sabato 30 maggio 2020

Santi Canzio, Canziano e Canzianilla, martiri aquileiensi - 31 maggio -

Sul numero del 29 maggio 2020 del settimanale della diocesi di Trieste "Vita Nuova" è stato pubblicato un mio contributo sulle figure dei santi martiri aquileiensi Canzio, Canziano e Canzianila (i Santi Canziani) un tempo presenti nei propria diocesani triestini. In accordo con la direzione del settimanale lo riproduco sul mio blog con l'intento, in un futuro che mi auguro prossimo, di raccogliere in una apposita sezione le notizie inerenti il santorale locale. Per utilità dei lettori del blog  ho aggiunto le "lezioni storiche" del Mattutino con la traduzione in lingua italiana ed anche - grazie al contributo del mio caro amico e collega di "ricerche liturgiche aquileiensi" Gianluca Gortan Cappellari che qui sentitamente ringrazio - un inno tratto dall'ufficio dei Santi Canziani presente nell'antifonale di Kranj (Slovenia) - ora custodito presso la Biblioteca Arcivescovile di Lubiana - afferente alla tradizione liturgica del rito proprio del patriarcato (fol. 206v-207r).

F.G.T.

“Aut Aquileiensem si fortasse acesseris urbem Cantianos Domini nimium venereris amicos”, con queste parole Venanzio Fortunato esortava i pellegrini, di passaggio ad Aquileia, a venerare le reliquie dei santi Canzio, Canziano e Canzianilla (talvolta chiamata “Canzianella”) “amici del Signore”. Grande era la fama di questi fratelli che sugellarono con il loro sangue la fedeltà a Cristo, una fama diffusissima geograficamente, riconducibile – secondo le parole di monsignor Ireneo Daniele (in “Bibliotheca Sanctorum”) alla stima di cui godeva la Chiesa di Aquileia nel contesto dell’antichità cristiana. Stando al racconto tramandatoci dalla loro Passio, i Santi Canziani erano tre fratelli romani di cospicua famiglia, legati in parentela con la stirpe degli Anici, che crebbero nella fede cristiana istruiti dal loro precettore San Proto. Venuto a mancare l’imperatore Marco Aurelio Carino (seconda metà del III secolo) - durante il cui regno potevano professare sostanzialmente indisturbati la fede cristiana - essi decisero di abbandonare l’Urbe per raggiungere Aquileia ove possedevano immobili e terreni e potevano contare sull’amicizia con San Crisogono. 

Prima di abbandonare Roma liberarono i loro schiavi e li battezzarono nonché distribuirono il ricavato della vendita dei loro numerosi beni ai bisognosi. Appena giunti ad Aquileia vennero informati che l’amico Crisogono, a motivo della sua fede, era stato tratto in arresto. Dagli altri prigionieri cristiani appresero che l’amico era stato ucciso ad Aquae Gradatae (oggi San Canzian d’Isonzo), una località a poco più di una decina di kilometri dalla metropoli altoadriatica presso il fiume Isonzo. La notte stessa apparve loro il Signore che li esortava a raggiungere il luogo del supplizio dell’amico. Assieme a Proto, a bordo di un carro trainato da mule, raggiunsero la vicina località. Nel mentre sostavano in preghiera alla tomba del martire Crisogono, vennero individuati dalle guardie inviate dai magistrati aquileiesi Dulcidio e Sisinnio che – in ottemperanza al mandato dell’imperatore Diocleziano – perseguivano i cristiani. Gli uomini d’arme intimarono ai Canziani di abiurare la vera fede e rendere omaggio ai falsi dei, ma - davanti al loro risoluto rifiuto - decisero di giustiziarli sul posto mozzando loro il capo. Era il 31 maggio dell’anno 303. Il presbitero San Zoilo diede loro sepoltura nei pressi della tomba di San Crisogono, poco lontano fu inumato pure il fedele maestro San Proto. Sul luogo della sepoltura sorse una basilica e dunque un monastero (probabilmente distrutto durante le invasioni ungare); la località di Aquae Gradatae prese il nome dai fratelli martiri tanto che un diploma imperiale dell’inizio del IX secolo lo denomina “vicus sanctorum Cancianorum”. Il culto dei Santi Canziani – di cui talora si ha contezza anche dai toponimi - crebbe e si diffuse enormemente oltrepassando i limiti del Friuli per raggiungere l’Istria, la Lombardia, la Slovenia, l’Austria. Troviamo la presenza del loro culto anche nei breviari e messali di rito ambrosiano novecenteschi per l’arcidiocesi di Milano, forse un antico retaggio dei serrati rapporti tra le due metropolie. La sede milanese fu tra quelle che rivendicavano le reliquie dei Canziani: la terza lezione “ad laudes” del 31 maggio (Breviarium Ambrosianum, Pars aestiva I, Mediolani, Daverio, 1957, p. 542) riporta che le reliquie di questi martiri aquileiensi furono poste “sub ara Confessionis” del Duomo all’epoca di San Carlo Borromeo. 

Ma proprio intorno le reliquie dei Santi Canziani ruota una interessantissima scoperta degli anni Sessanta dello scorso secolo quando, l’Istituto di Archeologia Cristiana  dell’Ateneo triestino diretto da Mario Mirabella Roberti, promosse degli scavi nel territorio del comune di San Canzian d’Isonzo. Durante le complesse operazioni furono riportate alla luce numerose testimonianze dell’antica località di Aquae Gradatae e fu scoperta la tomba dei Santi Canziani con un rivestimento di lastre marmoree. In essa giacevano tre scheletri di giovani individui: due di sesso maschile ed uno di sesso femminile, successive analisi addivennero alla conclusione che i tre erano legati da vincoli parentali, dando così attendibilità al racconto della Passio tanto che «ridonarono dignità storica alle figure dei Canziani, fino ad allora confinate nella leggenda, offrendo così alla Chiesa di Aquileia uno straordinario dono: le uniche reliquie certe di martiri aquileiesi» (G. Brumat Dellasorte, Canzio Canziano e Canzianilla, in Santi e Martiri nel Friuli e nella Venezia Giulia, a cura di W. Arzaretti, Padova Messaggero, 2001, p. 37). A Trieste il culto dei Santi Canziani è attestato nel quattrocentesco Breviarium del Capitolo Cattedrale e anche nei propria diocesani sino all’epoca di San Pio X col rito duplex. L’alleggerimento che si ebbe in quegli anni portò a limitarne le celebrazioni solo nelle chiese di cui erano titolari (cfr. Proprium Officiorum pro unitis dioecesibus Tergestina et Justinopolitana, Pars verna, Ratisbonae et Romae, Pustet, 1915, p. 22; qui il rito è sempre duplex e si fa riferimento alla Octava communi proprio perché considerati appunto patroni di specifiche chiese). Essi nelle diocesi di Trieste e Capodistria (stando al dato dell’annuario del 1933) erano titolari di ben sei chiese di cui alcune di antichissima fondazione. Tra di esse ricorderemo quella di Lanischie/Lanišče nel decanato di Pinguente/Buzet ove prestava servizio il Beato don Miroslav Bulešić ucciso in odium fidei nel 1947 nella canonica: martire in una chiesa intitolata a dei martiri.

Francesco  G. Tolloi


Scarica l'articolo tratto dal settimanale
diocesano di Trieste "Vita Nuova"


Giacomo Secante (seconda metà XVI secolo) I Santi Canziani.

Lezioni del secondo Notturno
[Lectio iv] Cantiánus præclára Aniciórum progénie, christiána fide longe clárior evásit. A puerítia sub Proti viri sanctíssimi disciplína instrúctus, neglécto aviatárum dignitátum fastu, elégit magis afflígi cum pópulo Dei, quam temporális peccáti habére jucunditátem. Quaprópter virtúte non minus, quam ætáte profíciens, Diocletiáno et Maximiáno imperatóribus, in christiános nefárie sæviéntibus, fidem, quam corde et ore profitebátur, ut opéribus étiam comprobáret, opulentíssimo véndito património, pecúniam omnem in christiános inópia laborántes distríbuit; plurimósque servos, quos domi alébat, sacro ablútos baptísmate, libertáte donávit. Ut vero céteris étiam fidélibus in váriis Itáliæ provínciis sum immanitáte persecutiónis geméntibus esset subsídio, assúmptis peregrinatiónis sóciis Cántio fratre, Cantianílla, ac Proto paris propósiti et fídei consórtibus, regiónes várias perlustrávit.

Canziano, della nobile stirpe degli Anicii, si dimostrò molto piu nobile per la fede cristiana. Educato fin da fanciullo nella disciplina di Proto, santissimo uomo, rifiutato il fasto delle dignità avite, preferì essere afflitto con il popolo di Dio, piuttosto che godere dei peccati del secolo. Pertanto, crescendo in virtù, non meno che in età, sotto gli imperatori Diocleziano e Massimiano, che scelleratamente incrudelivano contro i cristiani, per provare con le buone opere la fede che confessava con la bocca e con il cuore, dopo aver venduto il suo ricchissimo patrimonio, distribuì tutto il denaro ai cristiani più poveri; affrancò i numerosi servi della sua casa, dopo che ricevettero il battesimo. Inoltre, affinché ci fosse un aiuto anche agli altri fedeli che soffrivano la gravissima persecuzione nelle altre provincie dell’Italia, si mise a viaggiare nelle diverse regioni, prendendo come compagni di viaggio il fratello Canzio, Canzianilla e Proto, che gli si associavano nella fede e nella missione.

[Lectio v] Cum autem Aquiléjam adventásset, et quanta pridem passus fúerit Christi athléta Chrysógonus accepísset, ardentióri caritátis flamma succénsus, cœpit clam hortári omnes, v                        ut in propósito fídei permanérent; ac noctu vísitans eos, qui vincti in custódiis tenebántur, ad aspérrima quæque pro Christo perferénda ignítis sermónibus animábat. Et cum mox advérsus ómnia perícula impertérritus palam cœpísset annuntiáre Jesu Christi fidem, magna facta est virórum ac muliéreum accéssio ad illam profiténdam, dante Deo, ut signis atque prodígiis verbum Dómini confirmarétur : nam Cantiánus leprósos, et dæmónibus vexátos curábat, cæcici visum, ægris sanitátem impertiebátur.

Quando giunse ad Aquileia e fu informato di quanto avesse patito Crisogono, campione di Cristo, acceso di una fiamma di carità ancora più ardente, si mise a esortare tutti affinché rimanessero nel proponimento della fede; e nelle sue visite notture esortava con parole di fuoco coloro che erano detenuti in prigione affinché sopportassero qualunque tortura per Cristo. E una volta che, determinato a fronte di qualsiasi pericolo, si mise ad annuciare la fede in Gesù Cristo apertamente, subito ci fu una grande conversione di uomini e donne alla professione di quella, concedendo Dio che la Parola del Signore venisse confermata da segni e prodigi; infatti, Canziano curava i lebbrosi e gli ossessi dai demoni, e restituiva ai ciechi la vita ai malati la salute.

[Lectio VI] Quibus audítis Duclídius præses, ejúsque colléga Sinísius, Cantiánum ejúsque sócios Christo renuntiáre frustra jubent; torménta tamen in ipsos, propter exímiam géneris nobilitátem, nónnisi Imperatórum mandáto exhibére sunt ausi. Missis ígitur, qui reférrent, quod evénerat, ad hujúsmodi núntium excandescéntes conféstim rescríbunt, gloriósos Christi Confessóres, ni diis sacríficent, cápite plecténdos. Quare Sisínius, collécta spiculatórum manu, ipsos super rheda abeúntes inséquitur, comprehedítque eódem in loco ad Aquas Gradátas, ubi Chrysógonus martýrii cursum felíciter consummáverat. Tunc generósi athlétæ, elevátis ad cœlum mánibus, psalléntes et grátias agéntes Deo, seséque invicem confortántes, flexis génibus deprecabántur : Dómine Jesu Christe, Deus omnípotens, dírige santum Angelum tuum ad auxílium nostrum, ut confundántur omnes, qui adórant sculptília; ac deínde impávidi prídie Kaléndas Júnii sacras cervíces ferro præcidéndas constantíssime obtulérunt. Quorum córpora Zeno présbyter aromátibus condíta prope ejúsdem santi Chrysógoni sepúlchrum tumulávit.

Informati di ciò, il prefetto Duclidio e il suo collega Sinisio, ordinano invano a Canziano e ai suoi compagni di rinunciare a Cristo; tuttavia non osarono torturarli, per la nobiltà della loro stirpe, se non per avendo ricevuto il mandato imperiale. Invati dunque dei messi che spiegassero la situazione, a tale notizia essi [gli imperatori] adirati subito riscrivono che si condanni a morte i gloriosi confessori di Cristo, ove non sacrificassero agli dei. Sisinio, allora, scortato da una pattuglia di guardie, si mette ad inseguirli mentre si stavano allontanando in carrozza, e li cattura alle Acque Gradate, nel medesimo luogo dove Crisogono aveva felicemente coronato il martirio. Allora i generosi atleti, innalzate al cielo le mani, cantando i salmi e ringraziando Dio, facendosi forza a vicenda, pregavano in ginocchio; o Signore Gesù Cristo, Onnipotente Iddio, invia il tuo Santo Angelo in nostro aiuto, perché siano svergognati coloro che adorano le statue; e quindi impavidi, il giorno precedente il 1 giugno, con fermezza offrirono le loro teste per essere tagliate. Il sacerdote Zeno, unti i loro corpi con olii profumati, li tumulò presso il sepolcro dello stesso san Crisogono.

Da: Proprium Officiorum pro unitis Dioecesibus Tergestina et Justinopolitana, Pars Verna, Ratisbonae et Romae, Pustet, 1915, pp. 22 e ss. (vescovo A. Karlin)

* Le edizioni precedenti riportano gli stessi testi per le lezioni; ad esempio Proprium Officiorum pro unitis Dioecesibus Tergestina et Justinopolitana, Tergesti, Cum Typis S. Pastori, 1884, pp 162 e ss. (del vescovo G. N. Glavina), o Proprium Officiorum in usum Ecclesiarum unitarum Dioeceson Tergestinae et Justinopolitanae, Pars Verna, Ratisbonae-Romae-Neo Eboraci, Pustet, 1900, pp. 67* e s. (vescovo A. M. Sterk) La festa era celebrata come duplex. Come detto con il proprium del vescovo Andrej Karlin (1915) la celebrazione viene limitata alle numerose chiese delle diocesi unite di Trieste e Capodistria.

Inno dei Santi Canziani dall'Antifonale di Kranj.

fol. 206v.
fol. 207r.
Trascrizione dell'Inno di Gianluca Gortan Cappellari

venerdì 22 maggio 2020

San Servolo martire tergestino. - 24 maggio -

Sul settimanale della diocesi di Trieste "Vita Nuova", con il quale ho modo di collaborare, ho pubblicato alcuni articoli divulgativi su vari santi martiri tergestini ed altri sono in procinto di redigere e pubblicare Ho pensato di proporli anche in questo mio blog (col consenso della Direzione del settimanale che qui ringrazio), col proposito di ampliarli in futuro magari con qualche parte dei propria o altro (ad esempio dell'epoca in cui vigeva l'uso aquileiense) e magari di creare una sezione ad essi dedicata; inizio proprio dal compatrono san Servolo.

F.G.T.


Circa a metà della navata di destra più estrema della cattedrale di Trieste, si apre una cappella dove, nel corpo di un sobrio e lineare altare eretto negli anni Trenta del Novecento, trova posto un’urna di cristallo intelaiata in metallo argentato, opera del goriziano Giuseppe Lipizer, in cui si scorgono le ossa, in particolare il cranio, attribuite a san Servolo martire e compatrono di Trieste. Ma chi fu questo Santo che la Chiesa triestina venera come compatrono e che il Martyrologium Romanum ne commemora il martirio il 24 di maggio?
Per ottenere qualche informazione dobbiamo necessariamente rifarci alla sua Passio, con la necessaria consapevolezza che, in questi casi, ci troviamo di fronte a fonti compilate tardivamente e che spesso risentono di un certo modello stilistico, talvolta manieristicamente ricalcato e persino imitato, tendente a “fiorire” il nucleo del racconto fino quasi “offuscarlo”. Tuttavia non possiamo aprioristicamente prescindere da esse proprio perché spesso si tratta dell’unica testimonianza scritta.

Le ossa di san Servolo (Cattedrale di S. Giusto, Trieste)
Per quanto concerne la Passio del nostro compatrono, come riferì mons. Vittorio Cian dalle colonne del nostro settimanale poggiando la sua affermazione sugli studi del Saxer, essa è «degna di considerazione e passibile di indagini ed approfondimenti.» (Vita Nuova, 22 maggio 1987). Giuseppe Cuscito ha proposto, invece, delle osservazioni circa l’assunto dello studioso basate sull’analisi delle ossa che, diversamente da quanto narratoci dal racconto della passione, attestano trattarsi di un unico individuo di età adulta e non di un adolescente come tradito, ma anche  su altri elementi quali la figura del preside romano che  vedremo protagonista della vicenda (si veda in proposito: Cuscito G. Martiri cristiani ad Aquileia e in Istria, pp. 86 e ss.)

Dal testo della Passione apprendiamo che san Servolo era un giovane laico, nato in una famiglia di spicco e benestante della Tergeste di allora che lo fece crescere educandolo nella fede cristiana. L’indole del fanciullo ebbe a mostrarsi ben presto incline alla spiritualità ed alla contemplazione, tanto che lo si ritrova sovente immerso in quieta e profonda meditazione. Durante uno di questi momenti, il ragazzo – per ispirazione divina e nel desiderio di unirsi più intimamente al Signore – matura l’idea di ritirarsi a vita eremitica. A tale proposito elegge per suo riparo e luogo di ritiro dal secolo lo speco che in sua memoria ed onore ancora ne porta il nome. Questo luogo si trova in territorio della Repubblica di Slovenia, alle spalle del comune di Dolina, sopra di esso è sorto un castello, di cui oggi sopravvive solo una modesta parte, tra le cui mura tanta storia locale è passata.
Trascorsero quasi due anni, spesi tra preghiera, digiuni e mortificazione e all’insegna dell’anacoretismo, quando, la stessa divina ispirazione, lo portò a decidere di far ritorno presso i suoi cari. Nel percorrere il cammino verso casa, la sua strada fu attraversata da un serpente di grosse dimensioni. La vista del rettile atterrì Servolo che, una volta rincuoratosi, si avvicinò e con la sua mano tracciò un segno di croce e quindi soffiò provocando la morte istantanea del grosso serpente. Tra i tanti miracoli e prodigi attribuiti a Servolo ho ritenuto di riportare il primo di cui si riferisce per l’impatto che ebbe per l’iconografia, tanto che il martire san Servolo è quasi sempre rappresentato con ai piedi un serpente (nei celebri medaglioni di Pompeo Randi nella chiesa triestina dei  Cappuccini di Montuzza, il serpente assume le proporzioni di un drago).

Guarigioni, esorcismi, numerose conversioni diffusero la fama del Santo, sicché numerosi fra i triestini di allora accorrevano presso la casa di Servolo per essere da lui aiutati o sollevati. Ma con la crescente fama di santità, crebbe – del pari – il sospetto delle autorità romane preoccupate di veder distogliere i triestini dalla frequentazione dei templi delle divinità pagane. Fu proprio questa accusa che fu avanzata a Servolo tradotto in catene innanzi al preside Giunilo che dava corso agli editti dell’imperatore Numeriano volti a reprimere il cristianesimo. Il preside accusava di magia il nostro compatrono che ruppe il suo silenzio solo per dare testimonianza che i miracoli si attuavano per volontà di Cristo che tramite il suo operato si manifestava. La risoluta risposta di Servolo esacerbò Giunilo che impartì l’ordine di percuotere duramente il giovane che oppose, per contro, la sua fermezza e serenità. La perseveranza del giovane fu motivo dell’inacerbirsi dei supplizi inferti dai pagani persecutori: Servolo si vide lacerare le sue carni con acuminati uncini di ferro, fu straziato sull’eculeo, infine – per infiggere maggior tormento – dell’olio bollente fu cosparso sulle sue ferite aperte e sanguinanti. Ma dinnanzi a questo crescendo di crudeltà inferta Servolo mantenne la serenità. Esasperato da un tanto il preside ordinò la decapitazione di Servolo. Si compiva così il suo martirio, stando sempre alla Passio era il 24 maggio dell’anno 284. Durante la notte che seguì questi fatti, sua madre Clementia, si premurò di prelevare il corpo del figlio martire e per dargli – con l’aiuto di altri correligionari – una adeguata nonché degna ed onorata sepoltura.

La prima testimonianza artistica che attesta il culto di san Servolo ci è data dal mosaico dell’abside meridionale della basilica cattedrale di Trieste, ove san Servolo è raffigurato a destra del patrono principale san Giusto. 
San Servolo (dettaglio mosaico XIII secolo, Cattedrale di S. Giusto, Trieste)

La presenza nei testi liturgici locali è attestata con costanza dal quattrocentesco Breviarium ordinato secondo gli usi aquileiesi (cessati nel 1596) e il calendario locale nonché nei Propria diocesani.  

Va segnalato che nel XVI secolo in città si tenevano vivaci festeggiamenti in onore di san Servolo che culminavano con la processione con l’offerta delle cere presso le reliquie del martire e con una gara di balestra che si teneva nella “Piazza Maggiore”, con celebrazioni e manifestazioni che si protraevano per gli otto giorni successivi, un tanto ci dice del legame dei nostri concittadini di allora con i Santi protettori.
Non si ha certezza di luoghi di culto intitolati al santo martire compatrono, sebbene mons. Giusto Buttignoni ritenga che la piccola via omonima, alle pendici del rione di San Giacomo, tragga la denominazione da una chiesa non più esistente (San Giusto e gli altri Martiri Triestini, p. 43). Va notato che il Buttignoni sovente tende a dar spiegazione degli agiotoponimi sulla scorta di edifici sacri un tempo presenti. Invece possiamo in modo più verosimile sostenere l’esistenza di una chiesa ipogea proprio nella grotta ove visse san Servolo di cui rimane un altare. Appare certo che la tradizione locale circondava anticamente questo luogo di un’aura di sacralità: si usava, ad esempio, recarsi a raccogliere l’acqua di stillicidio nella grotta e le si attribuivano poteri miracolosi dovuti all’intercessione del Santo. Il Valvasor, parlando di questo luogo, alla fine del Seicento, riporta una leggenda secondo la quale nei dintorni non crescono le rape bianche, il popolo ricercava la spiegazione in una punizione di san Servolo che non fu sfamato dagli antichi paesani. Il fervore intorno a questo luogo ebbe a scemare nel secondo dopoguerra complici anche i dolorosi eventi che segnarono quei territori contesi.

Francesco G. Tolloi
francesco.tolloi@gmail.com




Lezioni del secondo Notturno.
[Lectio iv] Sérvulus, patre Eulógio, matre Cleméntia, Tergésti natus et ab infántia in Christi religióne pie educátus, cum duódecim esset annórum, extra civitátem in specum, quæ hodiédum sancti Sérvuli appelátur et altáre in ejus honórem eréctum habet, ubi vitam omni pœnitentiárum génere ásperam, sed rerum cæléstium contemplatióne et Dómini sui amóre suávem, per annum et novem menses duxit. Inde, monénte Deo, egréssus, cum domum patérnam repéteret in via serpéntem ingéntis magnitúdinis, signo crucis múniens se et in eum insúfflans, necávit. Sed et visus est mirábile impérium  in serpéntem infernálem obtinuísse; obséssum enim a dǽmone liberávit, píaque fert tradítio, néminem ex Tergestínis, ipso intercedénte, umquam dǽmonum infestatióne vexátum, uti nec domus, vel loca in quibus áliquid rúderum ex ejus specu pie asservarétur.

Servolo, nato a Trieste dal padre Eulogio e la madre Clemenzia, essendo stato educato piamente nella religione di Cristo fin dall’infanzia, all’età di 12 anni si ritirò per un anno e nove mesi in una grotta, che oggi è chimata di San Servolo e ha un altare a lui dedicato, dove visse aspramente per ogni genere di penitenze ma anche dolcemente per la contemplazione delle cose celesti e l’amore del suo Signore. Uscito di là, per ordine divino, mentre ritornava verso casa, uccise un enorme serpente facendosi il segno della croce e soffiando su di lui. Ma anche fu chiaro che egli aveva acquisito un miracoloso imperio sul serpente infernale; egli, infatti, liberò un possesso dal demonio e una pia tradizione tramanda che nessun triestino poteva essere attaccato dai demoni, né nessuna casa o luogo dove si conservasse piamente un qualche rudere della sua grotta.

[Lectio v] Mórtuo patre, cum Evangélii veritátem palam enúntians, Fulgéntiæ, nóbilis matrónæ, fílium qui letháli febri laborábat, apprehénsa manu, matri incólumem reddidísset, eóque miráculo matrem cum fílio ad fidem convertísset, et Dídymum cæmentárium, qui ex alto præceps rúerat, invocáto Christi nómine, prótinus sanásset; jubénte prǽside comprehénsus et in confessióne fídei constánter persevérans, nervis dire cǽditur, in equúleo torquétur, férreis úngulis excarnificántur et fervénti óleo nudus perfúnditur.

Dopo la morte del padre, mentre stava liberamente annunciando la verità evangelica, dopo che ebbe restituito incolume, prendolo per mano, alla nobile Matrona Fulgentia, il figlio che era affetto da una febbre letale, e dopo aver convertito alla fede, grazie a tale miracolo la madre e il figlio, e dopo aver sanato, per l’invocazione del nome di Cristo, il muratore Didimo, che era caduto dall’alto, per ordine del magistrato fu catturato e, perseverano nella confessione di fede con costanza, fu frustrato atrocemente, torturato sull’eculeo, fu scarnificato con artigli di ferro e cosparso, nudo, di olio bollente.

[Lectio vi] Quæ torménta cum sanctus Conféssor ætate adhuc juveníli, fortitúdine tamen plus quam viríli superásset, mortis tandem senténtiam lætus suscípiens, gloriósam martýrii palmam cápitis obtruncatióne proméruit, anno Dómini ducentésimo octogésimo quarto. Ejus corpus Cleméntia, pia mater, honorífice sepelívit; sacras ejus relíquias, póstmodum in arca marmórea decénter cónditas, in ecclésia cathedráli Divi Justi magna cum devotióne Tergestíni venerántur, eúnque inter civitátis Patrónos retulérunt.

Dopo aver sopportato con una forza più che virile tali tormenti, lui, il Santo Confessore, ancora cosi giovane, ricevendo con gioia la sentenza di morte, meritò la gloriosa palma del martirio per decapitazione, nell’Anno del Signore 284. Clemenzia, la sua pia madre, seppellì il corpo con onore. I triestini venerano con grande devozione le sue reliquie, ricomposte, poi in un’arca di marmo, nella chiesa cattedrale di San Giusto, e lo annumerarono tra i patroni della città.

Da: Proprium Officiorum pro unitis Dioecesibus Tergestina et Justinopolitana, Pars Verna, Ratisbonae et Romae, Pustet, 1915, pp. 20 e s. (vescovo A. Karlin)


* Le edizioni precedenti riportano gli stessi testi per le lezioni; ad esempio Proprium Officiorum pro unitis Dioecesibus Tergestina et Justinopolitana, Tergesti, Cum Typis S. Pastori, 1884, pp 148 e ss. (del vescovo G. N. Glavina), o Proprium Officiorum in usum Ecclesiarum unitarum Dioeceson Tergestinae et Justinopolitanae, Pars Verna, Ratisbonae-Romae-Neo Eboraci, Pustet, 1900, pp. 63* e ss. (vescovo A. M. Sterk) La festa del compatrono era celebrata come duplex majus. Nei propria redatti ad mentem delle riforme di San Giovanni XXIII, san Servolo è Commemoratio e dunque non ci sono le lezioni anzidette; cfr. Proprium Officiorum pro Dioecesi Tergestina, Torino, Marietti, 1964, p. 11 e s. (arcivescovo A. Santin).