mercoledì 13 dicembre 2017

Il canto del Martirologio nella Vigilia di Natale.

Essendoci l’obbligo di coro e laudabiliter extra Chorum, durante l’ora canonica di prima si legge quotidianamente, come è noto,  il martirologio, prima del verso Pretiósa [1]. La vigilia del Natale la proclamazione del martirologio assume tratti caratteristici particolarmente solenni annunziandosi, per il giorno a venire, la nascita del Cristo, essa è propria e caratteristica di tale giorno, neppure per motivo di maggiore solennità tale particolare cerimonia può essere spostata al giorno del Natale con l’uso dei paramenti bianchi [2]. La cerimonia si trova descritta da diversi autori, Léon Gromier [3] ritiene che le fonti normative siano da rintracciarsi nel Martyrologium Romanum e nel Directorium Chori. Il Martyrologium – la cui paternità  è attribuibile al cardinale Cesare Baronio - dall’epoca tridentina in poi conobbe diverse edizioni; per quanto riguarda l’annuncio della vigilia nulla muta se non, come vedremo il tono delle sole parole ove si annunzia la natività: “Natívitas Dómini nostri Jesu Christi secúndum carnem” che - come vedremo – conobbero una revisione novecentesca. Dal momento che la frase è modulata sulla melodia del punctum del chronista del Cantus Passionis, le edizioni successive alla restaurazione e pubblicazione di questa avvenuta nel 1918 [4], la adottano (siamo nella fase attuativa della riforma generale del canto gregoriano voluta da san Pio X, l’edizione che usiamo, cfr. nota 1, rispecchia tale criterio). Il Directorium Chori [5] è un libro di produzione tardo cinquecentesca che fu compilato da un allievo del Princeps Musicæ Giovanni Pierluigi da Palestrina: Giovanni Domenico Guidetti. Questi, bolognese di nascita, si era trasferito a Roma una volta ordinato sacerdote  ove divenne cantore e quindi beneficiato della Basilica Vaticana. Egli, da conoscitore degli usi e dei manoscritti, si curò di raccogliere un volume utile  per le diverse ufficiature riportando le intonazioni per l’ebdomadario, i beneficiati e i cappellani cantori come illustra nella sua dedica, della seconda edizione riveduta [6], al cardinale arciprete di allora Evangelista Paleotta, l’opera del Guidetti ebbe la sua importanza sulle sorti successive del gregoriano per la riduzione delle raffigurazioni musicali a vantaggio della interpretazione ritmica di gusto mensuralistico tipica di quell’epoca; sempre allo stesso Guidetti si deve la compilazione del Cantus Passionis in uso fino all’inizio del Novecento. [7]  Con la riforma della musica sacra il Directorium Chori non conobbe la restaurazione, sicché le ultime edizioni vennero stampate dall’editore Pustet di Ratisbona [8]; esso resta sicuramente valido e utile per le indicazioni cerimoniali[9]. La melodia del canto del Martyrologium è assai semplice ed è la stessa con la quale vengono proclamate le lezioni al mattutino: la corda di recita (do) viene abbassata di una quinta al punctum [10]. Nello stesso modo si proclama anche la vigilia di Natale ma alle parole “In Béthlehem Judæ náscitur ex María Vírgine factus Homo”, la corda di recita viene portata  dal do al fa, chiudendo l’ultima sillaba sul si bemolle. Ivi la rubrica dice che le ultime parole, come prima si diceva, vengono cantate sul tono del canto della Passio.

(tono precedente la riforma del canto gregoriano)
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Dal punto di vista cerimoniale la funzione della vigilia ha una solennità inusuale per un’”appendice” di un’ora minore quale appunto è prima. Al momento opportuno entra in coro un sacerdote parato di piviale violaceo [11] che porta innanzi al petto il Martyrologium Romanum, egli è accompagnato da due chierici che reggono i lembi del piviale stesso. Egli potrà, nelle chiese cattedrali e collegiate, essere un canonico o un beneficiato, juxta ecclesiarum consuetudinem [12]. Lo precedono due accoliti che recano i candelieri con i ceri accesi e il turiferario. Giunto in coro, salutati gli ecclesiastici, pone il libro su un leggio coperto di un panno viola messo nel mezzo, impone l’incenso, benedicendolo con la consueta formula Ab illo benedicáris, e turifica il testo [13], inizia la proclamazione stando in piedi tutti coloro i quali stanno in choro. Giungendo alle parole “In Béthlehem Judæ” tutti, eccetto il sacerdote che lo proclama e gli accoliti [14], genuflettono per levarsi alle parole “secúndum carnem”, a questo punto genuflette anche il sacerdote cantore. Il sacerdote, con quanti l’anno accompagnato, salutato il coro e l’altare ritornano alla sagrestia. La parte restante della lezione è proclamata da un lettore stando tutti seduti [15]. Mario Righetti ricorda che durante questo “annunzio ufficiale” del Natale, stando a un Ordinario della chiesa di Chartres, i corali si prostravano per un lungo tempo recitando privatamente salmi e orazioni e si erigevano al segnale dell’abate o del priore [16] , tale prostrazione è attestata ancora nel XVIII° secolo a Rouen, segnatamente nella chiesa di Saint Lô, officiata da canonici regolari [17]. Nella basilica di S. Pietro vi era consuetudine di far proclamare l’annuncio a un canonico, la prosecuzione della lezione spettava a un beneficiato[18]. Presso i francescani l’annunzio, giusta la consuetudine, poteva esser fatta anche da un diacono purché sia “in canendi arte peritissimo” [19] proprio dai discepoli del Serafico Padre trascrivo una melodia particolarmente ornata per tale occasione.

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Sarebbe interessante, ampliando gli ambiti della ricerca, trovare altri toni di questa proclamazione. Ho provato a sondare l’ambito monastico benedettino: ad esempio presso i cassinesi che pur serbavano una melodia peculiare da riservarsi al martirologio, alle lezioni brevi e alla proclamazione della regola [20], per l’annunzio natalizio rimandano al tono “secundum more Romanæ Ecclesiæ”[21]. Sempre in ambito monastico P. Beatus Reiser o.s.b., del collegio Anselmianum nell’Urbe redasse una antologia particolarmente corposa di toni di lezioni ecc. in uso presso i benedettini per l’occasione riporta per esteso il tono caratteristico del Martyrologium Romanum [22]. La seconda edizione, invece, riporta come “modus solemnior ad libitum” la stessa melodia dei cantorini francescani di cui sopra ho fatto cenno e ho trascritto [23]. In un’opera successiva della stessa congregazione [24] è riportata  una melodia peculiare del V° modo per l’annuncio dallo sviluppo melodico piuttosto contenuto e che qui riporto.

Lo stesso volume riporta per esteso il tono del Martirologio successivo all’annuncio. Anche in questo caso si tratta di una melodia piuttosto scarna a vantaggio di un incedere spedito; ritengo non si tratti di un tono esclusivo della congregazione cassinese tant’è che l’ho rinvenuto in una raccolta del monastero territoriale della SS. Trinità di Cava dei Tirreni [25] che, certo è solo un’ipotesi, potrebbe averlo mutuato durante il turbolento e conflittuale  periodo di unione alla congregazione di S. Giustina. Riporto la melodia delle prime frasi del canto del Martirologio mediante la quale si potrà facilmente eseguire nonché la fase finale con la risposta.
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Del testo dell’annunzio natalizio sarà interessante avere qui a disposizione la traduzione italiana:
«Nell’anno cinquemilacentonovantanove dalla creazione del mondo, quando nel principio Iddio creò il cielo e la terra; dal diluvio, l’anno duemilanovecentocinquantasette; dalla nascita di Abrámo, l’anno duemilaquindici; da Mosè e dalla uscita del popolo d’Israele dall’Egítto, l’anno millecinquecentodieci; dalla consacrazione del Re David, l’anno milletrentadue; nella Settimana sessantesimaquinta, secondo la profezia di Daniéle; nell’Olimpíade centesimanovantesimaquarta; l’anno settecentocinquantadue dalla fondazione di Roma; l’anno quarantesimosecondo dell’Impero di Ottaviáno Augústo, stando tutto il mondo in pace, nella sesta età del mondo, Gesù Cristo, eterno Dio e Figlio dell’eterno Padre, volendo santificare il mondo colla sua piissima venuta, concepito di Spirito, e decorsi nove mesi dopo la sua concezione (Qui tutti genuflettono), in Betlémme di Giuda nacque da María Vergine fatto uomo. Natività di nostro Signore Gesù Cristo secondo la carne (Qui tutti si alzano).» [26].

Il benedettino Gueranger fa notare che in questa occasione la Chiesa adotta la cronologia dal testo dei Settanta e non quello della Vulgata che vorrebbe la nascita del Redentore collocata quattromila anni dopo la creazione [27].

Francesco G.Tolloi
francesco.tolloi@gmail.com





Note:
[1] Cfr.: Rubricae Martyrologii Romanii, in Martyrologium Romanum, Quarta post typicam editio, Romæ, Typis Polyglottis Vaticanis, 1956.
[2] cfr .: Sacra Congregazione dei Riti Decreto 22 gennaio 1707, n. 2176 (Decreta Authentica Congregationis Sacrorum Rituum, vol. II, Romae, Propaganda Fide, 1908, p. 4.
[3] L. GROMIER, Commentaire du Cæremoniale episcoporum, Paris, La Colombe, 1959, p. 349.
[4] Cantus Passionis Domini Nostri Jesu Christi, Romæ, Typis Polyglottis Vaticanis, 1918.
[5] G. GUIDETTI, Directorium Chori ad usum Sacrosanctae Basilicae Vaticanae, et aliarum Cathedralium, et Collegiatarum Ecclesiarum, Romæ, Apud Robertum Granjon, 1582.
[6] G. GUIDETTI, Directorium Chori ad usum omnium Ecclesiarum, tam Cathedralium, quam Collegiatarum secundum in lucem editum,, Romæ apud Franciscum Coattinum, 1589.
[7] M.C. CALABRÒ, Guidetti Giovanni Domenico, in Dizionario biografico degli  italiani, LXI, Roma, Istituto dell’enciclopedia italiana,  2004, pp. 192-193.
[8] Ad esempio: Directorium chori, Ratisbonae-Neo Eboraci-Cincinnatii, Pustet, 1875.
[9] L. GROMIER, Commentaire, cit., p. 349.
[10] La melodia si trova diffusamente descritta e notata in: Antiphonale Sacrosantæ Romanæ Ecclesiæ pro Diurnis Horis, Romæ, Typis Polyglottis Vaticanis, 1912, pp. 30*-33*.
[11] Qualora viga la consuetudine è tollerato che  il sacerdote cantore indossi anche la stola sotto il piviale, cfr .: Sacra Congregazione dei Riti Decreto 12 novembre 1831, n. 2684 (Decreta Authentica Congregationis Sacrorum Rituum, vol. II, Romæ, Propaganda Fide, 1908, p. 240.
[12] A. MORETTI, Cæremoniale juxta Ritum Romanum, Taurini, Marietti, 1938, vol. III, pp. 4-5.
[13] Presso i carmelitani scalzi è attestato l’uso di incensare il libro una volta annunciate le calende e la luna, cfr: Ordinarium seu Cæremoniale Fratrum Excalceatorum Ordinis Beatissimæ Virginis Mariæ de Monte Carmelo, Romæ, ex Typographia Pontificia in Instituto Pii IX, 1910, p. 8.
[14] Secondo L. GROMIER, Commentaire, cit. p. 349, anche gli assistenti del sacerdote cantore rimangono in piedi, riteniamo per il motivo che reggono le estremità del piviale.
[15] Tra i diversi autori di manuali di sacre cerimonie che hanno descritto la funzione si distingue per dovizie di particolari e per il dichiarato intento di riferire gli usi delle basiliche patriarcali e delle altre basiliche dell’Urbe: P. MARTINUCCI-G.B. MENGHINI, Manuale Sacrarum Cæremoniarum, editio tertia, Ratisbonæ-Romæ-Neo Eboraci, Pustet, 1912, vol. II, pp. 148-149.
[16] M. RIGHETTI, Manuale di storia liturgica, Milano, Ancora, 1955, vol. II, p. 51.
[17] S. DE MOLÉON, Voyages Liturgiques de France, Paris, Florentin Delaulne, 1718, p. 393.
[18] I. BOURGET, Cérémonial des évêques, Paris, Lecoffre, 1856, p.308.
[19] Cantorinus ad usum Chori, Tornacii, Desclée, 1907, p. 76. La melodia, qui arricchita dai segni dell'interpretazione ritmica solesmense, si ritrova anche in Antiphonale Romano-Seraphicum, Tornacii, Desclée, 1928 p. [183]-[186]. Ivi pure viene ribadita la possibilità data al diacono di cantare il martirologio in tale occasione.
[20] Cantus Monastici Formula, Tornaci, Desclée, 1889, p. 24.; è da aggiungersi anche un tono raccolto tra le modulazioni recenziori riportato a p. 85.
[21] Cantus Monastici Formula, cit., p. 25.
[22] B. REISER, Laudes Festivae, Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1932, pp. 1 e ss..
[23] B. REISER, Laudes Festivae, Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 19402, pp. 3 e ss..
[24] Liber Choralis Cantorum usui accomodatus ad Divinum Officium  peragendum in Cathedrali Ecclesia S. Archicoenobi Casinensis, Monte Cassino, Typis eiusdem Archicoenobi, 1933 e ss.
[25] Liber Choralis Sacri Monasterii SS. Trinitatis Cavae, Cava dei Tirreni, Manuscripti  instar, 1942, pp. 22 e ss..
[26] Martirologio Romano, Quarta edizione italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1955, p. 333.
[27] P. GUERANGER, L'Année liturgique. L'Avent, 20. ed., Tours, Mame, 1920, p. 598 nt. 1

lunedì 11 dicembre 2017

“Levant planetas in scapulas” Pianete plicate e stolone. Genesi – utilizzo – abolizione.

Un’osservazione attenta, precisa e circostanziata delle “pianete plicate” e dello “stolone”, del loro uso (in particolare nella forma che qui chiamerò “classica” del rito romano [1]), della loro genesi e formazione  impone come necessaria la premessa che non stiamo ragionando di paramenti diversi dalla “pianeta” [2] ma di un diverso modo di indossare lo stesso sacro indumento.

Facendo una brevissima ma chiarificatrice digressione indico l’analogia con il caso della stola nella fattispecie nel suo modo di essere indossata sul camice: il vescovo la porta diritta con le estremità che pendono parallele dalle spalle; il sacerdote la porta incrociata innanzi al petto; il diacono la accomoda sulla spalla sinistra per poi farle percorrere in diagonale il busto e la schiena e unire le sue estremità al fianco destro; sicuramente però non vi è chi dubiti si tratti di nulla altro se non lo stesso paramento indossato in guisa differente [3].

È così per la casula: che essa sia portata distesa, “plicata”, o - come è meglio dire in lingua italiana - "piegata" nella sua parte anteriore, arrotolata al fine di accorciarla sul davanti e finanche mozzata in questa parte e usata dai ministri sacri resta lo stesso paramento. Proprio in tal senso il Merato, nel commentare l’opera del Gavanto, ammonisce affinchè le pianete - dopo le messe solenni in cui i sacri ministri indossano le indossano piegate - vadano sciolte dai legacci o liberate degli aghi che assicurano al petto la loro parte anteriore in modo che i sacerdoti possano comodamente servirsene per la celebrazione della messa [4];  analogo opinare si ritrova nell’opera del benedettino Michel Baluldry [5]; o ancora da parte del Piscara Castaldo il quale altresì rammenta che le pianete in uso da parte dei ministri non devono differire per forma e benedizione da quelle “sacerdotali”[6].
Pianeta piegata (Basilica di S. Maria degli Angeli, Roma) e stolone.
Quale corollario di questa, a a mio vedere necessaria, premessa  ritengo si possa affermare che la pianeta diventò “indumento esteriore” di solo ed esclusivo appannaggio sacerdotale solo nel 1960, durante l’epoca del sommo pontificato del beato Giovanni XXIII quando – portando alle conseguenze premesse mosse, come poi vedremo, alcuni anni prima – con il nuovo codice delle rubriche si giunge ad affermare che “planetae plicatae et stola latior amplius non adhibentur” [7].

La casula – ma analoga considerazione può essere estesa agli altri paramenti – non trae origine nell’ambito nel quale l’utilizzo si è definito e cristallizzato ed oggi conosciamo come esclusivo ossia quello liturgico ma ha principio nel vestiario civile romano. Più precisamente il paramento che oggi conosciamo nulla è se non l’evoluzione e stilizzazione dell’antica poenula romana e questo - facendo poggiare la nostra affermazione sulle parole e l’opinare argomentato del Callewaert - è un dato indubitabile [8]. La poenula era un vestimento di forma rotonda dotato di un’apertura funzionale a far passare il capo e quindi far ricadere la stoffa sulle spalle, l’ampiezza della fattura dell’abito faceva sì che esso ricoprisse l’intera persona. Essa era inizialmente in uso, in special modo, presso i ceti più umili salvo poi divenire un capo di abbigliamento di uso più comune anche da parte delle autorità e dei notabili al di fuori dell’esercizio dei pubblici uffici. La poenula ben presto fu adottata dai chierici: Amalario di Metz ci ragguaglia – e siamo già nel IX secolo - che essa era indossata generalmente e indistintamente da tutti i chierici definendola  “generale indumentum sacrorum ducum” [9].

Un'osservazione retrospettiva permette di rilevare che è dal secolo IV che i diaconi “non semper sed saepe” [10] iniziarono ad indossare la dalmatica (ovviamente anch’essa d’uso inizialmente civile), nei secoli successivi imitati dai suddiaconi (con l’uso della tunicella). Gioverà ricordare una certa “gelosia” romana nel serbare l’uso della dalmatica al papa e ai suoi chierici:  talvolta furono proprio i sommi pontefici a concedere l’uso della dalmatica presso altre realtà ecclesiali locali, a titolo esemplificativo papa Simmaco la concesse, durante i primi anni del VI secolo, ai diaconi di Arles, san Gregorio Magno, sul finire dello stesso secolo, la concesse al vescovo di Gap e al suo arcidiacono ed ebbe altresì la premura di recapitare delle dalmatiche confezionate, indice evidente della rarità di tale sacro ornamento fuori dall’Urbe [11].

Roma si segnalò più conservativa nell’utilizzo della poenula rispetto ad altri luoghi ed anzi, nell’Urbe, si attesta l’uso da parte dei diaconi di ministrare all’altare con la dalmatica salvo indossare la poenula nelle celebrazioni aventi un carattere penitenziale [12], va comunque considerato e tenuto in debito conto che l’uso della stessa – anche da parte degli accoliti - è attestato in alcuni luoghi fino all’XI secolo [13]

Fu quindi dal generalizzarsi dell’uso ecclesiastico della poenula che ebbero a formare la loro identità la casula o planeta occidentali e il φαιλόνιον dei greci [14]. La necessità di piegare o levare la casula  - nei modi e nei momenti che poi vedremo - deriva da mere esigenze di funzionalità, praticità e comodità che appaiano quanto mai opportuni se non necessari tenuto in opportuno conto l’ingombro che essa doveva costituire per un chierico cui incombe il servizio del celebrante e al quale sono richiesti diversi spostamenti per le sue mansioni come ad esempio al diacono, o l’impaccio che doveva costituire, per fare un altro semplice  esempio, salire gli scalini dell’ambone con un indumento così ampiamente foggiato. Detta necessità indubbiamente portò al lento cristallizzarsi degli usi che trovarono progressivamente sistematizzazione normativa nei libri liturgici. Anche quando l’ampiezza del paramento venne meno non cessarono questi “segni” ormai fissati, codificati e diventati norma; a titolo di completezza non si può trascurare il fatto che molti gesti legati alla pianeta sarebbero incomprensibili se non in considerazione delle fattezze primigenie o comunque antiche di questo indumento: così il Caeremoniale episcoporum che prescrive di arrotolarla sulle braccia [15], o il messale stesso laddove impone di sollevare la pianeta al momento in cui il celebrante eleva le sacre specie [16] , un accorgimento ormai solamente rituale poiché, per usare le parole del Bonanni, “essendo ora aperta non vi sia tal bisogno”[17].

Ma come si addivenne a questi usi? Bisogna, a mio vedere, fare riferimento ai più antichi ordines che - secondo Callewaert - consentono di evincere, ad esempio, che i diaconi indossassero nei giorni festivi la poenula sopra la dalmatica deponendo la prima nell’accesso al presbiterio nelle occasioni festive e ministrando, invece, parati con la poenula negli altri “in signum moeroris” [18]. Effettivamente l’assunto ha riscontro con gli ordines più antichi e la destinazione ai tempi di mestizia – in seguito - si ravvisa fino alla codificazione “classica” e all’abbandono recenziore. A titolo esemplare secondo l’Ordo I, i diaconi si spogliano della poenula proprio facendo accesso al presbiterio [19] - mentre dal III (esso è di fatto un’appendice al I) in poi la levano al Gloria -  i suddiaconi (Ordo I) della schola cantorum la raccolgono sul petto all’inizio ed anzi, colui che fra di essi li dirige nel canto, la toglie del tutto all’inizio della messa [20]. Non sarà superfluo rammentare – stando sempre all’opinione di Michel Andrieu – che l’Ordo I, la cui redazione rimonta all’VIII secolo, ebbe lo scopo di diffondere il modo di celebrare romano nelle Gallie [21]

L’utilizzo della poenula per i tempi penitenziali è da ricondursi, secondo l’abate Mario Righetti, alle processioni stazionali che si compivano donde deriva la necessità di un indumento esteriore ampio e coprente allo scopo di proteggersi dalle intemperie, un tanto potrebbe essere bastato a caricare le pianete indossate dai ministri di un significato di mestizia, mantenutosi proprio in quei contesti liturgici che si sono rivelati maggiormente conservativi nel mantenere le costumanze più antiche [22]. Va tenuto altresì in debito conto che l’antica poenula era generalmente confezionata in lana grezza e presentava colorazioni scure con le quali veniva ad opporsi – in un certo qual modo – alla dalmatica che, per il suo colore chiaro ed il suo ornato a clavi purpurei, evocava un carattere più marcatamente festivo. 

A Roma ab immemorabili – e ben prima della codificazione duecentesca del “canone dei colori”, spesso figlia dell’attribuzione di significati simbolici, - vi era una distinzione tra vestes albae, destinate ai momenti di festività e  vestes pullae caricate di una significanza luttosa. Ciò portò una certa varietà - ed anzi incertezza - nell’individuazione delle circostanze nelle quali far parare i ministri con la poenula come ad esempio l’avvento, la settuagesima, la quaresima e le messe dei defunti, gli usi andarono a unificarsi e rendersi omogenei tra i secoli XII e XIII mantenendosi e cristallizzandosi nella forma che ho definito “classica” [23].
Distribuzione dei ceri alla Purificazione ("Candelora").

Pianeta piegata e stolone in "paonazzo romano".
La codificazione tridentina è certamente debitrice degli Ordines più recenti nonché riconducibile alle opere del Patrizi Piccolomini e del Grassi. In merito al nostro argomento la troviamo nella sostanza  e contenuti identica dalla promulgazione del Missale Romanum nel 1570 fino all’edizione VI dopo la tipica dello stesso approvata nel 1952 (cit.). Gioverà riportare la rubrica nella sua completezza:

“6. In diebus vero jejunorum (praeterquam in Vigiliis Sanctorum), et in Dominicis et Feriis Adventus et Quadragesimæ, ac in Viglilia Pentecostes ante Missam (exceptis Dominica Gaudéte etiam si ejus Missa infra hebdomadam repetatur, et Dominica Lætáre, Vigilia Nativitatis Domini, Sabbato sancto in benedictione Cerei et in Missa, ac in Quatuor Temporibus Pentecostes), item in benedictione Candelarum et in Processione: in die Purificationis B. Mariæ: in Cathedralibus et præcipuis Ecclesiis utuntur Planetis plicatis ante pectus: quam Planetam Diaconus dimittit cum lecturus ets Evangelium, eaque tunc super sinistrum humerum super Stolam complicantur: aut ponitur aliud genus Stolæ latioris in modum Planetæ plicatæ; et facta Communione resumit Planetam, ut prius. Similiter Subdiaconus dimittit eam cum lecturus est Epistolam, quam legit in Alba, et ea finita, osculataque Celebrantis manu, Planetam resumit, ut prius.
7. In minoribus autem Ecclesiis, prædictis diebus jejuniorum Alba tantum amicti ministrant: Subdiaconus cum Manipulo, Diaconus etiam cum Stola ab humero sinistro pendenti sub dexterum.” [24]

Dal testo mutuato dal corpo rubricale  vari sono gli aspetti meritevoli di essere in qualche modo evidenziati: anzitutto l’esclusione – come si è visto arcaica - dell’uso della dalmatica e della tunicella in contesti di messe dal carattere penitenziale, ma anche il riservare l’uso delle pianete da parte dei ministri alle sole chiese cattedrali e le “praecipuis ecclesiis”. Circa le individuazione delle chiese ricomprese nella definizione citata, la Sacra Congregazione dei Riti ebbe modo di pronunciarsi, orientandosi, seppure tardivamente, verso una definizione allargata e non limitata solo a chiese collegiate, basilicali o le chiese insigni di religiosi tanto che si giunse ad annoverare tra le “præcipuis ecclesiis” anche le parrocchiali [25].

Roma, basilica sessoriana, ostensione delle reliquie della Passione
(Venerdì Santo, dopo la Messa dei Presantificati)
Affatto non trascurabile il richiamo alla ulteriore piegatura della pianeta, da parte del diacono, prima della proclamazione del vangelo che prevede addirittura la sostituzione con la “stola latior” o “stolone” per motivi di praticità. Dalla editio princeps del messale apprendiamo che lo stolone era detto nelle chiese romane “bastum” [26] probabilmente per la foggia che richiama il “basto” posto sul dorso del somaro. Sarà interessante notare il maggior “conservatorismo” nei confronti degli usi più arcaici della cappella papale laddove si introdusse tardivamente l’uso dello stolone preferendo ripiegare la pianeta e fissarla a tracolla [27],  L’uso di questa piegatura supplementare della pianeta o addirittura sostituzione con una “pianeta più comoda” da prima del vangelo fino a dopo la comunione appare come un’attenzione necessaria se consideriamo l’infittirsi delle mansioni che si concentrano in quella parte della messa e che ricadono nella sfera delle competenze del diacono.
Diacono con la casula avvolta e posta a tracolla
Lo stolone non è affatto – a dispetto del nome - una stola di dimensioni maggiori o un paramento a sé stante ma nulla è – come sopra si diceva – se non una “pianeta più comoda” e quindi maggiormente adeguata ed adatta all’espletamento degli uffici, ciò si evidenzia anche dal fatto che lo stolone non deve essere fornito della croce come invece è prescritto per la stola [28]. Tale attenzione è eminentemente pratica tanto che, qualora il vescovo celebri pontificalmente al trono, nei tempi in cui i ministri non fanno uso della dalmatica e della tunicella, i suoi canonici diaconi assistenti non tolgono mai la pianeta piegata dal momento che essa non andrebbe ad arrecare loro impaccio alcuno [29] .

Una certa ambiguità nel confondere lo stolone con la stola comune (che invece resta coperta dal primo) si era in ogni caso creata: i diaconi deputati al canto della passione nelle messe della domenica delle palme, del martedì, mercoledì e venerdì santi, giusta le prescrizioni del Caeremoniale episcoporum, indossano, sopra il camice, la stola e il manipolo [30]; in alcuni luoghi si era instaurato l’uso, attestato anche dal Bauldry [31], di sovrapporre lo stolone, tale usanza fu cassata dalla Sacra Congregazione dei Riti nel tardo Ottocento [32]. In ogni caso l’uso della pianeta piegata era un tratto caratteristico dei tempi di penitenza tanto che neppure durante le celebrazioni solenni che si compiono “coram exposito”, ad esempio le quarant’ore, possono giustificare la loro sostituzione con la dalmatica e la tunicella [33].
Distribuzione delle palme.
Roma, S.Anselmo, processione delle palme.
Processione delle palme a Westminster
(celebra il card. Bourne)

Processione delle palme in Spagna.
Sono meritevoli di una rapida rassegna anche altri riti latini diversi dal romano. La liturgia della primaziale di Lione prevede l’uso delle pianete piegate per l’avvento, la quaresima eccetto la prima domenica in questa costumanza è da ravvisarsi l’antico uso di principiare le austerità quadragesimali il lunedì successivo la prima domenica [34], il venerdì santo non si adoperano. In questo rito il diacono prima di cantare il vangelo toglie la pianeta e non la ripiega o sostituisce con lo stolone [35].

Il rito ambrosiano prevede l’uso delle pianete piegate durante il tempo di avvento, la quaresima nonché alle rogazioni minori, nelle domeniche di quaresima il diacono depone la pianeta già per cantare le “preces” che in tali occasioni vengono proclamate subito dopo l’ ingressa. La liturgia milanese prevede per la domenica delle palme e il venerdì santo il colore liturgico rosso quindi i ministri si parano con la dalmatica e la tunicella. Nel caso di celebrazioni innanzi al Santissimo Sacramento solennemente esposto le pianete plicate si rimpiazzano – differentemente dall’uso romano -  con la dalmatica e la tunicella [36].

Braga ha un uso delle pianete piegate del tutto simile a quello romano se si eccettua l’uso della dalmatica e della tunicella per la benedizione e processione degli ulivi [37].

Presso i domenicani nei tempi penitenziali il diacono e il suddiacono ministrano senza “indumento esteriore” [38]; stesso uso si attesta anche presso i carmelitani dell’osservanza (“calzati”) [39] e presso i cistercensi [40].

Il rito dei certosini non prevede l’uso delle pianete piegate ma va ricordato che durante la messa il diacono si limita sempre a indossare la stola sopra il suo abito da coro, la cocolla, al momento della proclamazione del vangelo [41].

Un probabile retaggio dell’epoca in cui l’uso delle pianete piegate non si era ancora del tutto definito in modo univoco è ravvisabile presso i canonici regolari premostratensi i quali le prevedono anche per il tempo di settuagesima [42].

Per quanto concerne  i riti estinti afferenti la composita e variegata famiglia “neogallicana” sarà interessante soffermare e focalizzare l’attenzione sull’uso abbastanza diffuso, del quale ci ragguaglia il De Vert, di portare la pianeta piegata e posta di traverso (“plicata ex transverso”) verso sinistra [43] con l’evidente scopo di consentire maggiore libertà di movimento al braccio destro; in tale senso è esemplare la testimonianza offerta dal messale della chiesa metropolitana di Parigi promulgato durante l’archiepiscopato del Vintimille ove si prevede l’uso di “planetis transversis” (non nelle domeniche ma nelle ferie d’avvento e di quaresima e ove è previsto il digiuno), il diacono – sotto la pianeta così acconciata indossa già lo stolone qui chiamato “orarion” (modo col quale i greci chiamano la stola diaconale) il quale copre la sua stola ordinaria; sicchè al momento di proclamare il vangelo non dovrà fare altro che deporre la sua pianeta [44]. Le liturgie delle diocesi francesi presentavano vistose differenze attinenti i tempi in cui i ministri indossavano o meno la dalmatica e la tunicella e le pianete piegate. A mero titolo d’esempio, assolutamente non esaustivo, citio – proprio per renderci conto del livello di diversificazione delle prassi -  il caso di Limonges laddove il diacono si serve della pianeta piegata mentre il suddiacono indossa il piviale che depone per proclamare l’epistola [45] e di Autun ove nelle ferie di avvento e quaresima, nelle solenni vigilie e nei quattro tempi di settembre, i ministri non usano la dalmatica ma restano solamente con il manipolo sul camice (il diacono aggiunge la stola)  [46].

Anche nelle famiglie liturgiche orientali, a uno sguardo attento, non sfuggono utilizzi non esclusivamente presbiterali della pianeta o, come in questi contesti è meglio dire, del φαιλόνιον. Il lettore di rito greco riceve sulle spalle al momento della sua ordinazione (χειροθεςία) un φαιλόνιον non spiegato ma anzi piegato, se egli è secolare si appressa con esso altresì al momento della sua ammissione all’ipodiaconato [47],  tale costumanza fa propendere per un uso più esteso antico che qui rinveniamo limitato al solo momento rituale dell’ordinazione [48]. Sarà interessante notare che l’uso del φαιλόνιον non piegato ma accorciato nelle forme è conservato ancora nella tradizione russa nella χειροθεςία lettorale [49]
Imposizione φαιλόνιον accorciato
χειροθεςία lettorale di p. Seraphim (Roberto Valeriani Ropa, patriarcato di Mosca) 
Un’altra traccia dell’uso non presbiterale in ambito orientale della poenula, ancora una volta accorciata, è da scorgersi, stando all’opinione di Pilkington, nella mantellina (assai simile a una mozzetta) posta sul camice e che scende sulle spalle dei chierici che ministrano nel rito armeno [50].
Divina liturgia in rito armeno.
(si notano le "mantelline" sulle spalle dei ministri)
Ritorno nuovamente nell’ambito dell’argomento centrale per ripercorrere la storia di questa costumanza liturgica nella sua ultima fase. Senza dubbio sempre per praticità e comodità, nonché in questa precisa fattispecie il risparmio oggettivo di preziosa stoffa, si giunse, nei secoli successivi la codificazione tridentina, all’uso di tagliare la pianeta nella sua parte anteriore per portarla alla misura che assumerebbe nel caso della piegatura, sagomando altresì il gallone o il merletto ai nuovi contorni così definiti. Si può supporre che tale uso portò, a lungo andare, a un fraintendimento, giungendo quasi ad equivocare che le pianete di cui si servivano i leviti fossero qualcosa di differente dalla pianeta del sacerdote e forse a  portare progressivamente a una certa disaffezione. 
Pianete "mozzate" violacea e nera.
Pianeta "mozzata" violacea.
Il gesuita Braun, autore della più volte citata monografia sui vestimenti liturgici, afferma - e siamo all’inizio del XX secolo - che nei territori germanici era ormai caduto l’uso da parte del diacono e suddiacono di servirsi delle pianete [51]. Nel cinquantennio successivo, durante il pontificato del venerabile Pio XII, precisamente nel 1951, venne promulgato, “ad experimentum” per la durata di un triennio, il nuovo ordo del sabato santo [52]: in esso, oltre a una liturgia trasformata, troviamo espunte le casule piegate che in tutta la prima parte del rito (benedizione del fuoco, profezie, benedizione del fonte) venivano utilizzate e le troviamo sostituite con dalmatica e tunicella violacee.

Di pochi anni successiva la promulgazione del nuovo ordo della settimana santa [53], è il 1955: i riti contraddistinti da genuini tratti di arcaicità vengono ridotti, rivisti e ristrutturati sullo sfondo del pastoralismo e le pianete piegate sostituite dalla dalmatica e dalla tunicella. Si rileva in quegli anni una insofferenza verso questo particolare uso liturgico, citiamo – a titolo di esempio – il Fattinger che, nell’auspicare un’abolizione totale di tale costume, lo cassa quale anacronismo privo di significato [54]. Come si è detto l’edizione giovannea del messale (1962) non prevede espressamente il loro uso.

Si può affermare che l’uso delle pianete piegate sia un vero e proprio reperto vivente, un testimone inequivocabile di quello che era un uso non esclusivo della pianeta da parte del sacerdote tanto che l’abolizione ha portato a caricare la stessa di una nuova semantica, differente da quella consacrata dall’uso dei secoli e che anzi, proprio alla luce di questi, appare per lo meno ambigua se non addirittura scorretta. Fu certo un’azione che perlomeno è eufemisticamente classificabile come incauta quella di abolire questi usi. Incauta perché incoerente con un divenire organico che portò allo stratificarsi, definirsi e istituzionalizzarsi di usi secondo un lento processo di consolidamento cui fa antitesi, invece, un moto – o meglio un atto -  così repentino che abroga d’autorità.

Monsignor Annibale Bugnini, nel censire criticamente una delle sue prime “creature” – ovverosia il nuovo Ordo della settimana santa di cui poco fa ho fatto cenno, afferma, in modo invero piuttosto laconico e sbrigativo, che nessuno avrà a dolersi o sentirà la mancanza delle “pianete piegate” [55]: orbene questo non sembra un omaggio degno e rispettoso a quanto dai secoli più remoti giunse, forse miscompreso, fino a quegli anni. Anzi si può affermare che non sia riscontrabile alcun elemento oggettivo che deponga a favore di questa abolizione, nessun argomento solido ma solo autoritativo o, peggio, rispondente a criteri di soggettività o estetica.

Non posso inoltre tacere dell’incongruenza che rasenta l’assurdità di questa abolizione di un uso, di un’attenzione dedicata alla pianeta postulata nelle sue antiche ampie fattezze, che paradossalmente si colloca - dal punto di vista temporale - proprio nel periodo di massima fioritura del recupero dell’antica e ampia foggia, detta impropriamente “gotica” dei paramenti.


Pianeta piegata di foggia antica (notare come, nell'ultima figura, è avvolta e accomodata)
Anche, ma certamente non soltanto, questa abolizione, questo abbandono che per Leon Gromiér  “fait mentir les peintures des catacombes” [56], crea e implica un concetto e un sentire nuovo che sottende le riforme: un pastoralismo autoreferenziale che inaugura la reinterpretazione del simbolo;  si segna il passo di una nuova era, di un nuovo e inedito modo di procedere che – inevitabilmente – reca con sé la fine di quel ideale equilibrio, ravvisato ancora una volta da Gromier, per il quale la pastorale obbedisce alla liturgia e non viceversa [57]. Si tratta di tappe – all’apparenza ancora forse timide e quasi sommesse – ma evidentemente prodotte da una nuova mentalità e che segnano il passo verso la creazione di quel rito che Klaus Gamber classifica e denomina come “Ritus modernus” [58].

Francesco G. Tolloi
francesco.tolloi@gmail.com




Note:
[1] L’ultima edizione tipica del messale che postula l’uso liturgico di portare la pianeta plicata è Missale Romanum, editio sexta post typicam, Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1954 questa è quindi l’edizione cui faremo riferimento.
[2] Nel linguaggio comune odierno si tende a denominare “casula” il paramento foggiato in dimensioni ampie e morbide avvolgenti la persona, più vicino agli stilemi antichi, mentre, per contro, si costuma chiamare “pianeta” il paramento più stretto, scorciato e rigido che nei secoli passati ha conosciuto le sue particolari declinazioni nazionali (p.e. francese, ispanica ecc.). Il messale, e anche gli altri libri liturgici, invece, usano indifferentemente ora “casula” ora “planeta”; in tal senso qui considereremo i due termini come sinonimi. L’Andrieu afferma che il termine casula fosse estraneo al lessico liturgico romano sino all’Ordo XXXVI e che anzi – in antecedenza – esso designava la veste posta ai bambini neobattezzati; cfr. M. ANDRIEU, Les ordines romani du haut moyen age, IV les textes, Leuven, Spicilegium sacrum lovaniense, 1956, p. 149, in particolare nt. 7.
[3] Si impone una precisazione: in oriente – in particolare negli ambiti della tradizione costantinopolitana – la stola vescovile e quella sacerdotale sono identiche sia per forma che per modo di essere indossate; essa è chiamata επιτραχήλιου. La stola diaconale, invece, è chiamata οράριου. Essa è lunga e stretta, il diacono la fa pendere dalla spalla sinistra, tenendo poi le estremità in mano quando – ad esempio – deve indicare qualcosa, oppure la accomoda fissandola sotto l’ascella destra e quindi la fa incrociare sopra la spalla sinistra facendo cadere le estremità. Prima della comunione il diacono la acconcia a forma di “X” perché essa non sia d’impedimento nel suo ministrare. In questo particolare modo incrociato la porta sempre l’ipodiacono; generalmente la stola di cui si serve il diacono porta ricamata in direzione della sua lunghezza per tre volte la parola αγιος. Cfr. R. PILKINGTON, I riti orientali, Torino, L.I.C.E. – Berruti, p.31.
[4] B. GAVANTO-G.M. MERATO, Thesaurus Sacrorum Rituum, Venetiis, Balleoniana, 1792, I,  p. 48.
[5] M. BAULDRY, Manuale Sacrarum Caeremoniarum, Venetiis, Balleoniana, 1711, p. 202.
[6] A. PISCARA CASTALDO, Praxis caeremoniarum, Neapoli, Scoriggium, 1645, p. 178.
[7] Cfr. Rubricae Generales, in Missale Romanum, editio II iuxta typicam, Ratisbonae, Pustet, 1963, XIX, 137, c.
[8] C. CALLEWAERT, De Planetis plicatis, in «Ephemerides Liturgicae», L-X, 1936, p. 69.
[9] AMALARIO DI METZ, De ecclesiasticis officiis, II, 19 (P.L. 105, 1095).
[10] C. CALLEWAERT, De Planetis plicatis…cit., p. 70.
[11] L. DUCHESNE, Origines du culte chrétien, Paris, Boccard, 19205. p. 402.
[12] G. BRAUN, I paramenti sacri, Trad. G. ALLIOD, Torino, Marietti, 1914, p. 98.
[13] A. KING, Liturgy of the Roman Church, London-New York-Toronto, Longmans, 1957, p. 130.
[14] Presso la famiglia rituale costantinopolitana i greci solamente conservano la forma pressochè originaria del φαιλόνιον, i russi – ed in genere i popoli slavi – lo confezionano in forme meno ampie e molto accorciate nella parte anteriore.
[15] Cfr.: Caeremoniale episcoporum, Taurini-Romae, Marietti, 1935, lib. II, cap. VIII, n. 19.
[16] Ritus servandus in celebratione Missae, in Missale Romanum, editio sexta post typicam, cit., cap. VIII, n. 6.
[17] F. BONANNI, La gerarchia ecclesiastica considerata nelle vesti sagre e civili, Roma, Placho, 1720, p. 218.
[18] C. CALLEWAERT, De Planetis plicatis…cit., p. 71.
[19] M. ANDRIEU, Les ordines romani…, II, p. 126.
[20] Ibidem.
[21]Ibid, p. 38 e s.
[22] Cfr.: M. RIGHETTI, Manuale di storia liturgica, Milano, Ancora, 1959, II, p. 131 e s. Analoga motivazione sull’opzione della poenula in luogo della dalmatica per ripararsi dalle avversità metereologiche nelle processioni stazionali si riscontra, a titolo di esempio, anche in  G. DE VERT, Explication simple, litterale et historique des ceremonies de l’Eglise, Paris, Delaulne, 1720, II, p. 335.
[23] G. BRAUN, I Paramenti sacri…, cit. p. 90 e ss.
[24] Cfr. Rubricae generales Missalis, in Missale Romanum, editio sexta post typicam, cit., XIX (nel virgolettato abbiamo ritenuto di mantenere i criteri del messale quanto all’uso delle maiuscole, dittonghi ecc. rendendo in corsivo il testo in rosso nell’originale).
[25] Cfr SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Decreto 23 aprile 1875 n. 3352, in Decreta authentica Congregationis Sacrorum Rituum, IIII, Romae, Propaganda Fide, 1908, p. 52 e s. (in particolare al 7).
[26] Ritus servandus in celebratione missarum in Missale Romanum, Romae, Faletti Variscum, 1570 (rist. anast. a cura di M. SODI – A.M. TRIACCA, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, p. 22).
[27] Es. cfr.:D. MAGRI, Hierolexicon sive sacrum dictionarium, Venetiis, Balleonium, 1712., p 126. L’uso andò scomparendo opzionando per il più comodo stolone già pochi anni dopo la pubblicazione dell’opera citata, cfr: F. CANCELLIERI, Descrizione delle cappelle pontificie e cardinalizie di tutto l’anno, Roma, Salvioni, 1740, p. 312; qui il Cancellieri, nel descrivere ciò che fa il diacono prima di cantare il vangelo, scrive espressamente: “depone la pianeta piegata e ne piglia un’altra che forma uno stolone”.
[28] SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Decreto 25 settembre 1852 n.3006, in Decreta Authentica…cit., II p. 376.
[29] Caeremoniale episcoporum…, cit., lib. II, cap. XIII (pp. 154 e ss.).
[30] Ibid., lib. II, cap. XXI (p. 176)
[31] M. BAULDRY, Manuale Sacrarum Caeremoniarum…, cit. p. 222.
[32] SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Decreto 12 marzo 1897 n. 3949,  in Decreta Authentica…cit., III p. 327 e s.
[33] ID., Decreto 31 agosto 1867 n. 3161, in Decreta Authentica…cit., II, p. 455 e s.
[34] A. KING, Liturgy of Primatial Sees, Bonn, Nova et vetera, 2005, p. 50.
[35] Cfr. Liturgia Lugdunensis a sancta sede approbata, Rubricae Generales, 4   in Missale Romano-Lugdunense, Parisiis-Lugduni, Le Clere-Pelagaud, 1866. E anche: Le céremonial de la sainte église de Lyon, Lyon, Perisse, p. 262 e s. e p. 267.
[36] Cfr. Rubricae generales, 27 e 44 in Missale Ambrosianum, editio quinta post typicam, Mediolani, Daverio, 1946. Notiamo che il diacono nel rito proprio dell’arcidiocesi di Milano mette la stola sopra la dalmatica, mentre quando ministra con la pianeta la stola è tenuta sotto.
[37] A. KING, Liturgy of primatial sees…, cit., p. 213 e Rubricae generales, VIII, 6, in Missale Bracarense, Romae, Polyglottis Vaticanis, 1924.
[38] De coloribus, 4 in Missale S. Ordinis Praedicatorum, Romae, Hospitio Magistri Ordinis, 1933.
[39] A. KING, Liturgies of the Religious Orders, Bonn, Nova et Vetera, p. 296.
[40] Ibid., p. 127.
[41] Ibid.,  p. 38.
[42] Ibid., p. 185. Anche l’antico rito di Salisbury (Sarum) poi adottato anche a Londra nel XV secolo prevedeva l’uso delle pianete per i ministri nel tempo di settuagesima, cfr. ID, Liturgies anciennes, trad. B. PAUPARD, Mame, 1960, p. 424 e s.
[43] C. DE VERT, Explication…, cit., II, p. 335 e ss.
[44] Rubricae generales, X in Missale Parisiense, Parisiis, Usuum Parisiensium, 1738. Si veda anche: S. DE MOLEON, Voyages liturgiques de France, Paris, Delalaune, 1718, p. 247, nell’Opera è attestato l’uso di tenere lo stolone sotto la pianeta piegata anche ad Angers e a Rouen (ibid., p. 92 e p.313)
[45] Rubricae generales Missalis, XIV in Missale Lemovicense, Leomovicis, Barbou, 1830.
[46] De rubricis generalibus, V, 6 in Missale Aeduense, Aeduae, Dejussieu, 1845.
[47] I. HABERT, Aρχιερατικον Liber Pontificalis Ecclesiae Graecae, Parisiis, Petri Blasii, 1643, p. 38 e p. 306.
[48] Riferiamo – a titolo esemplare – il caso degli ξωκατάκοιλοι: costoro erano diaconi preposti al servizio del patriarca costantinopolitano. Essi indossavano la stola diaconale e il φαιλόνιον retaggio probabile del fatto che inizialmente essi erano presbiteri preposti ad alcune chiese minori dipendenti da S. Sofia (cfr. Ibid. p. 32 e s.).
[49] Cfr.: R. PILKINGTON, I riti orientali…, cit., p. 31 e p. 66, ma soprattutto J.G. KING, The rites and ceremonies of the Greek Church in Russia, London, Owen-Dodsley-Rivington, 1772,  p. 276 e s.
[50] Cfr.: R. PILKINGTON, I riti orientali..., cit. p. 40.
[51] G. BRAUN, I paramenti sacri…, cit., p. 96.
[52] Ordo Sabbati Sancti quando vigilia paschalis insaturata peragitur, editio altera, Romae, Polyglottis Vaticanis, 1952.
[53] Ordo Hebdomadae Sanctae Instauratus, editio typica, Romae, Polyglottis Vaticanis, 1955.
[54] R. FATTINGER, Dizionario tecnico-pratico di liturgia, Roma, Edizioni Paoline, 1958, p. 358.
[55] Cfr. A. BUGNINI – C. BRAGA, Ordo Hebdomadae Sanctae instauratus commentarium, Bibliotheca Ephemerides Liturgicae Sectio Historica 25, Roma, Edizioni Liturgiche, 1956, p. 56, nt. 28.
[56] L. GROMIER, Semaine Sainte Restaurée, in «Opus Dei», 2, 1962, p. 80.
[57] ID., Commentaire du Caeremoniale Episcoporum, Paris, La Colombe, p. 13.
[58] K. GAMBER, Die Problematik der Liturgiereform, in Ritus modernus. Gesammelte Aufsätze zur Liturgiereform, Regensburg, Pustet, 1972, p. 11.