giovedì 5 aprile 2018

A margine della settimana santa 2018: antico rito, vecchie polemiche.


Quando qualche anno fa pensai e decisi di inaugurare questo blog avevo pensato di implementarlo con dei contributi personali inerenti le materie di mio interesse primo fra tutti, come il nome dello stesso tradisce, la liturgia. Il lettore paziente potrà trovare evidenza di questa mia affermazione proprio sul primo post che allora pubblicai (qui).

Tra i miei propositi di allora vi era, tra gli altri, quello di evitare polemiche: già troppi luoghi virtuali erano diventati luogo di scontro troppe volte fine a sè stesso. Si sa che talvolta la persona, magari mite di suo, celata dietro una tastiera, si trasforma in un mostro, facendo bella (?) epifania di una aggressività normalmente nascosta e dominata e per paura e per convenzione sociale. Tale proposito evitai persino di enunciarlo, mi pareva già ex se latore di polemica, ritengo però in coscienza che qualsiasi mio scritto non abbia mai avuto contenuti livorosi e le affermazioni, per quanto “forti”, sono state motivate e suffragate: credo si tratti, innanzitutto di una forma necessaria di rispetto verso il lettore. Da parte mia ritengo che l’attuazione di questo proposito si evinca abbastanza facilmente anche da una lettura superficiale e, se vogliamo, persino distratta dei miei scritti pubblicati con una discontinuità cagionata dagli influssi della mia “vicenda umana” circa la quale, almeno in questo post, non intendo tediarvi.

Fatta questa succinta premessa forse vi sarete chiesti se vi sia da parte mia l’intendimento di mutare indirizzo. Posso fin d’ora assicurarvi che ciò non è nelle mie intenzioni. Tuttavia devo “togliermi qualche sassolino dalla scarpa”: propter veritatem non tacebo.

Quale sia questo “fastidioso sassolino” che mi dà noia è presto detto: la vacua polemica sorta relativamente alla possibilità, prevista – a certe condizioni e ad experimentum – dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei di compiere le celebrazioni della settimana santa secondo la modalità antecedente la riforma compiuta negli anni Cinquanta dello scorso secolo, segnatamente durante il pontificato di Pio XII.

Qualche amico mi aveva avvisato che già nei mesi scorsi in qualche luogo virtuale vi era stata qualche polemica da parte dei “soliti noti”, persone che hanno scoperto la liturgia antica l’altro ieri e che ora sono pronti a dare del cretino, ritenendosi impunibili perché nascosti dietro un nickname, a chiunque li contraddica nelle già stigmatizzate community (specie di lingua italiana). Pro bono pacis, e anche perché mi trovo ad avere altro di più importante da fare che correr dietro alle ubbie di costoro, ho evitato di andare a rendermene conto di persona anche per sfuggire , qui lo confesso, la tentazione, cui storicamente ho quasi sempre resistito, di rispondere. Chi mi conosce sa che sono fondamentalmente un vir pacificus. Ma mentre lavoravo sono stato raggiunto da un whatsapp di un mio fraterno amico sacerdote concittadino che mi avvisava e mi linkava uno scritto del noto professor Andrea Grillo (qui).

Davanti al nome del cattedratico ho ritenuto che profittare di una pausa per prendere visione dello scritto non sarebbe stato sufficiente, optando per dedicare maggiore attenzione e quantità di tempo, con la convinzione di trovare qualcosa che probabilmente non avrei condiviso ma che, in ogni caso, sarebbe stata corposa stante il “lignaggio” dello scrivente.  

Per i pochi che non lo sapessero il professor Andrea Grillo è docente di liturgia a S. Giustina a Padova e di Filosofia della Religione al Pontificio Ateneo S. Anselmo nell’Urbe. E a dispetto di ruoli tanto prestigiosi, spiace dirlo, venimus videre miseriam.

Grillo, nel suo scritto, riesce a dilungarsi oltremodo senza mai entrare nel merito: lancia invettive a destra e a manca finendo per far apparire il suo scritto un lamento per un mal di pancia cagionato dalla decisione dell’ Ecclesia Dei. Lungi dal mobilitare argomenti, il cattedratico punta il dito contro un presunto “difetto di giurisdizione” della Commissione: insomma alla settimana santa “tradizionale” mancherebbe un qualche timbro che permetta il suo sdoganamento. Il professore qui sembrerebbe fare il gioco del “piccolo rubricista”, mettendosi a fare il paio, mal per lui e mi dispiace, coi ragazzetti (molti non più tali per motivi anagrafici) che si beano, nelle succitate realtà virtuali, autocompiacendosi nel sentenziare con un “abolito” o “non abolito”.

Ma probabilmente colto dall’enfasi eccolo scaldare i toni del linguaggio finendo per fare affermazioni che lasciano perlomeno basiti. Stando al cattedratico savonese “solo l’ordo del 1969 garantisce la pienezza dell’espressione liturgica, teologica, spirituale della settimana santa”. Che dire? Siamo di fronte al superamento della “pluralità rituale”: diversi modi di esprimere la stessa fede, con buona pace del Magistero anche e soprattutto successivo al Concilio Vaticano II. Un chierico o fedele di un altro rito – poniamo per mero esempio quello greco o quello armeno – sarà dunque un fedele con un handicap o, per dirla con termini calcistici, un cattolico di “serie B”.

Una riga più sotto non risparmia una affermazione, a mio parere, piuttosto maldestra: “Già la riforma di Pio XII, che pure intuisce alcuni importanti recuperi storici, resta a metà del guado”. Non si capisce di quale guado egli parli, quale fiume si tratterebbe di attraversare che separa la modalità celebrativa della settimana santa tradizionale rispetto a quella del 1969? Poco più sotto, a suo modo lo chiarirà, peccato che non si accorge – o fa finta di non accorgersi – che la settimana santa del 1955 e quella del 1969 condividono l’impianto (a scanso di equivoci lo ripeto: l’impianto!). Anzi: la settimana santa del 1969 va a correggere alcune criticità che il rito scaturito da Maxima redemptionis presentava, probabilmente figlie di un’ “ansia da promulgazione”, molto evidente nel volume memoriale di mons. Bugnini sulla riforma.

Ma ecco che l’autore qui si appressa a “calare il carico di briscola”, non senza prima evocare un trito e ritrito luogo comune, uno dei must degli accesi nemici dell’antico rito: per definire l’ordo della settimana santa precedente il 1955, per semplicità, usa la locuzione “tridentino puro”. Malafede? Spero di no e comunque, di certo, non mi sostituisco all’Onnipotente che solo scruta e conosce il cuore dell’uomo. Ignoranza? Ne dubito: innanzi a tanto curriculum mi sentirei di escluderlo. Eppure l’affermazione sembrerebbe uscita dalla penna di chi non ha visto un Missale romanum se non su uno scaffale polveroso di una sacrestia e pensa sia un grosso volume dotato di una più o meno ornata legatura e nulla più.

Orbene se c’è qualcosa in quel libro “misterioso” che non rientri inequivocabilmente nella definizione di “tridentino puro” è proprio la settimana santa. Nella celebrazione di questa sono evidenti gli arcaismi, autentiche testimonianze di una nobile vetustà, circonfusi da una “reverenza conservativa” che da sempre era connaturata alla Chiesa. Non se ne avrà a male il lettore se qui faccio bonaria pubblicità al mio lavoro di traduzione e commento alla celebre conferenza parigina del 1960 di monsignor Léon Gromier sulla settimana santa pacelliana che feci nel 2014 e su questo blog ho appena riproposto ovviamente senza la pretesa dell’esaustività (lo sottolineo). Una lettura scevra di pregiudizio sarà senza dubbio latrice di interessanti stimoli.
Dunque perché l’utilizzo, da parte del professor Grillo, della locuzione “tridentino puro”? Poteva chiamarla settimana santa “antica”, settimana santa “vecchia”, “prepacelliana”, “pre 1955” e in tanti altri modi eppure sceglie, anche probabilmente per brevitas, di usare l’espressione “tridentino puro”.

Dopo questo scivolone ecco il “carico di briscola” che avevo annunciato poco più sopra: l’adozione del rito tradizionale della settimana santa “appare, oggi, improponibile se non per alimentare una Chiesa ridotta a museo diocesano o a coltivazione di attaccamenti nostalgici al limite della patologia sociale prima che personale”. La decenza mi impone di glissare sulla chiosa finale laddove l’accademico si lascia andare a psicanalisi da “bar dello sport”, ma ciò che trovo assolutamente fuori luogo è considerare un modus orandi antico di secoli,pregno di segni e significato, alla stregua di una suppellettile da destinare a un museo! Irriverente, inaccettabile: improponibile è il linguaggio di Grillo, non certo la riproposizione degli antichi riti della settimana santa.

Dopo l’infelice tentativo di emulare accenti tognazziani con una supercazzola – che a differenza delle originali non fa ridere –  giocando con il nome della Commissione mutuato dall’incipit del celebre Motu proprio di san Giovanni Paolo II del 1988 – ecco che Andrea Grillo sciorina il dato teologico. Anche su questo punto le aspettative del lettore, fin troppo paziente e benevolo, saranno prontamente frustrate; siamo nel campo dell’ovvietà assoluta. Ebbene vi ricordate quelle cose che si collocano nel filone de “l’acqua è bagnata”, “il sole riscalda” con le quali da pargoletti i grandi ci intrattenevano, celiavano e talvolta ci annoiavano? Ecco Grillo, con la solennità dell’occasione, sermoneggiando ci ricorda che “forma liturgica e contenuto teologico sono strettamente connessi e non si possono separare”. Grazie Professore….“lex orandi, lex credendi”, non lo abbiamo mai sentito, vero?

Ma quale sarebbe il dato teologico che angustia l’accademico? Ebbene il problema – che parrebbe essere all’origine della gastroenterite del professore – è che il triduo more antiquo sarebbe ancora calato nella quaresima, ciò sarebbe persino lesivo – a suo dire - della “comunione ecclesiale”, egli avanza l’ipotesi che nella forma tradizionale del rito romano (come altrove, qui per convenzione e comodità intendo quella precedente le riforme degli anni Cinquanta del Novecento) menerebbe a “un triduo della passione e un triduo della resurrezione giustapposti”. In sostanza per Grillo si rischierebbe di “affermare la autonomia della passione dalla resurrezione”. A tale proposito, con un irriverenza alla quale ormai ci siamo abituati, scomoda, a mio vedere faziosamente, ma sicuro astraendolo dal contesto in cui fu pronunciato, un piuttosto celebre paradosso sulla redenzione operata nel sangue di Cristo, del cardinale Alfredo Ottaviani.

Procediamo brevemente e con ordine cercando di capire la questione sollevata, secondo me, al solo scopo di gettare fumo negli occhi e sollevare un inutile polverone. La riforma scaturita dal Concilio Vaticano II porta a un’identità autonoma e, se vogliamo, indipendente del triduo. In sostanza la quaresima verrebbe a cessare prima della celebrazione della cena del Signore il giovedì santo. È una questione piuttosto antica e riguardava, un tempo, la preoccupazione della coincidenza  dei giorni effettivi del digiuno in rapporto al dato numerico, essa andò ad ideare e strutturare, siamo nel V secolo,  un “prologo” (il virgolettato è d’obbligo) di qualche giorno che ha inizio col mercoledì delle ceneri. La secreta della prima domenica di quaresima, nella forma tradizionale del rito romano, allude in modo nitido e manifesto all’esordio proprio di quel digiuno: “Sacrificium quadragesimalis initii solemniter immolamus […]” ignorando che esso ha già avuto inizio. In sostanza il testo citato è precedente l’introduzione di quello che più sopra ho per semplicità denominato “prologo” e sta con evidenza a testimoniare la difformità della prassi esistente nella Chiesa di intendere la quaresima e il digiuno. Noto è l’esempio degli ambrosiani che non conoscono il mercoledì delle ceneri, evidentemente per un consolidamento e codificazione rituale precedente la sua introduzione, forse meno noto un uso della Primaziale delle Gallie di non fare usare le pianete piegate – segno del digiuno – ai ministri alla prima domenica di quaresima. Ma allora dove vorrebbe arrivare Andrea Grillo? Quali testi o aspetti dell’uso antico andrebbero a sancire questo iato tra passione e resurrezione? Grillo tace. La morte è premessa necessaria alla resurrezione, senza la prima la seconda non è attuabile a meno di non teorizzare una “non morte”, è ovvio che la resurrezione è quel “qualcosa” sine qua non, quel “qualcosa” di così strutturale alla fede cristiana, quel “qualcosa” di così centrale da rendere, in sua mancanza, vana la nostra fede, parafrasando l’apostolo san Paolo.

Non è mio uso abbandonarmi, specie nella scrittura, a sentimentalismi o a dati autobiografici ma visto che ho premesso che faccio delle eccezioni mi prendo questa licenza (anche perché siamo nel mio blog). Voglio ricordare dei sabati santi vissuti. Dopo la lunghissima prima parte del rito,  i ministri sono prostrati alle invocazioni delle litaniae sanctorum, i cantori hanno appena modulato l’invocazione “Peccatores, te rogamus audi nos”, rivedo nella mente il celebrante coi suoi ministri alzarsi e allontanarsi dal presbiterio. Di lì a poco si spandono quelle note luminose del Kyrie pasquale (Lux et origo). Ecco di nuovo i sacri ministri, ora sono vestiti di bianco, ai piedi dell’altare danno inizio alla messa. Ebbene è come se fosse la “prima messa”, la prima messa di una nuova era, l’era di Cristo che ha spezzato gli opprimenti lacci della morte. Salgono all’altare, lo incensano. Il celebrante intona l’inno angelico, l’organo si trova a duellare per farsi sentire oltre il suono roboante e festoso  delle campane e quello più stridulo ed acuto dei campanelli “di servizio” agitati dagli entusiasti ministranti. Ecco cadere i veli che coprivano le immagini da qualche momento antecedente i primi vesperi della domenica di Passione. È risorto, come aveva detto! Vi posso assicurare che è una fatica contenere l’emozione in quei brevi attimi, io ritengo – per dirla con il russo Kern – che siamo di fronte alla “più alta cattedra di teologia”.

Ma torniamo a Grillo: non è – mi domando – che si voglia, consapevolmente o non, insinuare un’idea di una resurrezione che prescinde e nasconde la sua premessa necessaria ossia la morte? Non è che si voglia indulgere a un’icona di Cristo che non reca i segni inequivocabili ed indelebili della sua passione? Ebbene una pasqua senza venerdì santo non è immaginabile pena svuotarla totalmente dal suo significato: la resurrezione supera e sconfigge la morte, infatti, non la prescinde!

Formulata questa premessa l’accademico inciampa in una facilmente evidenziabile quanto grossolana contraddizione. Qui il teologo savonese, dopo essersi lamentato come visto della concessione, si duole che le competenze della Pontificia Commissione Ecclesia Dei esulino dagli ambiti della Congregazione dei Sacramenti e del Culto Divino e siano invece sottoposte alla Congregazione per la Dottrina della Fede. In sostanza Grillo lamenta che Benedetto XVI, nel 2009, abbia legato la Commissione alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Insomma professore, capisco il mal di pancia, però se prima il problema per Lei era di ordine teologico chi meglio dell’ex Sant’Uffizio può occuparsene?

In sostanza siamo di fronte non a una critica, come ci si poteva aspettare, ma davanti all’esternazione personalistica di un fastidio che Andrea Grillo fa dal suo blog con toni non propriamente accettabili.

Prima ho parlato dei trastulli di alcuni sulle web community ebbene c’è un sottile ma evidente fil rouge che li lega; non portano nessun altro argomento a suffragio delle loro critiche e censure che non sia quello autoritativo. Poco invero, troppo poco. Anche qui mi concedo un’ulteriore licenza autobiografica, questa volta profana. Vado ai vecchi ricordi della goliardia, quando spesso l’anziano sfidava la matricola o il “fagiolo” (studente del secondo anno) in tenzoni dialettiche piuttosto innocenti e talora facete spesso imperniate sulla “storia e cultura goliardiche”. Ebbene se l’anziano si trovava a corto d’argomenti tirava fuori la sua autorità poggiata sul brocardo maccheronico “pagat semper minus bolli”, ossia lo studente più giovane (con meno “bolli” degli anni accademici sul libretto come un tempo – non già il mio – si usava apporre) paga, in altre parole soccombe e di conseguenza cessa la disputa.

Siamo di fronte a strumentali interpretazioni restrittive di quella che, invece, è con ogni evidenza una istanza permissiva, di Quattuor abhinc annos prima, di Ecclesia Dei dopo e di Summorum infine. Certo è vero che si parla di libri in vigore nel 1962, ma è altresì inconfutabile che la ratio legis sia la “liberalizzazione” dell’antico rito. Il perché della liberalizzazione non risiede solo nella vexata quaestio della risoluzione della frattura con la Fraternità San Pio X (che appunto usa i libri del 1962), ma anche di produrre una “fecondazione” tale da consentire al nuovo rito di rientrare nell’alveo di una tradizione di sviluppo organico , come scrisse l’allora monsignor Joseph Ratzinger già nel 1976. Sull’argomento non posso che suggerire l’ottimo volume di Alcuin Reid reso disponibile in lingua italiana da Cantagalli. Dunque è lecito chiedersi quale che sia questo “antico rito”: sull’argomento già risposi ed argomentai e altri già lo fecero. Allora come oggi auspico un dibattito sereno (che esula in questo momento dagli scopi di questo mio insolito post) che porti a una vera presa di coscienza senza scadere in toni “grillini”.

Francesco G. Tolloi
francesco.tolloi@gmail.com

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