mercoledì 23 maggio 2018

Una particolarità liturgica francescana: la benedizione dei gigli nella festa di sant’Antonio da Padova.


Sant’Antonio da Padova, indubbiamente uno dei santi più venerati e invocati dai fedeli di tutto il mondo, ha la sua raffigurazione tradizionalmente accostata al bambino Gesù – con riferimento al miracolo di Camposanpiero – e al giglio, fiore comunemente associato alla purezza  intesa come caratteristica della condotta di vita e come categoria dello spirito; tale canone iconografico ebbe a instaurarsi e consolidarsi aggiungendosi o addirittura soppiantando il modello precedente che vedeva il grande santo francescano ritratto con il libro, evidente ed ovvia allusione alla profondità e vastità della sua dottrina [1].
Il 13 giugno – dies natalis di sant’Antonio il cui pio transito si compì a Padova nel 1231 – le edizioni novecentesche del Rituale Romano-Seraphicum, sia nella sua versione per i “minori” [2] che per i “conventuali” [3] che qui utilizzeremo, prevedono una benedizione dei gigli  in onore del santo.
Sant'Antonio da Padova (Guercino)
Pur non avendo modo di risalire alle origini di questa costumanza liturgica, emerge in tutta la sua evidenza di come essa sia stata modellata alla maniera delle grandi benedizioni sacerdotali che vengono compiute - in precisi momenti dell’anno liturgico – all’altare: le candele per la Purificazione, le ceneri e le palme [4]. Dall’altare, segnatamente dal cornu epistolae, il sacerdote presiede tali benedizioni così come il vescovo diocesano lo fa dalla cattedra.  Non sarà superfluo ravvisare qui una analogia affatto trascurabile ossia la coincidenza del luogo consacrato dalla tradizione per la proclamazione della orazione della colletta e per impartire tali benedizioni, ovverosia circostanze nelle quali la “presidenza sacerdotale” si esplicita, ciò rimonta al deposito più antico,  riscontrabile anche nell’ordo II che è coevo al primo [5] , riscontrare il permanere di tale concetto di fondo in una fonte sicuramente recente è di notevole interesse e significato. Il rito di benedizione dei gigli è quindi visibilmente debitore in parte a quello della benedizione delle candele e quello delle palme ed è “manieristicamente” modellato su di essi pur discostandosene: esso – come i suoi “modelli ideali” è legato alla celebrazione della messa che segue ma in questa particolare fattispecie , l’opportunità, può suggerire lo spostamento anche alla fine.

Il Caeremoniale Romano-Seraphicum [6] tace di questo particolare rito; nel redigere un manuale di sacre cerimonie ad uso dei chierici, i frati minori della provincia veneta Ilario Zordan e Francesco Tenderini rimandano esplicitamente al rituale dell’ordine e – nei punti meno chiari – ricorrono alle analogie con la benedizione dei ceri e delle palme onde disporre e favorire  un corretto e fluido svolgimento della cerimonia colmando le lacune delle rubriche del rituale[7].

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I gigli da benedire sono posti su una piccola mensa nei pressi del cornu epistolae dell’altare, i ministri sono rivestiti dei paramenti di colore bianco, il celebrante con il piviale, diacono e suddiacono rispettivamente con la dalmatica e la tunicella senza il manipolo. Fatta la reverenza all’altare salgono i gradini dell’altare, il celebrante – una volta baciata la mensa – si reca dal lato dell’epistola ove, premesso “Adjutorium nostrum” e “Dominus vobiscum” canta, in tono feriale, l’orazione “Deus, a quo omne bonum”. Detta orazione si riscontra anche in altre occasioni nel Rituale Romanum, ad esempio nella benedizione della prima pietra di un edificio [8]. Risposto come di consueto “Amen” all’orazione ha luogo l’infusione e la benedizione dell’incenso, il diacono proprio come alla messa – e anche alla c.d. missa sicca per la benedizione dei rami nella domenica delle palme – recita inginocchiato sull’orlo della predella il “Munda cor meum”.

La proclamazione evangelica avviene come alla messa, con l’assistenza degli accoliti coi ceri [9] e con il bacio del principio del testo da parte del celebrante sul libro recato aperto dal suddiacono. La pericope evangelica prescritta per la benedizione è tratta da san Matteo al capitolo VI (24-33) celebre per il richiamo all’impossibilità a servire due padroni e per l’ammonimento a non assecondare le necessità terrene con l’evocazione dell’ immagine del giglio il cui splendore è ineguagliato pure da Salomone nel fulgore della sua gloria.
Continuando a modulare con il tono feriale il celebrante canta il versetto “Justus germinabit”, quindi “Domine exaudi” e “Dominus vobiscum”. Segue l’orazione di benedizione dei gigli propriamente detta durante la quale, il celebrante, traccia due segni di croce sui candidi fiori. Il testo dell’orazione richiama esplicitamente i benefici di questi gigli benedetti in onore del grande taumaturgo Antonio: essi protegeranno dalle malattie e metteranno in fuga i dèmoni.

A questo punto ha luogo un’altra imposizione dell’incenso, i rami vengono aspersi – mentre il celebrante recita sommessamente l’antifona “Asperges me” – e quindi incensati.
Inizia la distribuzione, la rubrica del rituale dice che essa si compie “similiter ac in festo Purificationis B. M. V. cum candelis”, è da ritenersi perciò che, nonostante il silenzio delle nostre fonti, il sacerdote più degno presente in choro reca al celebrante il giglio benedetto; nel ricevere il fiore si useranno –  proprio in ragione di questa analogia – le stesse attenzioni ed eccezioni previsti per la candela e per il ramo ossia si bacia prima il giglio e quindi la mano del sacerdote (ricordiamo che comunemente, ricevendo qualche oggetto dal celebrante, si bacia prima la sua mano quindi l’oggetto).

Terminata la distribuzione muove la processione durante la quale si canta il responsorio “Si quaeris miracula”- attribuito alla penna di frate Giuliano da Spira - che celebra le virtù di sant’Antonio delle quali ben “possono dire i padovani”. Detto responsorio – molto conosciuto anche per il fatto che viene cantato tra le volte della splendida basilica padovana a lui dedicata dai frati “conventuali” ogni martedì – costituisce, nel breviario dei “minori”, l’ottavo responsorio del mattutino (tra seconda e terza lezione del terzo notturno) [10] .
Processione dei Gigli (Capodistria, 1942)
La processione termina con una brevissima statio innanzi i gradini dell’altare ove il celebrante, dopo il versetto “Ora pro nobis beate Antoni” eseguito dai cantori, proclama l’orazione “Subveniat plebi tuae”. La possibilità di svolgere la benedizione e la processione dei gigli senza i sacri ministri non è prevista nel Rituale Romano-Seraphicum (sia dei “minori” che dei “conventuali”), tuttavia, i citati frati Zordan e Tenderini, invocando l’analogia con la “Candelora”, ne danno una succinta istruzione con ogni evidenza ispirata Memoriale Rituum  [11].

I rituali francescani che abbiamo utilizzato prevedono altresì una formula breve per benedire i gigli, essa – approvata dalla Sacra Congregazione dei Riti nel 1901 – figura anche nel Rituale Romanum annoverata tra le benedizioni per i sacerdoti che hanno speciale induto dalla sede apostolica [12].

Francesco G. Tolloi
francesco.tolloi@gmail.com
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Note :

[1] Rammentiamo – a mero titolo di esempio - la tela del Guercino che raffigura sant’Antonio con tutti e tre gli elementi legati alla sua iconografia tradizionale.
[2] Rituale Romano-Seraphicum Ordinis Fratrum Minorum, editio tertia, Romae, Pax et Bonum, 1955, pp. 226-229.
[3] Rituale Romano-Seraphicum Ordinis Fratrum Minorum Conventualium. Romae, Polyglottis Vaticanis, 1942, pp. 314-317.
[4] Il rito di benedizione delle palme nella sua forma, disposizione e orientamento tradizionali si conservò sino al 1955 quando venne promulgato l’Ordo haebdomadae sanctae instauratus, Romae Polyglottis Vaticanis, 1955.
[5] Ordo II, in M. ANDRIEU, Les Ordines Romani du hau moyen age, II, Les textes, Louvain, Spicilegium Sacrum Lovaniense, 1971, p.  115 e s.
[6] Caeremoniale Romano-Seraphicum Ordinis Fratrum Minorum, Romae, Ad Claras Aquas, 1927.
[7] I. ZORDAN-F. TENDERINI, Piccolo Cerimoniale Romano-Serafico, Convento S.Lucia, Vicenza, 19432, pp. 181 e s.
[8] Rituale Romanum, editio juxtra typicam, Romae-Tornaci-Parisiis, Desclée, 1934,  p. 533. Ivi l’orazione si trova nell’appendice (posta dopo il Titulus XII), a seguito della riforma piana del Rituale la troviamo nel Titulus IX (segnatamente al VI capo), cfr. Rituale Romanum, editio prima post typicam, Romae, Polyglottis Vaticanis, 1957, p. 460.
[9] I. ZORDAN-F. TENDERINI, Piccolo Cerimoniale…, cit.. p. 182.
[10] Cfr. Breviarium Romano-Seraphicum, editio I juxta typicam, Romae, Pax et Bonum, pars aestiva,  pp. 708-723 . I minori “conventuali” serbano – invece – un ufficio differente nel quale non si ricorre al responsorio “Si quaeris”, cfr.  Proprium Officiorum ad usum Ordinis Fratrum Minorum Conventualium, Romae, Marietti, 1951, pars aestiva, pp. 75-88.  A titolo di curiosità riferiamo che il ministro generale dei “Minori” fra il 1933 e il 1944 p. Leonardo Bello, cultore delle scienze liturgiche e appassionato gregorianista – venendo a supplire almeno in questa fattispecie – la mancanza di libri di canto restituiti “ad codicum fidei” per la parte notturna dell’ufficio, ebbe a musicare in gregoriano il mattutino di sant’Antonio (In festo S. Antonii de Padua ad matutinum, Venezia, Gazzettino Illustrato, 1938). La melodia del responsorio del Rituale si ritrova con altre in raccolte quali: Cantus varii, Romae-Tornaci-Parisiis, Desclée, 1902, p. 108 o Cantuale Romano-Seraphicum, Parisiis-Tornaci-Romae, Desclée, 1951, pp. 194-181. Nella appendice critica di quest’ultima opera si evince che il “Si queris” nella versione melodica proposta nel Rituale non è quella di frate Giuliano da Spira ma è databile al XV o al XVI secolo (cfr. p. 394).
[11] I. ZORDAN-F. TENDERINI, Piccolo Cerimoniale…, cit. p. 182.
[12] Rituale Romanum…(1934), cit., p. 638.




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