiva, empirica ed improvvisata: uno status che, se
confrontato al modello di Chiesa “ut castrorum acies ordinata” proposto a
modello da Trento appare difforme, quando non addirittura stridente. La
risoluzione perciò del 1596 non può decisamente essere interpretata come un
“fulmine a ciel sereno”, semmai potrebbe rappresentare l’esito di quella che il
Guéranger denomina una “revolution liturgique” [7].
Ma
il rito locale in uso nel Patriarcato avrebbe potuto incontrare il favor juris
e dunque, almeno in punta di diritto, avrebbe potuto sopravvivere? La risposta
non può che essere affermativa. Come abbiamo ricordato, in forza delle
deliberazioni dei padri conciliari, la Santa Sede si era fatta carico di
promulgare i libri liturgici. Due di essi, primi in ordine di tempo, videro la
luce durante il pontificato di papa san Pio V: si tratta del Breviarium
romanum (1568) e del Missale romanum (1570) [8].
Il primo fu promulgato con la bolla “Quod a nobis”, il secondo con la “Quo
primum tempore”. Ai sensi della volontà del supremo legislatore, espressa nel
dettato di questi due solenni documenti, si impone l’adozione dei libri romani ove
non si disponesse di riti propri che potessero vantare un’antichità di almeno
due secoli. Il motivo sotteso a tale prerequisito lascia intuire il timore che
usi liturgici recenziori – o consolidatisi tardivamente – avessero potuto
contenere formulazioni eterodosse o ambigue cagionate da influssi di matrice
protestantica. Un limite temporale di cautelativa salvaguardia che si comprende
– a fortiori – considerando il vibrante attacco alla dottrina
eucaristica e al sacerdozio ministeriale posto in essere dal protestantesimo
nelle sue differenti declinazioni. Verosimilmente gli usi liturgici del
Patriarcato erano indenni da tali contaminazioni, ma è pur vero che le dottrine
ereticali, non solo avevano lambito i confini di questa immensa unità
ecclesiastica, ma da oltralpe, da Venezia e dall’Istria erano penetrate al suo
interno. Pur senza addentrarci nel dettaglio è d’uopo fugacemente avere
presente qualche caso esemplare come l’apostasia del vescovo di Capodistria
Pier Paolo Vergerio [9],
in un Istria che «relativamente alle dimensioni e agli abitanti, risultò
interessata al fenomeno della riforma luterana come forse nessun’altra
provincia in Italia» [10]
facendo proseliti specialmente tra il
basso clero delle campagne (si pensi alla predicazione di Mattia Flacio/Vlačić,
Baldo Lupetina di Albona o all’attività storico-letteraria di Pietro Console da
Pinguente), la predicazione di Primoz Trubar, già cappellano del vescovo di
Trieste Pietro Bonomo, che in Gorizia – complici gli Attems e i Torriani –
mirava a strutturare una comunità luterana pur invisa alla popolazione [11].
Di certo queste situazioni – e molte altre similari - non erano misconosciute ai
vescovi riuniti a Udine, edotti altresì dalle evidenze delle visite che
mostravano, impietosamente, una scarsa adeguatezza formativa del clero (fu lo
stesso Francesco Barbaro ad istituire pochi anni dopo il Sinodo il Seminario
Patriarcale a Udine), viziato talvolta da mende di natura morale, diffusione
della superstizione ecc. Una gamma situazionale certo non di esclusivo
appannaggio del Patriarcato d’Aquileia, però un’unità ecclesiastica così vasta
territorialmente, variegata etnicamente, e divisa politicamente, complicava
ulteriormente l’attuazione di soluzioni efficaci.
Proprio
all’insegna della semplicità di attuazione ci sembra di poter annoverare la
scelta liturgica del Sinodo di Udine: un’indicazione semplice e dunque
esigibile. Adottare i libri romani si trovava ad essere oggettivamente più praticabile
ed immediato che non disporre una revisione ad mentem del Concilio
tridentino dei libri locali e provvedere alla loro edizione. Nel 1519 – dunque settantasette
anni prima del Sinodo udinese, e cinquantuno prima della bolla “Quo primum” – per
i tipi di De Gregoris a Venezia, aveva visto la luce l’ultima edizione del
messale proprio del Patriarcato: “Missale Aquileyensis Ecclesie cum omnibus
requisitis atque figuris nuperque emendatissime perlustratum. Anno 1519 die 15
septembris. Venetiis ex officina libraria Gregorii de Gregoriis.” [12].
Dall’avvento della stampa la Chiesa, ben comprendendone le immense
potenzialità, aveva affidato ai torchi di rinomati stampatori i libri liturgici.
Frontespizio dell'ultimo messale aquileiense |
Per
quel che concerne il Patriarcato aquileiese, la prima edizione a stampa del
messale avvenne ad Augusta nel 1494 (stamperia di Erardo Ratdolt). Nel primo
ventennio del XVI secolo, furono quattro le edizioni del messale, tutte
avvenute a Venezia, città rinomata per l’arte della stampa e dove si trovavano
diversi laboratori che si erano specializzati nella produzione dei “rossi e
neri” [13].
La prima edizione veneziana fu provveduta da Luca Antonio Giunta nel 1508, la
seconda e la terza uscirono nel 1517 dalla stamperia di Pietro Liechtenstein [14]
e di Giacomo Pencio. Ultima, appunto, quella del 1519 dei De Gregoriis, tra i
tipografi che «portarono l’illustrazione dei libri al più alto splendore» [15].
Difatti l’ultimo messale aquileiense può vantare una raffinata ricercatezza che
si rileva anche dalla copiosa presenza di xilografie, di cui tredici in piena
pagina e ben 555 di formato minore. Nelle xilografie maggiori ritroviamo
raffigurati personaggi della Scrittura (es. profeti ed evangelisti), padri
della Chiesa (es. san Girolamo e sant’Agostino), non mancano le citazioni
paganeggianti con la raffigurazione di Sibille; alcune esuberanti cornici –
specialmente poste ad apertura di importanti feste dell’anno liturgico –
presentano chiare allusioni alle stesse.
Il
contenuto del Missale Aquileyensis ci rivela fin da subito la
similitudine con l’omologo romano: c’è una concordanza degli Autori
nell’affermare che, in seno al rito aquileiense, si era concretizzato un
processo di adeguamento al rito romano, tanto da appiattirsi su di esso e
divenirne, all’apice del suo corso storico, una mera variante [16],
sicuramente però esso ci consente per lo meno di cogliere come si celebrasse
con questo rito al momento dell’abbandono dello stesso. Si è ragionato di
“similitudine” con il rito romano, ciò non è sinonimo di “identità”: esistono
dunque delle peculiarità sulle quali vale la pena soffermarsi, sebbene
riteniamo, prudenzialmente, dall’astenerci dal classificarle come tipicamente
aquileiensi; per giungere a simili conclusioni sarebbe necessario un previo
stretto confronto con testimoni analoghi specie provenienti da aree
geograficamente viciniori al Patriarcato.
Uno
sguardo all’ “Ordinarium missae” ossia quella parte della messa che, a
prescindere dalla ricorrenza celebrata rimane – con poche varianti – costante.
Esso trova posto nei fogli che vanno dal 123 r., sino 156 r. situati dopo la
festa del Corpus Domini. Accettando la comune suddivisione che suole
denominare la prima parte della messa sino all’offertorio “Missa
cathecumenorum” (parte didattica) noteremo, nel nostro testimone, una estrema
esiguità di testi: essi trovano posto nei fogli 123, 124 v. e r. Il primo
foglio contiene rubriche (stampate in rosso) che danno indicazioni sul testo
della messa da scegliersi in certe occasioni, quando sia da dirsi l’inno
angelico e il simbolo niceno – costantinopolitano, quando e come siano da
aggiungersi orazioni a quelle del giorno. Di testi propriamente detti, il primo
a comparire è proprio quello dell’inno angelico (con la relativa titolazione
“Cantus angelicus”), ossia il Gloria. Di esso si propongono due testi
differenti. Il primo non varia dal rito romano se non nella parte che menziona
il Figlio di Dio che viene così formulata (indichiamo con il corsivo la parte diversa
dal testo del messale romano): «Dómine Fili unigénite, Jesu Christe altíssime»,
fa subito seguito un’indicazione “vel” in rosso che precede l’aggiunta «et
sancte spiritus» (f. 174 v.) [17].
Segue un secondo testo del Gloria che, dalla titolazione, apprendiamo
essere destinato alle feste della Madre di Dio. Con lo stesso criterio di prima
riportiamo il testo per esteso: «Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis.
Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi
propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cœléstis, Deus Pater omnípotens.
Dómine Fili unigénite Jesu Christe. Spíritus et alme orphanórum paráclite.
Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Primogénitus
Maríæ Vírginis Matris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui
tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Ad Maríæ glóriam.
Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus sanctus Maríam
sanctíficans. Tu solus Dóminus. María gubérnans. Tu solus
Altíssimus. Maríam corónans, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu, in glória
Dei Patris. Amen» (f. 174 v. e r.). Il testo sottolineato costituisce un
“tropo” all’inno angelico. Visto la diffusione dei tropi nella produzione
liturgica medievale varrà la pena brevemente soffermarsi. Il tropo, dalla
parola greca τρόπος (cambio), è una fioritura di un testo – spesso composto
in ritmo poetico e melodicamente omogeneo allo stile del canto liturgico cui si
va ad aggiungere - rappresenta un tentativo sia di fornire una didascalia al
testo che viene “farcito” sia un tentativo di solennizzazione. Tale genere ci
tradisce uno slancio e una tensione tipici dell’epoca in cui ebbe a
proliferare; esso può precedere, seguire, oppure spezzare – come in questo caso
– il testo liturgico originario [18].
La riforma tridentina ebbe a eliminare tali aggiunte, talvolta piuttosto
esuberanti o sconfinanti nel profano, perché minanti la purezza ed
intelligibilità del testo originario. La prima impressione è che ci troviamo innanzi
ad una particolarità aquileiense, purtuttavia - corre l’obbligo di rammentare –
il tropo “de beata virgine” ricorre con moltissima frequenza in messali e
codici musicali dell’età di mezzo e perciò possiamo escluderne la tipicità.
Esso ebbe una tale fortuna che le rubricae del messale di san Pio V ne facevano
un riferimento abbastanza esplicito per evitare che si adoperasse [19].
Segue immediatamente il testo del simbolo niceno – costantinopolitano (f. 174
r.), nel quale si staglia, dopo le parole “et homo factus est” una piccola
croce in colore rosso. Il motivo della presenza di questo segno nel testo non è
dato, allo stato attuale, di conoscere, si formulano però, sommessamente, due
ipotesi. La prima è che esso costituisca un’indicazione della fine della
riverenza normalmente associata - nel rito romano e diffusa negli altri riti
occidentali- alle parole del simbolo che si riferiscono al mistero
dell’incarnazione del Verbo, però l’impianto rubricale estremamente scarno,
caratteristica peraltro altro assai comune ai testimoni pretridentini, non ci
consente di coglierlo con esattezza. La seconda è che stia ad indicare un segno
di croce da farsi alle parole che seguono: “Crucifíxus etiam pro nobis”, in
tale caso potrebbe essere una, seppur piccolissima, peculiarità dell’uso
nostrano. Che la presenza di questa croce non sia riconducibile ad un errore
del tipografo parrebbe escluso dal suo ricorrere anche nelle due edizioni del
1517. La parte relativa alla “missa cathecumenorum” si esaurisce dunque solo con
i testi delle due forme dell’inno angelico e con il simbolo.
Ma
come iniziava la messa nel rito aquileiense? Perché questi testi non trovano
spazio nel corpo del Missale aquileyensis? Sulla scorta soprattutto degli
scritti del domenicano cividalese padre Bernardo De Rubeis, che aveva avuto
modo di consultare diversi manoscritti, molti dei quali oggi dispersi, possiamo
tentare di abbozzare una ricostruzione [20].
Va subito precisato che i formulari, probabilmente, presentavano varietà: «quae
fortasse juxta varias Ecclesiarum ritus Aquilejensis consuetudines, proque
Sacerdotum arbitrio, varia fuerit.» [21].
La messa iniziava con la consueta formula “In nómine Patris, et Fílii et
Spiritus Sancti. Amen”, cui si aggiungeva l’invito “Adjutórium nostrum in
nómine Dómini.” e quindi “Introíbo ad altáre Dei.”, con la risposta “Ad Deum
qui lætíficat juventútem meam.” (dal Salmo 42).
La formula di confessione del celebrante era preceduta dal versetto:
“Confitémini Dómino quoniam bonus.”, con la continuazione dello stesso come
risposta “Quóniam in sǽculum misericórdia ejus.” (dal Salmo 117), quindi da
“Misereátur nostri Deus. Amen.”. Il sacerdote recitava la formula di
confessione: “Confíteor Deo omnipoténti et beáte Maríæ semper Vírgini istis et
omnibus sanctis Dei et vobis frátribus meis quia peccávi nimis cogitatióne
locutióne ópere et omissióne: mea culpa mea máxima culpa. Ideo precor gloriósam
Vírginem Maríam, istos et omnes sanctos Dei et vos fratres ut orétis pro me
peccatóre ad Dóminum Deum Patrem omnipoténtem ut misereátur mei.”. Il pronome
“istis”, nel corpo del testo della confessio, potrebbe alludere ai santi
le cui reliquie si serbano nel sepolcreto dell’altare in cui si sta celebrando [22].
Si recitava quindi la formula di assoluzione all’indirizzo del celebrante:
“Misereátur tui omnípotens Deus et dimíttat tibi ómnia peccáta tua, líberet te
ab omni malo confírmet et consérvet te in omni ópere bono et perdúcat ánimam
cum sanctis suis in vitam ætérnam”. Risposto “Amen.”, la formula di confessione
veniva ripetuta al celebrante che poi pronunziava l’assoluzione [23].
Il sacerdote, una volta risposto “Amen”, facendosi il segno di croce, diceva:
“Indulgéntiam et remissiónem et absolutiónem ómnium peccatórum nostrórum
tríbuat nobis omnípotens Deus pius et miséricors.”. Aggiunta la risposta
“Amen”, il dialogo proseguiva: “Non nobis Dómine, non nobis.” cui si rispondeva
“Sed nómini tuo da glóriam.” (dal Salmo 113), Quindi: “Sacerdótes tui índuant
justítiam.”, con la risposta “Et sancti tui exsúltent.” (dal Salmo 131). E
ancora: “Ab occúltis meis, munda me, Dómine.”, con la risposta “Et ab aliénis
parce servo tuo.” (dal Salmo 18). Questa parte preparatoria si concludeva come
nel rito romano (“Dómine exáudi oratiónem meam.” e “Dóminus vobíscum.”). Il
sacerdote saliva dunque i gradini dell’altare, accompagnando l’ascesa con la
formula: “Aufer a nobis Dómine iniquitátes nostras ut ad sancta sanctórum puris
mereámur méntibus introíre.”[24].
A questo punto il celebrante baciava la mensa dell’altare recitando la formula:
“Orámus te Dómine per mérita beátæ Maríæ semper Vírginis istórum et ómnium
sanctórum quórum relíquiæ hic sunt, per eórum intercessióne dignéris indúlgere
ómnia peccáta nostra. Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum. Amen.”. Baciava
il principio del Vangelo dal messale aperto al lato destro dell’altare dicendo:
“Pax Christi quam nobis per evangélium suum trádidit consérvet et confírmet
corda et córpora nostra in vitam ætérnam. Amen.”[25].
Il celebrante, prima a recarsi a dire l’Introito, dal proprio del giorno,
rivolto alla croce recitava le due seguenti orazioni: “Per signum crucis de
inimícis nostris líbera nos Deus noster. Adorámus te Christe et benedícimus
tibi qui per sanctam crucem tuam redemísti mundum.” e “Deus, qui crucem
ascendísti et mundi ténebras illuminásti: tu corda et córpora nostra illumináre
et visitáre dignáre. Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum. Amen.” Il motivo
per il quale tali formulari non si riscontrano nel corpo del messale è
sicuramente dato dal fatto che essi non venivano letti da esso. Il messale si
trovava infatti già poggiato di lato sulla mensa, nel mentre il celebrante si trovava
ai piedi dell’altare, o stava salendo i gradini di esso, o si trovava nel mezzo
[26].
La
messa proseguiva in modo non dissimile dal rito romano. Verosimilmente possiamo
ritenere che, in talune circostanze, le invocazioni del Kyrie – recitato
dopo l’Introito - fossero arricchite da tropi, vista la presenza di queste
testimonianze in diversi codici musicali [27].
Seguivano – in modo del tutto analogo alla successione romana - l’orazione (o
le orazioni) di colletta, (dopo il Gloria – se il rito del giorno lo
prevedeva – o dopo il Kyrie). Era proclamata quindi l’epistola, cui
seguivano i brani interlezionali (graduale, alleluja e spesso la sequenza o,
nei tempi penitenziali, il tratto) e dunque il vangelo. La formula con cui il
celebrante benediva il diacono che si appressava a proclamare la pericope
evangelica, ci è riferita, ancora una volta, dal De Rubeis ed appare
leggermente dissimile dalla romana: “Dóminus sit in corde tuo et in lábiis
tuis, ut digne et competénter pronúncies Evangéliuum suum. In nómine Patris
ecc.” [28]
La seconda parte dell’Ordinarium missae è dedicata alla parte
sacrificale e si apre con i riti offertoriali (f. 124 r.), qui posti sotto il
nome di “Canon minor”, locuzione non infrequente in testimoni coevi e
medievali. Notiamo che i testi sono gli stessi del rito romano pur con un
corredo rubricale scarno, in linea con i libri pretridentini. Al termine dei
riti offertoriali trova posto, in modo del tutto analogo all’uso romano,
l’“Orate fratres”. La formula è preceduta da una rubrica che indica che il
celebrante, voltatosi “ad populum” si china leggermente. Il testo non riporta
la risposta alla formula presbiterale. Il King asserisce di averla trovata
annotata a margine di un esemplare del Missale aquileyensis del 1519 da
lui consultato custodito in una biblioteca londinese [29].
In ogni caso si tratterebbe di un’aggiunta posteriore, il testo del nostro
messale del 1519 riporta la conclusione, assente nel romano, “Per Christum
Dóminum nostrum.” che ci fa propendere per l’opinione che – almeno in questa
fase tardiva del rito - qui si rispondesse semplicemente “Amen.” [30]
. I fogli che vanno dal 125 r. sino al 126 r. raccolgono i testi dei Prefazi,
notiamo che essi sono gli stessi del Missale romanum di san Pio V [31].
Nel nostro messale, il Prefazio denominato nel romano comune è detto “Præfatio
quotidiana”. I fogli che vanno dal 127 v. a 153 v. raccolgono i prefazi
musicati. La notazione del cantus planus è realizzata sul caratteristico
tetragramma con le figure delle note rispondenti al canone della “hufnagel
notation” assai praticata oltralpe.
Esempio di hufnagel notation (preconio) |
Da queste pagine apprendiamo che nel rito
aquileiense si serbavano diversi toni recitativi sacerdotali destinati al canto
del Prefazio, distinti per il grado della festa: per le feste doppio maggiori,
per le feste con pieno ufficio e nove lezioni (sottointeso a Mattutino),
feriale e per i defunti, domenicale e per le feste con tre lezioni. La presenza
di melodie peculiari renderebbe necessaria un’analisi, specie comparativa, ed
una trattazione a latere [32].
Ancora in questa sezione troviamo inseriti, riteniamo per comodità tipografica,
altri recitativi spettanti al celebrante quali quelli del “Pater noster”, numerose
intonazioni del Gloria e del Credo nonché al diacono, ossia la
formula di congedo (“Ite, Missa est” o “Benedicámus Dómino”). Proprio tra gli
“Ite, Missa est” fanno nuovamente capolino formulari tropati. Nelle feste di
grado maggiore, a scelta il diacono poteva cantare: “Ite, benedícti et
electi in viam pacis, pro vobis Deo Patri hostia, Missa est.” (f.
149 r.) e nelle messe mariane: “Ite, benedícti et electi in viam pacis, pro
vobis Mariæ Fílius hóstia, Missa est.” (f. 151 v.). Proprio come in
ogni rito il Prefazio aveva il suo epilogo nel “Sanctus” [33],
verosimilmente, anche questo brano dell’Ordinarium misse non sarà stato
scevro da infarciture del testo con tropi [34].
Crocifissione, inizio del Canon Missae. |
Una
splendida immagine della crocifissione si staglia nel verso del foglio 153. La
parte sinistra appare dominata da santa Maddalena inginocchiata che abbraccia
la parte verticale della croce, mentre pare posare il capo ai piedi di Cristo.
Struggente la raffigurazione della Madonna: affranta dalla passione del Figlio,
pare colta da un malore e perciò sostenuta al ventre da ambo le mani di un
personaggio che le sta di schiena. All’estrema destra si staglia una figura
visibile solo di busto, col capo nimbato, nella quale si potrebbe individuare
san Giovanni, il discepolo prediletto. La scena del Golgota, appare circondata
da una cornice esuberante, ripartita in vari riquadri nei quali trovano posto
scene della storia sacra tra le quali evidenti allusioni al sacramento
dell’Eucarestia (es. gli ebrei che raccolgono la manna, l’ultima cena). Il
foglio posto a fianco accoglie l’inizio del Canon missae che occupa i
fogli che vanno dal 154 v. al 156 r.. Anche in questo ci troviamo innanzi a una
raffinata cornice. Sul lato sinistro di essa sono raffigurate delle sibille,
mentre su quello destro trovano spazio le immagini di quattro santi raffigurati
di mezzo busto (san Gregorio Magno, san Girolamo, sant’Ambrogio e sant’Agostino).
Nella parte superiore si trova raffigurato Cristo tra gli Apostoli, mentre
nella parte inferiore troviamo, ancora una volta a mezzo busto, gli evangelisti
san Marco e san Luca con i rispettivi animali che tradizionalmente li
simboleggiano e al centro il monogramma “G. G.” sormontato da una crocetta, riferito
allo stampatore. Desta un certo interesse l’immagine posta accanto alla prime
parole del Canone. Si tratta della raffigurazione della celebrazione della
messa, segnatamente al momento dell’elevazione dell’ostia. Allo stato attuale,
non ci è dato di conoscere se le xilografie siano state realizzate
espressamente per il Missale aquileyensis o siano state recuperate da
altre edizioni. Se fosse vera la prima ipotesi, tale raffigurazione ci consentirebbe
di trarre qualche dettaglio di natura cerimoniale. L’immagine è piuttosto
particolareggiata, tanto che ci consente di individuare persino la tonsura dei
capelli del sacerdote e del ministro! Il celebrante indossa una pianeta di
foggia ampia, secondo gli stilemi dell’epoca, nella parte inferiore del camice
appare identificabile un “gherone”, ossia un riporto quadrangolare – della
stessa stoffa dei paramenti – che si soleva applicare alle estremità del camice
[35].
Questa era una costumanza assai diffusa nell’età di mezzo che si era conservata
negli usi rituali di alcuni ordini e diocesi, pertanto si potrebbe dedurre che,
nel rito aquileiense, fino al suo abbandono, si era conservata tale
peculiarità. Anche in questo caso la scarna essenzialità del corpo rubricale
non ci consente di cogliere la presenza di particolari elementi caratteristici
rimontabili a peculiarità aquileiensi o, per lo meno di costumanze diverse dal
romano. Ad esempio non possiamo confermare, perlomeno all’epoca della vigenza
del nostro messale, l’uso, da parte del celebrante, di segnarsi (dicendo “In
nómine Patris ecc.”) all’inizio del Canon missae, baciare la mensa e
quindi l’immagine del Crocifisso posta nei messali all’inizio di questa parte
della celebrazione dicendo le parole “Dómine exáudi oratiónem meam, et clámor
meus ad te véniat. Orémus.” di cui ci dà
contezza il Kociančić, [36]
perlomeno non è bastevole basarsi meramente sulla presenza della raffigurazione
del Crocifisso nelle pagine poiché di utilizzo decisamente generale. Possiamo
ipotizzare che le parole dell’anamnesi (“Unde et memores”) – subito dopo la
consacrazione - fossero accompagnata dal gesto del celebrante di allargare le braccia
quasi de se cruciens faciens. Si tratta di un gesto di diffusione generale nell’Occidente
in età pretridentina. Pur essendo una prassi affermatasi tardivamente (fine del
XII secolo), in cui possiamo riconoscere in essa quella tendenza,
caratteristica degli uomini dell’età di mezzo, alla drammatizzazione e
all’allegorizzazione [37].
Particolarità
testuali nel Canon missae non ve ne sono se si eccettua la formula che
segue l’Agnus Dei. Dopo aver immerso il frammento dell’Ostia consacrata
nel calice il celebrante dice: “Fiat commíxtio, et consecrátio Córporis et
Sánguinis Dómini nostri Jesu Christi, accipiéntibus nobis in vitam ætérnam.
Amen.” (f. 156 v.). Il sacerdote, detta l’orazione “Dómine Jesu Christe qui
dixísti” (identica al romano), dopo aver baciato l’altare, dava la pace: “Pax
tecum et Ecclésiæ. Vade in pace. Habéte vínculum pacis et charitátis, ut apti
sitis ad sacrosánctis mystériis Christi.”. Parrebbe non trattarsi di una formulazione marcatamente
aquileiense ma di un testo medievale, peraltro assai comune [38]. Si trova una sola orazione a preparare la
comunione del celebrante (“Dómine Jesu Christe”) che a differenza del rito
romano omette l’inciso “Fílii Dei vivi”, e le parole “univérsis malis” [39].
L’assenza della seconda orazione “Percéptio Córporis” è attestata anche nei
testimoni del 1517, il King riferisce che essa è riportata a margine
dell’esemplare londinese da lui utilizzato [40],
purtuttavia andrebbe considerato che le orazioni in preparazione della
comunione ebbero, nel corso del Medioevo, uno sviluppo molteplice e variegato. In
alcuni messali – esempio quelli dei domenicani e dei certosini – non si trova
che la prima. L’orazione “Percéptio Córporis” apparirebbe di introduzione
tardiva, forse un adattamento di una formula mutuata dall’ambito liturgico
bizantino, utilizzata talvolta in ringraziamento della comunione [41].
La formula con cui il celebrante protesta la propria indegnità, parafrasando il
noto passo evangelico, appare nel Missale aquileyensis così espressa:
“Dómine non sum dignus ut intres sub tectum meum: sed salvum me fac, et salvus
ero, quoniam laus mea tu es.”, in cui si potrebbe ravvisare l’ispirazione di
Geremia (XVII, 14) [42].
Le formule che accompagnano la comunione del celebrante propriamente intesa,
così come la purificazione appaiono uguali a quelle romane. A questo punto il
sacerdote recitava il cantico del profeta Simeone, il “Nunc dimittis” (Lc 2,
29-32) [43].
Faceva seguito l’orazione (o orazioni) di postcommunio che il Missale
aquileyensis denomina – in modo analogo a molti sacramentari di matrice
gregoriana – “Complenda”. Premesso il “Dóminus vobíscum”, veniva detta la
formula di congedo sulla quale abbiamo già detto qualche parola riferendoci
alle parti musicali inserite prima del Canon missae. Il sacerdote benediceva
dunque i fedeli e recitava il “Pláceat”, del tutto uguale al rito romano. Ci
pare di escludere che ci fosse stato l’ultimo vangelo (prologo di san Giovanni,
o – in certi giorni – altro testo) come avviene nella messa romana [44].
Il Natale del Signore (terza messa) |
Festa di San Giorgio M. |
Qui
abbiamo cercato, seguendo la falsariga del Missale aquileyensis, di
descrivere – sulla scorta della documentazione a disposizione – come potesse
esser celebrata una messa secondo questo rito, mostrando le differenze che
intercorrevano con il rito romano che venne a soppiantare gli usi locali. Ma
certo il messale non si esaurisce nelle parti che restano costanti e compongono
l’Ordinarium missae: il ciclo temporale, ma soprattutto quello santorale
– specie per i santi “locali” - se ben osservati possono riservarci dei motivi
di ampio interesse. Qui ci limitiamo a un fugace elenco di particolarità: la
presenza di pericopi scritturali proprie per alcune feriae dell’Avvento,
la presenza di una lezione che precede l’epistola in determinate circostanze
come ad esempio a Natale, nella cui prima delle tre messe, “In galli cantu” è
situata l’ora canonica delle lodi da cantarsi prima della “complenda”, le
sequenze, di una tale varietà che – riferendoci ancora al Natale – sono
differenti in ciascuna delle tre messe, o ancora i riti complessi della
settimana santa [45]. Proprio questa sovrabbondante presenza di
sequenze, così tipiche della produzione dell’età di mezzo con la loro
semplicità musicale e spiccata ritmicità, si riscontra nei messali germanici di
quella lontana epoca. Ciò ci potrebbe indurre ad annoverare tout court
il Missale aquileyensis al novero di quei simili coevi [46].
A
prescindere da quale possa essere la classificazione, appare incontrovertibile
che il messale aquileiense, di cui ricorre il cinquecentesimo anniversario
dalla stampa, rappresenta una testimonianza preziosissima della lex orandi delle
nostre genti - siano esse di stirpe latina, slava o germanica – che in
Aquileia, e nei suoi martiri, scorgono comuni radici della loro fede cristiana.
Si auspica che, quella curiosità verso le antiche vestigia liturgiche delle
nostre terre – una curiosità che scorrendo quasi “carsicamente” ha attraversato
cinque secoli, emergendo sporadicamente ma periodicamente - abbia a sfociare in
un rinnovato e fecondo interesse che potrebbe trovare coronamento e sintesi in
ricerche approfondite e pubblicazioni sui diversi aspetti caratterizzanti il ritus
aquilejensis al momento del suo abbandono.
Francesco G. Tolloi
[2] L’annotazione del Pietro
Kandler è riportata in S. Kociančič, Tractatus de liturgia ecclesiae
aquilejensis, in Folium Dioecesanum, Tergesti, Curia Episcopalis,
1872-1875, pp. 5 e s.
[3] P. Guéranger, Institutions Liturgiques, Paris, Palmé,
18782, Tome Premier, p. 431 e s.
[4] Nelle aree più estreme
d’influsso del Patriarcato – ad Oriente e ad Occidente - si attestò un
attaccamento al rito aquileiense che si tradusse in una pratica del rito anche
successiva al suo abbandono del 1596. È il caso, ad esempio, di Lubiana. Essa
era stata eretta a diocesi nel 1461 da parte dell’Imperatore Federico III
d’Asburgo e confermata l’anno successivo da papa Pio II. L’unità ecclesiastica
faceva ricorso ai libri aquileiensi per le sue celebrazioni in forza del
dettato del suo atto costitutivo. Il rito romano sarebbe stato introdotto nella
diocesi appena alla morte del vescovo Tomaž
Hren ossia dopo gli anni Trenta del XVII secolo. (cfr. J. Snoj, Il "ritus patriarchinus" nel settore
orientale del patriarcato di Aquileia, in Antiqua habita consuetudine.
Contributi per una storia della musica liturgica del Patriarcato di
Aquileia. (Atti del colloquio internazionale, Portogruaro 20 ottobre 2001,
a cura di L. Cristante), Trieste, EUT Edizioni Università di Trieste,
2004, p. 77. Per quanto attiene Como v. Sacramentarium
Patriarchale secundum morem sanctae Comenisi Ecclesiae, Mediolani, Castilionei
- Caronei, 1557, ed. anastatica a cura dell’editrice Nani e del Gruppo
Archeologico Aquileiese, (studi introduttivi ed indici a cura di A. Rusconi),
Como – Aquileia, 1998 (studi introduttivi ed indici a cura di A. Rusconi).
[5] G. Pressacco, Appunti sulla tradizione liturgico-musicale
del Patriarcato di Aquileia dall’epoca carolingia al XVI secolo (a cura di
L. Collarile), in Il canto «patriarchino» di tradizione orale in area
istriana e veneto-friulana (a cura di P. Barzan – A. Vildera), Vicenza, Neri
Pozza, 2000, pp. 30 e ss.
[6] Su questa tematica
rimandiamo - per l’ottima sintesi, la bibliografia utilizzata e per il suo
essere scevro di quella tensione effetto della polarizzazione derivante dalla
tensione di contrapposti nazionalismi - a A.
King, Liturgy of the Roman Church, London, Longmans, 1957, pp. 58
e ss.
[7] P. Guéranger, Institutions liturgiques…, cit., p.
431.
[8] Esistono edizioni
anastatiche di entrambe le opere: Breviarium romanum, Romae, Paulum
Manutium, 1568, ed. anastatica a cura di M. Sodi – A.M. Triacca, Città del
Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1999 e Missale romanum, Romae,
Faletti, Variscum et socios, 1570, ed. anastatica a cura di M. Sodi – A. M.
Triacca, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1998.
[9] V. Mercante, Pier Paolo Vergerio, Vescovo di Capodistria
riformatore e apostata, Villa di Serio (BG), Villadiseriane, 2015.
[10] G. Cuscito, Sinodi e Riforma Cattolica nella Diocesi di
Parenzo, estratto da «Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia
e Storia Patria» v. XXIII della Nuova Serie – LXXV della Raccolta, Trieste,
1975, p. 11.
[11] P.S. Leicht, Breve storia del Friuli, Udine, Editrice
Aquileia, 19704 (con aggiunte di C. G. Mor), pp. 223 e ss. e L. Tavano, La diocesi di Gorizia,
Edizioni della Laguna, 2004, pp. 26 e ss.
[12] Il volume fu ristampato
anastaticamente nel 1963 a Bruxelles da “Culture et Civilisation” in esemplari
numerati, lo scrivente è possessore del n. 50.
[13] Con tale locuzione si
soleva indicare proprio i libri liturgici il cui testo si realizzava in nero e
le rubriche - dal latino ruber, - in rosso, ciò sottendeva una
particolare specializzazione che si comprende ancor più necessaria quando si
trattava di stampare la notazione musicale del cantus planus con note
nere su tetragramma tracciato con linee rosse.
[14] Essa non molti anni fa fu
riprodotta anastaticamente: Missale aquileyensis Ecclesie, Venetiis,
Liechtenstein, 1517, ed. anastatica, intr. e appendice a cura di G. Peressotti,
Città del Vaticano – Udine, Libreria Editrice Vaticana – Istituto Pio Paschini,
2007.
[15] C. Castellani, La stampa in Venezia dalla sua origine
alla morte di Aldo Manuzio Seniore, Venezia, Ongania, 1889, ed. anastatica
con premessa di E. Ferrari, Trieste, LINT, 1973, p. 31.
[16] A. King, Liturgies anciennes, (trad. francese di B.
Poupard), Paris, Mame, 1961, pp. 48 e ss.
[17] Abbiamo preferito, per
mera praticità e convenzione, qui ed altrove convertire la grafia originaria
del Missale aquileyensis a quella ecclesiastica tradizionale con
accentazione posta alle parole con più di due sillabe.
[18] G. Cattin, La monodia nel Medioevo, (nuova edizione,
ampliata, riveduta e corretta), Torino, EDT, 1991, pp. 123 e ss..
[19] Al termine del Gloria
si legge: «Sic dicitur Gloria in excélsis etiam in missis beatæ Mariæ.»,
cfr. Rubr. in ord. missae, in Missale romanum…, cit., p. 235
(anast. p. 295); la rubrica fu così formulata sino all’edizione tipica
pio-benedettina del 1920. Sull’argomento: A.
King, Liturgy of the roman rite…, cit., p. 24 e ancora M. Righetti, Manuale di Storia
Liturgica, Milano, Ancora, 19643, vol. I, p. 677 e nt. 149. Tale tropo aveva fatto la sua
incursione anche nel rito romano, significativa la menzione che ne fa
l’umanista Burcardo: cfr. J. Burckardus,
Ordo Missae, Romae, De Besicken, 1502, f. 15 v. (Va ricordato che tale
testo costituisce la base per la formulazione del Ritus servandus
inserito nel messale di san Pio V)
[20] J.F.B.M. De Rubeis, De vetustis liturgicis aliisque
sacris ritibus qui vigebant olim in aliquibus Forojuliensis Provinciae
Ecclesiis, in Dissertationes duae, Venetiis, Occhi, 1754, pp. 250 e
ss.
[21] Ibidem, p. 253.
[22] Il Kočiancić,
invece, ritiene che qui i santi venissero proprio nominati (cfr. S. Kociančič, Tractatus de liturgia ecclesiae aquilejensis, …cit., p.
23, nt. 2). Va in ogni caso tenuto in debito conto che tali formule che il
Righetti chiama “apologie dell’introito” – prima di san Pio V – erano soggette
a una immensa varietà locale, si veda: M. Righetti, Manuale di Storia
Liturgica, Milano, Ancora, 19643, vol. III, pp. 200 e ss.
[23] Ovviamente la formula
veniva qui adattata: in luogo delle parole “vobis fratribus meis” si diceva
“tibi patri meo”, al posto di “vos fratres” veniva detto “te pater”. Ad analogo
adattamento era sottoposta la formula dell’assoluzione, laddove il celebrante
la declinava al plurale:” Misereátur vestri omnípotens Deus et dimíttat vobis
ómnia peccáta vestra líberet vos ab omni malo confírmet et consérvet vos in
omni ópere bono et perdúcat ánimas cum sanctis suis in vitam ætérnam”.
[24] Il testo è del tutto
identico rispetto a quello in uso nel rito romano, se si eccettua l’omissione
del “quǽsumus” posto tra “nobis” e
“Dómine”.
[25] Il bacio del Vangelo in
questo momento della messa lo si ritrova anche nel rito romano ma non presenta
alcuna formula che ne accompagna il gesto e limitatamente alla forma
pontificale.
[26] Ciò si riscontra anche nel
rito romano, ancora una volta nella liturgia pontificale. In essa – in luogo
delle tabelle poste sull’altare (c.d. carteglorie) – si faceva utilizzo di un
libro chiamato “Canon misse”. Esso riportava i testi delle parti ordinarie
della messa (oltre ad altri formulari inseriti per comodità): in esso sono
tradizionalmente omesse tutte quelle formule che vengono pronunciate ai piedi
dell’altare, i testi iniziano con l’orazione che accompagna la salita dei
gradini del celebrante ed il bacio della mensa a motivo del fatto che è
realizzato sempre con caratteri di grandi dimensioni, dunque leggibile a
distanza, e posto (a parte durante il canone) ritto in mezzo dell’altare sotto
la croce.
[27] S. Kociančič,
Tractatus de liturgia ecclesiae aquilejensis, …cit., pp. 24 e ss.
[28] J.F.B.M. De Rubeis, De vetustis liturgicis…, cit., p.
262.
[29] A. King, Liturgies anciennes…, cit., p. 57.
[30] Anche il De Rubeis fa un
riferimento alla risposta, rinvenuta su un non meglio precisato codice
cividalese dell’inizio del XIV secolo, ma essa fa riferimento a un testo
diverso dell’“Orate fratres”; Cfr. J.F.B.M.
De Rubeis, De vetustis liturgicis…, cit., p.277.
[31] Il Missale romanum
fu provveduto nel corso dei secoli di ulteriori prefazi ma ciò esula dal nostro
argomento.
[32] Giova ricordare che nel Missale
romanum si riportano due intonazioni: una solenne ed una feriale (usata
anche nelle messe dei defunti); talora nelle appendici si ritrovano dei Prefazi
in un tono detto “solemniore” ma era sempre considerato ad libitum come
sostituto del tono solenne.
[33] Il testo non è riportato
nel nostro messale, supponiamo perché si dava per scontato che il celebrante lo
sapesse a memoria o potesse leggerlo, più comodamente, nella tabella posta in
mezzo all’altare ai piedi della croce.
[34] S. Kociančič,
Tractatus de liturgia ecclesiae aquilejensis, …cit., pp. 36 e ss. Qui
l’A. poggia la sua opinione stante la ricorrenza di Sanctus tropati nei
codici, specie nel cod. J della Biblioteca del Seminario Teologico di Gorizia.
[35] Tali particolari ornamenti
del camice erano detti parurae, talora non erano limitati al “gherone”
ma si applicavano anche ai polsi (c.d.“aurifregi”), e anche l’amitto era
oggetto di tale ornamentazione. Tracce si riscontrano ancora nel rito
ambrosiano nella sua forma tradizionale, laddove l’ornamento dell’amitto è
diventato il caratteristico “cappino”, in Francia ebbe pressoché a sparire
all’epoca della rivoluzione, conservandosi – invece – pur in maniera saltuaria
nelle Spagne, talvolta lo si riscontra anche nell’ambito di riti propri degli
ordini religiosi (es. domenicani). Nella penisola italiana l’uso cessò a
principio dell’età moderna, nei territori germanici, per lo meno in alcuni
luoghi, sopravvisse sino al XVII secolo per poi gradualmente sparire. (cfr. G. Braun, I paramenti sacri,
(trad. italiana G. Alliod), Torino, Marietti, 1914, pp. 70 e ss.). Riteniamo
che all’estinzione dell’uso di tali ornamentazioni abbia contribuito il ricorso
ai pizzi applicati alle estremità delle maniche e al fondo del camice che hanno
finito per soppiantarle.
[36] S. Kociančič,
Tractatus de liturgia ecclesiae aquilejensis, …cit., p. 37; qui l’Autore
riferisce che negli antichi messali spesso l’immagine risultava macchiata dai
frequenti e reiterati baci. Ancora riguardo ad usi particolari nel Canon
missae, il King riferisce che in alcuni messali manoscritti cividalesi, del
1304, 1387 e 1403, la formula romana del “Communicantes” (c.d. “Infra
actionem”) veniva arricchita dei nomi dei santi martiri Ermacora vescovo e
Fortunato diacono (cfr. A. King, Liturgies anciennes…, cit., p. 53 e s.).
L’inserimento di santi ai dittici durante l’età di mezzo non fu infrequente.
(cfr. M. Righetti, Manuale di
Storia Liturgica,…cit., vol. III, p. 382).
Il testo sarebbe dunque così formulato: “Communicántes, et memóriam
venerántes: in prímis gloriósæ semper Vírginis Maríæ, Genitrícis Dei et Dómini
nostri Jesu Christi: sed et beatórum Apostolórum
ac Mártyrum tuórum Petri et Pauli, Andréæ, Jacóbi, Joánnis, Thomæ, Jacóbi, Philíppi,
Bartholomǽi, Matthǽi, Simónis et Thaddǽi: Lini, Cleti, Cleméntis, Xysti,
Cornélii, Cypriáni, Lauréntii, Chrysógoni, Joánnis et Pauli Cosmæ et Damiáni, Ermácorae
et Fortunáti: et ómnium Sanctórum tuórum; quorum méritis precibúsque
concédas, ut in ómnibus protectiónis tuæ muniámur auxílio. Per eúndem Christum
Dóminum nostrum. Amen.”.
[37] A. King, Liturgy of the Roman Church,…cit., pp. 332 e
s. Possiamo affermare che, dopo la riforma tridentina, l’uso appare
generalizzato in tutti i riti occidentali eccezion fatta per quello
maggioritario, ossia il romano.
[38] A. King, Liturgies anciennes…, cit., p. 58. Il
Righetti, confermando, l’ampia diffusione della formula, ci fornisce pure la
risposta ad essa: “Pax Christi et Ecclésiæ semper abúndet in córdibus nostris.”
(cfr. M. Righetti, Manuale di
Storia Liturgica,…cit., vol. III, p.487 e s.
[39] Il testo verrebbe dunque
così formulato: “Dómine Jesu Christe, qui ex voluntáte Patris, cooperánte
Spíritu Sancto, per mortem tuam mundum vivificásti: líbera me quæso per hoc
sacrosánctum Corpus et Sánguinem tuum ab ómnibus iniquitátibus meis: et fac
me tuis semper obedíre mandátis, et a te nunquam
separári permíttas: Qui cum Deo in unitáte ejusdem Spíritus Sancti vivis et
regnas, Deus, in sǽcula sæculórum. Amen.”
[40] A. King, Liturgies anciennes…, cit., p. 58.
[41] M. Righetti, Manuale di Storia Liturgica,…cit., vol.
III, p. 520 e s.
[42] Riteniamo che,
difformemente dal romano, la formula non fosse soggetta alla triplice
ripetizione. a tale opinione siamo addivenuti confrontando il rito della
comunione dell’infermo (sul quale si potrebbe, per altro, tracciare i tratti
del rito della comunione dei fedeli nella messa) secundum consuetudinem
Aquilejensis Ecclesiae, che ricorre a tale formula: cfr. Agenda
Dioecesis Sanctae Ecclesiae Aquilegiensis, Venetiis, Somaschi, 1575, pp. 37
e s.
[43] Il testo non si trova nel
messale, a darcene testimonianza è il visitatore De Nores nel XVI, secolo come
riferito da J.F.B.M. De Rubeis, De
vetustis liturgicis…, cit., p. 180. Lungi dal cercare legami di parentela o
di affinità, la particolare collocazione che nella messa aquileiense trova il
cantico di Simeone, viene quasi ad assomigliare a una formula di congedo che il
sacerdote prende dall’altare che si trova presente in alcuni riti dell’Oriente
cristiano (es. siro, siro-maronita, copto) con differenti formulari.
[44] S. Kociančič,
Tractatus de liturgia ecclesiae aquilejensis, …cit., p. 38 e anche De
Rubeis, De
vetustis liturgicis…, cit., p. 279, laddove l’Autore riferisce che il
celebrante, terminato il “Placeat”, baciava l’altare quindi scendeva e,
togliendosi i paramenti, recitava il cantico dei tre fanciulli (Dan. 3, 57-88 e
56). E ancora p. 180: la testimonianza del De Nores di cui si fa riferimento
nella nota precedente.
[45] G. Vale, Gli antichi usi liturgici nella Chiesa
d’Aquileia dalla Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua, Padova, Tip.
del Seminario, 1907.
[46] G. Cattin, La monodia nel Medioevo…, cit., p. 125 e
ss.; R. Camilot-Oswald, I
formulari dei canti nel Messale aquileiese del 1579, in Il canto piano
nell’era della Stampa, a cura di G. Cattin – D. Curti – M. Gozzi, Trento,
Provincia Autonoma, servizio Beni librari e archivistici, 1999, pp. 29 e ss. E
ancora: R. Camilot-Oswald, Die
liturgischen Musikhandschriften aus dem mittelaterlichen Patriarchat Aquileia,
in Monumenta Monodica Medii Aevi, Subsidia Band II, Kassel, Bärenreiter,
1997.
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